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Il lavoro e la “barriera” dell’ordine sociale

1.4 Il Novecento

1.4.1 Il lavoro e la “barriera” dell’ordine sociale

E’ indubbio, tuttavia, che la guerra aprisse le porte alle donne, durante l’assenza degli uomini chiamati al fronte, nell’ambito di quelle professioni e mestieri, che fino a quel momento erano a loro preclusi.

L’accesso nelle fabbriche di armi rappresentò, per esempio, un significato di indipendenza economica, visto il salario più alto rispetto a quello corrisposto nei settori femminili e l’aumento della manodopera femminile si riscontrò anche in altre aree dell’industria, come in quella meccanica, chimica, elettrica e dell’acciaio.

Ma la valorizzazione del lavoro femminile e l’aprirsi di nuove possibilità professionali, si individuò soprattutto nell’impegno di molte giovani donne, insieme alle loro madri, nel

soccorso prestato ai soldati feriti e nell’occuparsi dell’organizzazione e direzione di ospedali ausiliari durante la guerra (Duby e Perrot,1990-1992d).

Nelle campagne francesi e italiane, inoltre, furono le donne ad occuparsi ed a mantenere in efficienza le aziende agricole, in assenza degli uomini, dove la divisione sessuale dei compiti e delle responsabilità si annullava.

Le donne erano ben consapevoli, sostiene Bock (2000), che “le loro nuove opportunità erano state determinate dalla guerra”(p.298) e nonostante le organizzazioni femminili protestassero di fronte ai licenziamenti, che le investirono al rientro degli uomini alla fine del periodo bellico, la tendenza dominante era di ritirarsi nella sfera privata

In parallelo, si andava consolidando una realtà, in cui le donne, in particolare le ragazze della borghesia, iniziarono ad entrare in tipologie di lavoro, come impiegate, insegnanti, infermiere e soprattutto nel settore terziario, a seguito della quale, il numero delle operaie continuava a diminuire.

Nei Paesi Europei, anche se in modo e in tempi diversi, dunque, si affacciava il lavoro della donna dipendente, ma in stretto rapporto con una mentalità tradizionale, poco favorevole all’avanzata delle donne nelle carriere intellettuali e liberali.

Come Sullerot (1969) fa notare, “ il 1919 conobbe una profonda ridistribuzione delle mansioni femminili…..a cui segue con impressionante parallelismo l’evoluzione delle donne…legata all’aumentato livello di istruzione”(pp.127-128) ed è proprio questo processo emancipativo che determinò una nuova divisione del lavoro, senza dover accusare le donne di aver “ cacciato gli uomini dalla vita attiva” (ibidem,p.128).

Tuttavia, il percorso emancipativo legato all’istruzione, conobbe nei primi decenni del XX secolo, una tendenza che limitava le ambizioni intellettuali delle ragazze, all’attestato di studi secondari o al diploma di scuole magistrali o per infermiere; infatti, modellando le ragazze in funzione di destini professionali femminili, orientati “a mestieri al servizio degli altri” (Duby e Perrot,1990-1992d, p.493) e “in quegli ambiti da sempre ritenuti adatti alle donne” (Ibidem, p.486), veniva mantenuto quell’ordine sociale, senza correre il rischio di pregiudicare i posti occupati dagli uomini.

Gli anni successivi alla guerra, si caratterizzarono, quindi, da comportamenti femminili ambivalenti, che, se da una parte le donne erano proiettate a riappropriarsi dei loro compiti domestici, dall’altra nasceva una donna nuova.

Si andava costruendo, nonostante le controversie, un’immagine di donna che lavorava o studiava, dimostrando “le nuove possibilità con il loro modo di vivere e con la loro presenza

pubblica”(Bock, 2000, p.304), che si identificava con un nuovo stereotipo di figura femminile definito garconne25.

Si diffuse, così, attraverso la comunicazione di massa, un diverso stile di vita, che differenziava le giovani donne dalle loro madri e nonne, borghesi o proletarie che fossero, schematizzato nella nuova moda di portare i capelli corti e le gonne al ginocchio, come simbolo di indipendenza economica.

In questa nuova dimensione, anche l’approccio al matrimonio e alla famiglia si poneva con un atteggiamento di riserva, rispetto al privilegiare, invece, un diverso rapporto di coppia e sessuale, una vita privata e di lavoro.

La nuova moda, però, non incontrava opinioni favorevoli sia in seno alle famiglie, sia nel mondo circostante e condannava la “donna che vive la propria vita” (Duby e Perrot,1990- 1992d, p.113), definendola “sgualdrina”(Ivi).

Anche i movimenti femministi contrastavano questo aspetto che ritenevano soprattutto apparente e moralmente decadente della nuova generazione, dove le giovani donne “non si impegnavano più per le tradizionali mete del femminismo” (Bock, 2000, p.306).

La pressione dell’opinione pubblica, sia maschile sia femminile, alla fine della guerra, si rivelò determinante ad influenzare l’atteggiamento femminile nel riprendere il ruolo naturale della vita domestica e nel ripristinare l’ordine sociale delle cose, sentendosi le donne colpevoli di far aumentare la disoccupazione e di distruggere la famiglia.26

Il forte vissuto delle donne nel loro ruolo di mogli e di madri, che determinava la loro scelta di tornare ad occuparsi delle proprie mansioni domestiche, riponeva in gran parte in quella missione che la Chiesa continuava in modo incisivo a trasferire nei compiti femminili.

Infatti, già con l’Enciclica Rerum Novarum di Papa Leone XIII, nel 1891, si sottolineava l’incisività della natura a destinare alla donna i lavori casalinghi, piuttosto di altri non adatti a lei; si precisava ancora con l’Enciclica Casti Connubi di Papa Pio XI del 1930, che pensare all’emancipazione della donna, significava la corruzione del suo spirito e della sua dignità materna e con la successiva Enciclica dello stesso Papa, nel 1931, Quadragesimo Anno, che i doveri della donna e del lavoro di madri di famiglia, si svolgono all’interno della casa e che è un abuso far cercare alle mogli un lavoro remunerato fuori casa.

25 “La Garconne”, fu il popolare romanzo di Victor Margurette (1922), con il quale incarna la donna che vuole uscire da una prigione per conquistare l’indipendenza finanziaria e la libertà sessuale, ma le aspre e violente reazioni dell’opinione pubblica, fecero radiare l’autore dall’ordine della Legion d’Onore e in Germania il libro fu censurato (G. Bock, 2000, Le donne nella storia europea. Dal Medioevo ai nostri giorni, Roma, Bari, Laterza). 26 A tale proposito Sullerot (1969) si rivolge alle donne, dicendo: “ Distendetevi dunque piccole donnine: fate le deboli da proteggere, ritrovate i vostri fornelli e i vostri angoletti femminili di salotto. L’ordine deve tornare e questo ordine esige che vi si voglia forti quando è necessario, ma che in tutti gli altri momenti si torni a desiderarvi disarmate e deboli” (E. Sullerot, 1969, La donna e il lavoro. Storia e sociologia del lavoro femminile, Milano, Etas Kompass, p.126).

Lo stereotipo della donna angelo del focolare, che si caratterizzava dalla debolezza fisica e quindi dalla necessità di essere protetta dalle fatiche eccessive di un lavoro, continuava ad essere sostenuto dagli uomini che insistevano sulla predestinazione biologica della donna nel suo compito materno, “valorizzandone la sensibilità a discapito dell’intelligenza” (Duby e Perrot,1990-1992d, p.114).

Inoltre, gli studi sempre più approfonditi e scientifici della medicina nell’allevamento e nella crescita dei bambini, rappresentati in particolare da Pasteur, rafforzavano il ruolo materno nell’adempimento della cura igienica soprattutto dei lattanti, come indispensabile per combattere la mortalità infantile, che si incrociava, altresì, con la lotta demografica, di fronte alla preoccupante diminuzione delle nascite.

E’ evidente, quindi, come sottolinea Sullerot (1969), “l’atteggiamento di critica severa che pesava su ogni donna tentata di infrangere un ordine così costituito” (p.158) e nonostante la nuova figura femminile accompagnasse un nuovo comportamento di donne liberate, le norme tradizionali continuavano a persistere.