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Datità e determinazione

2- Fenomeni e noumen

La limitazione vien tuttavia meno se ci addentriamo nella trattazione del concetto di “fenomeno”. Di esso si occupa in gran parte il capitolo sul “Fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni” e di conseguenza è qui che ci rivolgeremo ora con l'intento di proseguire ulteriormente nella specificazione di cosa intende Kant per quella materia indefinita che viene fornita ai nostri sensi e che abbiamo bollato sinora con il temine “datità”.

All'inizio del presente capitolo ci siamo chiesti se questa “datità” implicasse determinazione. A questo, oltre che all'altra nostra domanda riguardo quanto la “datità” sia un elemento costitutivo del sistema kantiano, cercheremo risposta nella “Distinzione”.

Se finora abbiamo trattato la componente data soltanto come un'esteriorità “contro” la quale determinare il tempo della nostra interiorità, essa è ora

considerata con molta più importanza, attraverso i concetti di fenomeno e noumeno, in un luogo della critica che funge da conclusione dell'intera Analitica Trascendentale. Questa Analitica contiene, come sappiamo, la Deduzione dei concetti puri. È per questo che vogliamo aggiungere ai già esplicitati obiettivi della lettura di questo capitolo, quello di esaminare la coscienza che Kant esprime su ciò che per lui sono i risultati dell'Analitica Trascendentale, approfittando dello sforzo che egli compie qui per sintetizzarli.29 Potremmo

capire così il peso che in essi spetta alla Deduzione.

Che posto trova dunque tale capitolo in questo generico sguardo sintetico sui risultati raggiunti? Un posto marginale. A chi è rivolta quindi l'attenzione? A delle conoscenze che presenterebbero secondo Kant un'utilità perfino per l'intelletto empirico, ovvero per chi, da studioso, non pretende di conoscere la fondatezza del suo sapere, ma si limita a servirsi dell'intelletto in modo strumentale; qualcosa di paragonabile alla situazione di chi utilizza per i suoi scopi una macchina senza avere una minima nozione di meccanica, ma soltanto di guida. Egli potrebbe non aver presente fino a che punto può forzare il mezzo, non conoscendone i limiti:

29 Così dichiara Kant: “Benché abbiamo già dato sufficiente risposta a queste domande nel corso dell'Analitica, un colpo d'occhio generale alle soluzioni date potrà rinsaldare la nostra convinzione in proposito, riunendo in un sol punto i mutevoli aspetti della questione”. KrV B 295/A 236.

“L'intelletto che non si occupi d'altro all'infuori del suo uso empirico, senza riflettere sulle fonti della sua conoscenza, è certamente in grado di conoscere benissimo, ma non è in grado di fare una cosa, cioè di stabilire a se stesso i limiti del proprio uso, rendendosi conto di ciò che sta al di dentro e di ciò che sta al di fuori dell'intera sua sfera. Proprio a questo sono indirizzate le indagini che abbiamo intrapreso.”30

È nel manifestare questa questione capitale che Kant dedica diverse pagine della conclusione dell'Analitica. Così facendo, sposta la concentrazione verso la celebre questione dei limiti dell'intelletto, verso l'impossibilità di varcarli e verso quanto si trova al di là di essi. Ciò non significa certo che non si tengano in mente in questi passi anche altri aspetti. Troviamo in effetti un accenno ai risultati riguardanti la Deduzione dei concetti puri31 e, sebbene nei confronti della

30 KrV, B 297/A 238, corsivo mio.

31 Si consideri al riguardo questo passo, dove c'è un implicito rimando al tema della Deduzione: “Prima di affrontare questo mare [della parvenza, tema della seguente parte della Critica] (…) sarà bene dare un ultimo sguardo alla carta del territorio che ci proponiamo di abbandonare, chiedendoci in primo luogo se sia possibile accontentarci di ciò che essa contiene, o se non dobbiamo accontentarcene per forza, per il fatto che non si dà altrove terreno su cui sia concesso edificare; e in secondo luogo per chiederci a qual titolo possediamo questo territorio, e in qual modo possiamo preservarlo da ogni pretesa nemica” KrV B 295/A 236, corsivo mio.

Confutazione può sussistere un dubbio riguardo al fatto se essa abbia davvero importanza e coerenza tale da essere tenuta in considerazione al momento di interpretare altre sezioni della Critica,32 lo stesso non può essere detto del

capitolo ora in questione.

Resta tuttavia vero che nel descrivere “i risultati”, l'attenzione è rivolta ad altro. Si potrebbe pensare che ciò sia dovuto al fatto che, essendo stato presumibilmente risolto dalla Deduzione il problema della conoscenza empirica, e restando ancora da trattare, non tanto la limitazione in generale del conoscere al sensibile, quanto la puntuale trattazione delle materie che in questa nuova sistemazione sono state private dei loro antichi privilegi, l'enfasi su questo risultato si presti bene a chiudere l'Analitica, lasciando così passo alla Dialettica.

Ma in questo modo il nostro problema iniziale riguardo non ciò che è al di là, ma ciò che è al di qua dell'intelletto, ovvero l'empirico a cui lo si vuole limitare, non è più al centro della scena se si pensa all'Analitica nel suo insieme.

32 Cfr. La Rocca, Soggetto e mondo, p. 53: “L'attenzione di Kant per la cogenza della argomentazione, la ricerca di precisione e rigore testimoniata dal continuo ritorno sugli stessi temi non sembrano dovute in questo caso al valore fondante di queste pagine per la filosofia critica (…). La Confutazione non costituiva infatti una reale 'aggiunta', dal punto di vista del contenuto, alle teorie elaborate nella prima edizione della Critica della ragion pura, né un tema di importanza 'costruttiva' per la critica della ragione paragonabile, per esempio, alla deduzione trascendentale delle categorie.”

Quale potrebbe essere il rapporto fra questi due risultati? Sono realmente separati oppure fanno parte di un'unica soluzione? Proviamo a determinare meglio cosa si intende per la limitazione dei concetti puri al solo sensibile come risultato dell'Analitica citando questo passo lungo quanto chiarificatore:

“L'uso trascendentale di un concetto, in un qualsiasi principio, è il seguente: il suo riferimento alle cose in generale e in sé stesse; mentre l'uso empirico sta nel suo semplice riferimento ai fenomeni, ossia a oggetti di un'esperienza possibile. Ma che soltanto il secondo uso sia in ogni caso possibile, risulta da quanto segue. Per qualsiasi concetto si richiede, prima di tutto, la forma logica di un concetto in generale (del pensiero); poi, in secondo luogo, si richiede la possibilità di fornirgli un oggetto, a cui si riferisca. In mancanza di tale oggetto, il concetto è privo di ogni senso e mancante di contenuto, benché contenga pur sempre la funzione logica di ricavare da particolari dati un concetto.”

Che soltanto il secondo uso di un concetto sia possibile è conseguenza anche della possibilità di fornirgli un oggetto. E la possibilità di fornirgli un oggetto è conseguenza diretta del rapporto fra concetti puri e oggetti, ovvero del tema della nostra Deduzione.

Supponiamo che per oggetto qui si intende quel fenomeno che è determinato in tutti i suoi aspetti rispetto a tutte le funzioni del pensiero (e che a

breve illustreremo meglio). Allora questo senso di oggetto è proprio pertinente al nostro problema, e la sua genesi è esposta nella Deduzione A come frutto di recettività e di spontaneità in una triplice sintesi.

Ma supponiamo altrimenti che qui si intenda soltanto la recettività del molteplice fenomenico offertoci dai sensi e dunque non elaborato. Anche in questo caso la Deduzione sarebbe di pertinenza, e perfino di maggior pertinenza, in quanto questo senso di oggetto è a nostro parere la colonna portante del suo problema, essendo l'affinità del molteplice sensibile dato con la nostra possibilità di conoscere che deve essere provata dalla Deduzione.

Infatti Kant nel passo appena citato ci dice che la limitazione all'uso empirico dei concetti, ovvero la conclusione espressa dell'Analitica, “risulta da

quanto segue”, cioè dai requisiti di un concetto per avere senso e contenuto,

ovvero da qualcosa la cui trattazione trova sede nella Deduzione.

Orbene, proseguendo con la citazione, si vede che è il secondo senso di oggetto che Kant ha in mente:

Ma l'oggetto non può esser dato a un concetto diversamente che nell'intuizione; e benché un'intuizione pura sia possibile a priori, prima ancora dell'oggetto, tuttavia anche una siffatta intuizione può entrare in possesso del suo oggetto, quindi della sua validità oggettiva, soltanto per mezzo dell'intuizione empirica, di cui costituisce la semplice forma. Ne deriva che tutti i concetti, e assieme a loro, tutti i

princìpi, pur essendo possibili a priori, si riferiscono a intuizioni empiriche ossia a dati per l'esperienza possibile” (KrV B 298/A 239, corsivi miei).

Ci sembra quindi che i due risultati siano intimamente collegati. Ricapitolando, è nella comprensione della natura delle categorie come forme intellettuali senza alcun significato se non rese operanti mediante dei contenuti sensibili che si radica la conclusione della loro vacuità nel caso in cui le si tenti di applicare al non sensibile. E qui evidentemente c'è un nodo comune con il nostro problema, perché questa affermazione presuppone che il loro legittimo campo di applicazione sia il sensibile e che su questo non restino dubbi derivanti, ad esempio, dalla insoddisfatta necessità di “dedurre” questa loro possibilità.

Torniamo ora alle nostre domande iniziali riguardo la “datità” e il concetto di “fenomeno”.

Se la nostra intuizione ci fornisce oggetti, ma essa ha, in quanto intuizione, delle condizioni a priori quali lo spazio e il tempo entro le quali i suoi contenuti devono necessariamente stare per essere recepiti, allora un'operazione del nostro intelletto semplice e naturale sarebbe considerare quegli oggetti separati dal nostro essere, ovvero dalle nostre condizioni per intuirli, e quindi come sono in sé, e non più per noi. Operare questa distinzione fra l'apparire di un oggetto, quindi il suo essere un fenomeno, e l'essere dell'oggetto che non ci può essere rivelato sensibilmente, ci obbliga a considerare quest'ultimo unicamente come

qualcosa di pensabile e mai intuibile. Come un noumeno.

Questa che noi scorgiamo verso gli oggetti è una tendenza a speculare su come starebbero se fossero indipendenti dalle condizioni della nostra sensibilità, ovvero dalla nostra “capacità di ricevere (recettività) rappresentazioni, mediante il modo in cui siamo affetti dagli oggetti.”33, come ci dice l'Estetica

Trascendentale. Ciò testimonia a favore dell'ipotesi che tali oggetti, in realtà, devono poter venir considerati come se avessero un origine che non è interno, se non altro come necessaria conseguenza delle tendenze della nostra mente applicata all'esaminarli. Come se la loro realtà non si esaurisse con il loro venir recepiti da una mente a cui risultano dati.

Ora vorrei fare una distinzione. Una cosa è il rapporto fra le nostre

categorie e i noumeni, e un'altra cosa è il rapporto fra l'oggetto per noi, o fenomeno, e l'oggetto in sé, o noumeno.

La determinazione del primo è la risposta alla domanda che si fa Kant se “i nostri concetti puri dell'intelletto sono suscettibili di un significato in relazione a tali esseri dell'intelletto [noumeni] e se costituiscono un particolare modo di conoscerli.”34.

La seconda invece è quella relazione della quale il nostro intelletto fa astrazione nella scoperta del concetto di noumeno, come riferisce Kant:

33 KrV B 33/A 19 34 KrV B 306

“[a]llorché l'intelletto chiama semplicemente fenomeno un oggetto, considerato secondo una certa relazione, dà luogo, contemporaneamente, a una rappresentazione che prescinde da questa relazione e che concerne l'oggetto in se stesso”.

È in questa relazione, che l'intelletto elimina nella considerazione di un noumeno, che crediamo consista propriamente la datità. In quel rapporto si trova la consapevolezza dell'indipendenza dei contenuti sensibili che appaiono come aventi un origine, quando conosciuti, che eccede questa conoscenza. “Se diamo il nome di noumeno a qualcosa in quanto non è oggetto della nostra intuizione sensibile” allora il noumeno è ciò che non ci è dato in alcun modo, e si distingue dal fenomeno come il non dato dal dato, ma dal quale la datità prende le mosse.

Perché ormai possiamo dire che per datità sensibile non intendiamo che questo avere un contenuto mentale determinato che rimanda necessariamente a qualcosa che non è un altro contenuto mentale determinato e da cui non può però, per essere concepito, essere staccato. Qui anticipiamo quel che verrà detto nella Deduzione A, perché ci avviciniamo a considerare questo elemento che va oltre la nostra sensibilità senza che essa se ne possa staccare in assoluto come un'”x” che funge da oggetto e unione delle nostre rappresentazioni.35

C'è una corrispondenza fra il nostro tentativo di tener distinti i rapporti intercorrenti fra concetti puri e noumeni e quelli intercorrenti tra fenomeni e

noumeni e la distinzione che fa Kant di noumeno in senso negativo e in senso positivo.

Nel senso negativo, noumeno viene definito come qualcosa che semplicemente “non è oggetto della nostra intuizione sensibile, in quanto si fa astrazione dal nostro modo di intuirlo.”36

Invece nel suo senso positivo il noumeno è un vero e proprio oggetto a cui non corrisponde un'intuizione sensibile, ma intellettuale. Perché, come abbiamo citato sopra per esteso, un “oggetto non può esser dato a un concetto diversamente che nell'intuizione” e se l'intuizione non può essere in questo caso sensibile, essa deve essere intellettuale. Ma un'intuizione intellettuale non è a disposizione della nostra facoltà conoscitiva, per cui in questo senso, un noumeno non deve mai essere considerato.

C'è però di interessante in questi due sensi di noumeno ancora una corrispondenza fra essi e la nostra distinzione tra i risultati dell'intera analitica, ovvero il riguardante i limiti nell'uso delle categorie e quello riguardante l'applicazione di queste categorie ai fenomeni.

Certo in entrambi questi casi si ha a che fare con categorie, e quindi nel secondo caso, che vorrei mettere in relazione con il rapporto problematico fra fenomeni e noumeni, sembrerebbe non ci fosse corrispondenza. Ma se

consideriamo che il problema che abbiamo individuato fin'ora era quello del rapporto del come i concetti a priori si possano riferire a oggetti, e gli oggetti sono inscindibilmente legati al concetto di fenomeno e mediante esso a quello di noumeno e anzi, la loro conformazione, che è in questione qui quando si pensa all'applicabilità delle categorie nei confronti del molteplice, è proprio qualcosa di dato e quindi di origine indipendente, allora si può scorgere questa correlazione.

Allo stesso modo il senso positivo di noumeno comporta l'estensione delle nostre conoscenze al di là della sensibilità, ed è nell'insostenibilità di quest'estensione che consiste il risultato che Kant privilegia alla fine dell'Analitica rispetto ai limiti dell'uso delle categorie.

Se quindi nella seconda di queste dicotomie, nel rapporto fra fenomeni e noumeni, nei noumeni in senso negativo, nel rapporto fra oggetti empirici e concetti puri, si posa il nostro interesse, ci resterebbe per concludere questo capitolo soltanto parlare molto brevemente dell'Estetica Trascendentale, sia, come ci eravamo proposti fin dall'inizio, per sostenere la tesi su quanto è profonda nel pensiero kantiano la necessità di ricorrere al concetto di dato sensibile, sia in quanto “[l]a dottrina della sensibilità è dunque nel contempo dottrina dei noumeni in senso negativo”37, e quindi coerente con la nostra ricerca.

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