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1.3 L’Ottocento

1.3.1 I ruoli della donna che lavora

Le trasformazioni familiari in rapporto alla struttura ed alle relazioni interne, sono comparse in modi diversi nei periodi storici e nei ceti sociali, ma nonostante non siano state affatto lineari, i processi di industrializzazione determinavano il cambiamento della famiglia, che passava da unità produttiva e riproduttiva, dove era possibile occuparsi del proprio sostentamento e della cura dei figli, alla separazione delle sue funzioni (Biancheri, 2012a). La divisione dei ruoli e delle funzioni non era possibile, però, nelle famiglie più povere, perché la donna che era costretta a cambiare il luogo di lavoro per recarsi in fabbrica, aveva anche il problema dell’allevamento dei figli da risolvere, in seguito al distacco dalla famiglia più estesa, per recarsi nelle città, dove le unità familiari diventavano più ristrette.

Come viene evidenziato dalla scrittrice Jameson, “la missione femminile non è conciliabile con la situazione di quelle donne su cui nessuno osa riflettere e tanto meno parlare”(Bock, 2000, p.164), ne sono esempio le operaie tessili a Manchester, che lavoravano l’intera

19 Il Codice Napoleonico dichiarava l’autorizzazione maritale “come principio costitutivo della famiglia”, gli articoli che la contemplavano venivano letti durante i matrimoni civili dal sindaco: “Il marito deve a sua moglie protezione e la moglie deve a suo marito obbedienza”(art.213) (G. Bock, 2000, Le donne nella storia europea.

Dal Medioevo ai nostri giorni, Roma, Bari, Laterza, pp.109-110). In campo civile, il marito aveva il privilegio di

godere di una serie di diritti, che andavano dalla scelta del luogo di residenza, al controllo dei beni anche se posseduti dalla moglie, la quale aveva l’obbligo di abbracciare le decisioni del marito e il divieto di agire autonomamente senza il suo permesso; si inseriva in questa cornice, l’abolizione della ricerca di paternità, con il conseguente annullamento dell’obbligo del padre al mantenimento del figlio illegittimo, la regolamentazione dell’adulterio che prevedeva una disparità di giudizio nei confronti dei coniugi, per cui la donna era sottoposta a punizioni di gran lunga più gravose rispetto all’uomo (Ibidem).

giornata, dalle dodici alle sedici ore giornaliere, fino a poco prima di partorire e dopo la nascita del figlio potevano allontanarsi da lavoro solo per pochi giorni, ma semplicemente perché non avevano la forza di lavorare; inoltre, a causa del loro stato di denutrizione, che non permetteva a molte di allattare i propri bambini neonati, si riscontravano realtà tragiche, che vedevano, nel migliore dei casi, donne affidare i loro figli neonati ai familiari o parenti dietro compenso, sacrificando così la loro misera paga, in altri casi somministravano oppio ai bambini per tenerli tranquilli, tanto da lasciarli a casa o portarli in fabbrica e tenerli sulle ginocchia, o ancora, i neonati erano affidati a ospizi, dove l’assistenza era insufficiente e la mortalità infantile era elevata.

Dalla metà dell’ottocento, i brefotrofi che accoglievano i neonati si contavano numerosi in tutta Europa e il numero dei bambini abbandonati cresceva a dismisura, tanto da riflettere una condizione di povertà in cui le madri vivevano e quindi, costrette ad esercitare ininterrottamente un lavoro retribuito.

L’icona della donna angelo del focolare contrastava ed era inconciliabile, quindi, con la situazione di queste donne, che vivevano la necessità di provvedere o di contribuire, con il proprio guadagno al sostentamento della famiglia; pertanto, l’abbandono del neonato, come sottolinea Bock (2000), “ non era frutto dell’indifferenza materna, come a volte è stato insinuato, ma anzi del desiderio di salvargli la vita…”(p.169)

In realtà, emergeva un’ evidente discrasia tra la difficile organizzazione della vita quotidiana delle donne operaie e quelle del ceto medio, che potevano occuparsi pienamente dei compiti domestici ed educare i figli (Biancheri, 2012a).

La separazione dei ruoli tra casa e lavoro, nella classe borghese, infatti, era ben distinta e l’identità femminile si costruiva con il compito di creare uno spazio d’intimità e di affetti per il marito e i figli, a fronte della funzione di protezione e di sostentamento economico che erano a carico del marito, nella sua posizione di capofamiglia.

Nell’epoca del capitalismo industriale, dove il concetto di lavoro acquisiva sempre di più il significato di produzione che definiva l’identità maschile, la “donna lavoratrice subisce la rivoluzione industriale” (Savelli, 2012, p.13), di fronte all’inconciliabilità tra le attività di produzione e di riproduzione; infatti, l’immagine di donna lavoratrice era anomala in una società in cui il lavoro retribuito e le responsabilità familiari erano divenuti compiti a tempo pieno e peraltro da svolgere in spazi separati.

La figura della donna che lavora sembra nascere con il processo di industrializzazione, ma solo perché diventava un problema sociale, dal momento che il rischio di perdere un

riferimento stabile e comodo, rappresentato dal ruolo privato e domestico della donna, incuteva timori e inquietudini (Biancheri, 2008).

In realtà, afferma la Fiorino (2008):

“le donne hanno sempre lavorato: hanno cioè sempre svolto, in continuità con il lavoro domestico, o lavori di sostentamento alla famiglia, che non si traducevano in denaro….,oppure hanno svolto lavori, quali le domestiche, operaie tessili…., la cui durata e la cui sistemazione sono sempre dipese dal ruolo familiare via via ricoperto dalle stesse donne” (p.4).

Infatti, la risoluzione alla drammatica questione casa-lavoro, veniva individuata dalle donne sposate nel dedicarsi a certi lavori mal pagati e non specializzati, a testimonianza della priorità dei loro impegni materni e domestici.

Si intensificava, così, il lavoro delle operaie a domicilio, che, oltre ad essere rafforzato durante il processo di urbanizzazione da un pregiudizio maschile, secondo cui le donne erano accusate di rubare il lavoro agli uomini nelle fabbriche, significava anche la continuità di una tradizione di lavoro a domicilio dell’età preindustriale (Sullerot,1969).

Molte donne si dedicavano al lavoro di cucito in casa, visto l’espandersi del settore dell’abbigliamento e l’immagine della sarta era idealizzata come lavoro più adatto alle donne e conciliabile con l’impegno domestico; in realtà, ogni tipo di lavoro a domicilio prevedeva una giornata lavorativa più lunga di quella svolta in fabbrica e un livello di salario molto basso, tanto da costituire una condizione di sfruttamento, che lasciava alla fine poco tempo per dedicarsi alla famiglia.