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La nuova dimensione del matrimonio e le nuove soggettività femminili

1.3 L’Ottocento

1.3.2 La nuova dimensione del matrimonio e le nuove soggettività femminili

Se da una parte emergeva una realtà legata alla precarietà economica del proletariato,

dall’altra la struttura nucleare della famiglia che si andava costruendo nei ceti popolari, intensificava legami affettivi nell’unione coniugale e l’ideologia del matrimonio, come incontro d’amore tra due individui.

Il cammino verso il superamento di una differenziazione sociale, contrastava il principio secondo cui le famiglie rimanevano alleate all’interno del gruppo di appartenenza attraverso matrimoni combinati e dava l’iniziazione ad una maggiore libertà individuale e autonomia di vita, a seguito delle quali, i rapporti di coppia, anche nel matrimonio, si coloravano di una maggior confidenza nella gestione della sessualità (Biancheri, 2012a).

Si iniziavano, quindi, a cogliere nuovi segnali all’interno del matrimonio, ma anche fuori da esso, che si contrapponevano ad un contenimento della sessualità, soprattutto nei confronti

della donna, anche se il matrimonio continuava a mantenere i suoi caratteri tradizionali, rappresentati da una funzione di ordine sociale, economico e morale.

Il matrimonio, quindi, tra innovazione e tradizionalità, faceva scorgere la possibilità di un legame basato sulla cooperazione e sulla parità, che nasceva da un sentimento di unione profonda e di complementarietà tra i coniugi e non da norme giuridiche atte a regolamentare i rapporti familiari.20

La famiglia si andava costruendo, così, su legami affettivi e sullo sviluppo del sentimento amoroso, che diventavano le basi per crescere ed educare i figli; l’interesse per l’allevamento della prole e per la socializzazione dell’infanzia, che veniva alimentato da un grande entusiasmo suscitato dai testi pedagogici di Rousseau, si inseriva in una “nuova intimità domestica” (Biancheri, 2012, p.49) e ridefiniva il ruolo attribuito alla figura materna, leggendolo come importante e centrale, in una prospettiva di superamento di naturalità e di immutabilità nelle biografie femminili.

Tuttavia, le nascite diminuivano, un fenomeno che sembrava non trovare una precisa causa che lo determinasse, come molti storici hanno avvalorato, ma che fosse riconducibile, invece, ad un’evoluzione culturale della donna, al modo di pensare se stessa come soggetto e attrice sociale (Biancheri, 2012a).

A tale proposito, si inseriva la volontà e il desiderio di ridurre le nascite, da parte di numerose donne sposate multipare, confessando nelle lettere e nei diari, la loro stanchezza e repulsione, anteponendo alla maternità il desiderio di conquistare del tempo libero per un’altra parte di vita personale.

A seguito di ciò, la pratica dell’aborto si diffondeva dalla metà del secolo, diventando un procedimento impiegato in un processo di limitazione delle nascite ed assumendo un significato di scelta da parte delle donne, piuttosto che un atto disperato di ragazze sedotte o di madri di famiglie numerose (Duby e Perrot,1990-1992c).

Emergeva, quindi, in questo periodo storico, “la crescente richiesta delle donne di veder riconosciuta la propria soggettività”(Biancheri, 2012a, p.40), non solo tra le mura domestiche, ma anche in ambito lavorativo, giuridico e formativo, in sintesi, il prendere coscienza da parte delle donne stesse, che sarebbe stato indispensabile rendere visibile la presenza femminile, nei molteplici compiti svolti, attraverso una progressiva conquista dei diritti.

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Biancheri (2012a), fa presente che l’intellettuale inglese John Stuart Mill, ” sosteneva con enfasi che regolamentare per legge i rapporti familiari….era sbagliato, poiché apparteneva alla sfera morale e che la donna avrebbe comunque scelto di occuparsi della famiglia…per Mill non è la legge, ma sono l’educazione e i costumi a fare la differenza, in quanto le donne vengono istruite per non essere indipendenti ed avere bisogno di un uomo che le protegga” (R. Biancheri, 2012a, Famiglie di ieri e di oggi.Affetti e legami nella vita intima, Pisa, ETS, p.60).

Uscire sulla scena pubblica come donna lavoratrice, rappresentava, quindi, nella mentalità femminile nascente, la strada per conquistare l’indipendenza, valorizzando il suo essere sociale, anziché l’essere naturale, identificato con quell’unico destino possibile a lei riservato: servire il marito, procreare e occuparsi dei lavori domestici.

Il pregiudizio che le donne rubassero il lavoro all’uomo e per questo considerate crumire, albergava in modo persistente nella mentalità maschile, alimentato da crociate antifemministe del filosofo Proudhon21, sostenitore dell’inferiorità della donna e della sua impossibilità a svolgere un mestiere.

Infatti, durante l’industrializzazione i posti nella fabbrica erano occupati dagli uomini, che venivano, poi, sostituiti dalle donne, pagate con salari più bassi, si costruiva, in questo modo, un circolo vizioso di ingiustizie, sia nei confronti degli uomini, in lotta verso il miglioramento delle condizioni di vita, sia nei confronti delle donne, di cui si sfruttava la loro condizione di povertà.

La classe lavoratrice operaia si divideva, in questo modo, in due forze antagoniste, lavoratori e lavoratrici e anziché costituirsi in unità come unica possibilità di difesa per l’emancipazione operaia, l’opinione che le donne non fossero fatte per lavorare, ma per rimanere a casa, si legava alla convinzione che il lavoro femminile fosse una dannosa concorrenza al lavoro maschile e che creasse disoccupazione (Sullerot,1969).

Nell’ideologia del cattolicesimo permaneva l’immagine della donna dedita al lavoro casalingo e i sindacati appoggiandosi all’opinione della Chiesa, strumentalizzavano la richiesta delle donne di ricevere lo stesso salario degli operai, con la finalità di opporsi alla concorrenza femminile e con l’intento di escluderle dal mercato del lavoro, sapendo che non avrebbero ottenuto il loro scopo.

Il problema delle donne dell’ottocento, quindi, non era la mancanza di lavoro, ma, per alcune, era la povertà, che le spingeva ad accettare drammatiche condizioni lavorative, per altre la dipendenza, se sceglievano il lavoro domestico a fianco di un marito che guadagnava a sufficienza e che, come rileva Bock (2000), “…per quanto duro potesse essere, sembrava a molte donne un’alternativa attraente al lavoro in fabbrica notte e giorno….”(pp.181-182).

21 Sullerot sosteneva (1969) che Proudhon “era un antifemminista patologico, narcisista e senza dubbio un pederasta mal represso, come affermano i suoi più recenti biografi.Nutriva per la donna tanto odio e tanta diffidenza, che si è scomodato a scrivere sulla donna delle elucubrazioni passionali di una tale stupidità ed esagerazione…..non sono affatto aspetti marginali, bensì l’espressione esasperata di un’opinione che fu molto ascoltata…..e contribuirono ad attizzare il fuoco tra lavoratori e lavoratrici”.(E. Sullerot,1969, La donna e il