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Il problema del sensibile nella Deduzione trascendentale dei concetti puri dell'intelletto

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Il problema del sensibile dato nella prima versione

della Deduzione trascendentale dei concetti puri

dell'intelletto di Immanuel Kant

Introduzione

“Io non conosco ricerche intorno ai fondamenti della facoltà che diciamo intelletto, nonché alla determinazione delle regole e dei limiti del suo uso, che siano più importanti di quelle che ho condotto, nel secondo capitolo dell'Analitica trascendentale, sotto il titolo di Deduzione dei concetti puri dell'intelletto; esse mi sono costate la maggiore e spero non mal compensata fatica.” (Prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura1, A xvi)

“...[Q]uesta deduzione, dico, era la cosa più difficile che mai poteva essere intrapresa per la metafisica; e il peggio ancora si è che quanta metafisica mai già preesistesse non poteva prestarmi neppure il menomo aiuto, giacché proprio quella deduzione deve costituire la possibilità di una metafisica”, (Prolegomeni, p. 260).

1 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Torino, 2005. In seguito la abbrevieremo come “KrV”.

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“Si giudicherà che la deduzione dei concetti puri dell'intelletto o categorie, cioè la possibilità di avere affatto a priori concetti di cose in generale, è sommamente necessaria, perché senza di essa la conoscenza pura a priori non ha alcuna sicurezza. Ora, vorrei che qualcuno tentasse di venirne a capo in modo più facile e popolare; allora avvertirà la difficoltà, la maggiore fra tutte quelle che la speculazione possa incontrare in questo campo.”

(Lettera a Christian Garve, 7 agosto 1783)

Si può evincere da queste espressioni l'importanza che Kant percepì attorno al problema poi condensato in un capitolo della Critica della ragion pura dal titolo “Deduzione dei concetti puri dell'intelletto”. Tale sarà l'argomento di questa tesi. Quanto esso sia spinoso trova manifestazione, non a caso, perfino nella forma testuale che assunse il capitolo in questione, perché sebbene abbiamo sotto le mani un capitolo, ne abbiamo contemporaneamente due: più della metà di esso, ovvero l'intera seconda sezione, è stato completamente riscritto per la seconda edizione dell'opera nel 1787. Ma per quanto variati siano le sezioni che interessano la Deduzione vera e propria, la sezione prima, dove viene determinata la natura di una “Deduzione” e la sua ragion d'essere, rimane in gran parte la stessa.

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prima fu data alle stampe, detta “Deduzione A”. Ci chiederemo se l'argomentazione, così come è stata presentata in questa prima versione, è effettivamente all'altezza dell'obiettivo che si era posto Kant in questo capitolo. Se così fosse, la prima versione della Deduzione rappresenterebbe almeno una possibile soluzione del problema che ha come argomento, a prescindere dalle differenze nei confronti della seconda edizione. Nel caso contrario, essa non sarebbe stata riscritta soltanto perché stilisticamente di difficile fruizione, ma perché anche per una lettura approfondita e meditata resterebbero irrisolte delle questioni di importanza. Seguendo dettagliatamente il testo kantiano, noi cercheremo in questa tesi di optare per una delle due possibilità, analizzando il tutto con severità e senza far concessioni a possibili debolezze nell'argomentazione.

La nostra Deduzione A deve trovar risposta a una preoccupazione, ovvero “come i concetti a priori si possano riferire a oggetti”2. Questa preoccupazione

non riguarda principalmente il modo, ovvero come le nostre capacità mentali siano all'altezza di applicare i concetti puri alla realtà, e neanche come può provarsi che questi concetti esistano e testimonino che non ogni nostra conoscenza abbia un'origine puramente empirica. Il problema di fondo, quello in cui la filosofia critica può considerarsi veramente in pericolo, e che d'altronde è un problema individuato, secondo lo stesso Kant, dalla filosofia di un pensatore a

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lui precedente, così come un problema dalla cui spinta dipendono tanti dei tratti tipici dell'idealismo trascendentale, questo problema è, in poche parole, come i fenomeni risultino affini al nostro apprenderli, categorizzarli, e dunque conoscerli. Affermo questo pur cosciente della gravità di un altro dei risultati della Deduzione, ovvero che le categorie hanno come unico campo di applicazione l'esperienza e solo con la materia della sensibilità producono conoscenze.

Per iniziare questa indagine, esporrò innanzitutto il problema in questione come Kant stesso lo ha concepito, ma per fare ciò faremo un passo indietro nella storia della filosofia alla ricerca dell'origine di questo problema nel pensiero di David Hume. In seguito passeremo a quel che questa Deduzione significa, e specificamente come si intende superare la situazione in cui si è venuta a trovare la filosofia. Sorge a mio avviso un divario, o almeno della confusione, fra quanto Kant si propone, quanto a prima vista riesce ad ottenere, e quanto lui stesso afferma di aver conseguito, nella sezione sulla Deduzione Trascendentale. Il nocciolo della difficoltà si trova in argomenti trattati altrove nella Critica, di cui lì si fa uso, e che passeremo a setaccio subito dopo, prendendo spunto da alcuni passi, soprattutto dall'”Estetica Trascendentale”, dalla “Confutazione dell'Idealismo”, e dal “Fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni”. Tutte queste difficoltà possono essere

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sintetizzate come le plurime conseguenze di un'unica causa, la nozione di “dato” di cui, sembra, non riesca a fare a meno la concezione idealistica della realtà secondo la risposta che Kant cerca di offrire nella sua Critica alla situazione filosofica in cui si trova. Esso è il principale erede delle difficoltà incontrate nella distinzione fra fenomeni e noumeni.

Questa introduzione dovrebbe fermarsi qui per non perdere in chiarezza ma, non finendo qui il testo che stiamo introducendo, sarà preferibile cercare di esporre brevemente, e per quanto possibile con semplicità, quale sarà la strada intrapresa in seguito.

La complicazione di risultati che nella Deduzione trovano effettiva realizzazione è probabilmente uno dei motivi principali per i quali il principale di questi possa passare inavvertito, e spesso lo sia, oppure possa venir usurpato il suo compito da un altro risultato più facilmente individuabile. Pensiamo a quanto esprime il seguente passo dalla seconda Prefazione:

“È venuto il momento di tentare una buona volta, anche nel campo della metafisica, il cammino inverso, muovendo dall'ipotesi che siano gli oggetti a dover regolarsi sulla nostra conoscenza; ciò si accorda meglio con l'auspicata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, che affermi qualcosa nei loro riguardi prima che ci siano dati.”3

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Per provare queste affermazioni, apparentemente la Deduzione ha tutti gli strumenti, mostrando come ogni oggetto in realtà non può conformarsi come tale se non condensando il suo molteplice secondo le funzioni dell'appercezione. Posso conoscere a priori le caratteristiche formali che avrà un oggetto. Quindi la conoscenza a priori “tutti i mutamenti hanno una causa” sarebbe perfettamente “dedotta” come legittima. Succede però che la categoria di causalità non è semplicemente l'indicazione di un qualsiasi antecedente a un qualsiasi fenomeno, ma del medesimo antecedente al medesimo fenomeno, ovvero di un rapporto universale e necessario fra i due termini. Una deduzione, la cui interpretazione si fermi a tutte le disquisizioni sulla necessità delle categorie semplicemente come l'unica possibilità che ha la nostra mente per avere oggetti, e non chiarisca oltre che questa possibilità ha bisogno che ciò che le è dato, il molteplice, si presti, non tanto alla consecuzione temporale, ma alla regolare consecuzione temporale, non in forma4, ovvero in antecedente conseguente, ma in contenuto, ovvero in

causa ed effetto, non è una deduzione compiuta. Perché per legittimare l'aspetto

4 Cfr. KrV, B 74-75/A 50-51: “La sensazione può essere detta materia della conoscenza sensibile. L'intuizione pura contiene esclusivamente la forma in cui qualcosa è intuita, mentre il concetto puro contiene esclusivamente la forma del pensiero di un oggetto in generale” (corsivo mio). Su questo si approfondirà nel secondo capitolo.

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formale basterebbe porre su basi solide la pretesa che tutti gli oggetti di questo mondo, se devono fare parte di esso, sono costretti a trovarsi in una catena causale, ovvero ad avere un qualcosa che li preceda e li determini. Ma nel particolare nulla garantisce che questa catena causale non risulti semplicemente del caos “causalmente ordinato”, se consideriamo la causalità soltanto in generale come un rapporto tra un precedente e un conseguente. Questo però non possiamo farlo se entriamo nel merito di cosa significa “determinare”, come l'esclusione necessaria di qualsiasi alternativo.

Fenomenicamente noi non possiamo mai percepire la capacità di un fenomeno di produrre soltanto uno di quanti ci si presentano nel ventaglio di fenomeni immaginabili, ovvero la determinazione che il primo imprime nella conformazione del secondo. Questa determinazione trova espressione soltanto nell'unione di diversi casi, ovvero quando ci si forma un concetto dell'oggetto facente le veci di causa. È quindi quando si prende nel suo vero senso questa categoria, non soltanto come espressione della massima generale che ad ogni

mutamento precede una causa, ma che ad ogni specie di mutamento precede sempre la stessa specie di causa (ovvero quando viene operata un'unione fra il

caso presente e quelli passati nell'inevitabile conformazione di un concetto dell'oggetto5 dell'esperienza concreta e presente), che focalizziamo realmente 5 Cfr. Béatrice Longuenesse, Kant and the Capacity to Judge, Princenton, 1998, pp.

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l'ostacolo che abbiamo davanti, ed è alla decisa risoluzione di esso che le nostre energie devono essere dedicate.

Questa specificità materiale, apparentemente irriducibile, la realtà più cieca e concreta del fenomeno presente o meno, è il dato ultimo che sembra manifestarsi sempre e soltanto regolarmente. Certamente questa regolarità non sussisterebbe neanche se la categoria non le permettesse di formarsi, ma quest'ultima non può prescindere, in quanto formale, dalla collaborazione di ciò a cui “da forma”, come appena spiegato. Sembrerebbe tuttavia che la regolarità della natura, cacciata dalla porta, rientri dalla finestra. Perché è proprio questa fiducia nella regolarità della natura a vanificare tutta la conoscenza umana, e ad essere teorizzata come prospettiva nello scetticismo di Hume. Vedremo alla fine di questo scritto se la Deduzione può ed è effettivamente riuscita a respingerla pure dalla finestra.

Può darsi che soltanto operando la dissoluzione teorica della dicotomia riguardante spontaneità e ricettività, che avviene quando la forma stessa delle categorie pretende che il contenuto su cui si svolgono abbia una certa “duttilità”, dove cioè la forma causale implica anche un contenuto concorde alle caratteristiche della causalità, solo così potrà trattarsi seriamente il problema di fondo della Deduzione.

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in lui una risposta adeguata? Forse trattando la risoluzione che lui fornì del problema della deduzione come un piccolo sistema. Consideriamo in via provvisoria che l'”appercezione”, nel suo stesso operare, e quindi solo con esistere, implica necessariamente che i contenuti che nella natura (intesa come l'insieme dei fenomeni da cui possano essere tratte delle leggi) le sembrano dati e da lei indipendenti, non essendo altro che fenomeni, non sussistano se non accordandosi a loro volta con questa stessa appercezione, l'unica alla quale possono manifestarsi. Perde dunque la rappresentazione di “dato” il suo valore classico, perché questa “datità” non può essere assolutamente indifferente al medio in cui si dà. Questo è coerente con l'affermazione che per noi non esiste null'altro al mondo che fenomeni, ma soprattutto col fatto che non si tratta nella filosofia critica di un rapporto bilaterale fra termini indipendenti, fra fenomeni e coscienza, ma di un sistema, dove entrambi fanno parte di un'unica rete in cui i singoli aspetti non sono concepibili senza l'operato degli altri e del tutto.

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Capitolo I

Il problema della Deduzione trascendentale dei concetti puri

dell'intelletto

“La spiegazione del come i concetti a priori si possano riferire a oggetti, costituisce ciò che io chiamo la deduzione trascendentale dei medesimi.”6

Con queste parole Kant introduce quel che egli intende per Deduzione Trascendentale nel capitolo ad essa dedicato. Da questo primo approccio risulta che il compito della Deduzione sia quello di spiegare come avviene un riferimento fra due termini. Ma di riferimenti fra termini in filosofia ce ne sono diversi e non necessariamente tali da esigere, per essere spiegati, un intero capitolo e due versioni di gran parte del medesimo. Cosa fa di questo riferimento fra concetti a priori e oggetti qualcosa di così problematico?

A questo punto della Critica della ragion pura il lettore ha già avuto l'occasione di familiarizzarsi con i concetti puri. Una delle definizioni che ci viene data a proposito, e che potrebbe aiutarci a comprendere la nostra

6 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Torino, 2005, B 117/A 85. In seguito la abbrevieremo come “KrV”.

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definizione di Deduzione, è che essi contengono “la forma del pensiero di un oggetto in generale”7. Questi concetti riguardano dunque il nostro pensare gli

oggetti. Che ragion d'essere può avere dunque una questione riguardante il rapporto fra i concetti puri e gli oggetti, anziché fra i concetti puri e il pensiero sugli oggetti, potendosi limitare la questione, nel secondo caso, a un'inchiesta psicologica sulle norme che segue il nostro intelletto nella conoscenza di questi oggetti senza che in realtà sia mai in questione direttamente alcuno di essi? Gli oggetti infatti potrebbero esserci forniti belli e fatti mediante i nostri sensi in modo del tutto indipendente dal nostro intervento.

È sul crollo di quest'ultima posizione che nasce il problema che ci seguirà lungo tutto questo testo, e la cui nascita è in generale precedente allo stesso Kant, sebbene non nel modo di tematizzarlo. Noi troviamo che in realtà diversi aspetti che consideriamo inscindibili da ciò che un oggetto è, non ci vengono forniti dai sensi, e costituiscono ciononostante quel che i sensi ci presentano come oggettività. Il risveglio da quella concezione errata sullo stato delle cose in filosofia è quel famoso risveglio dal sonno dogmatico che Kant stesso attribuisce nei suoi Prolegomeni8 a David Hume, al quale esprime la sua riconoscenza.

Sebbene il problema come lo presenta quest'ultimo da come lo rielabora Kant si

7 KrV, B 75/A 51.

8 Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come

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diversifichi in diversi modi, risulterà molto utile, se non soltanto per arricchire in comprensibilità, almeno per capire la portata e l'universalità degli sforzi che Kant compì per risolvere qualcosa che non è soltanto un intoppo nell'ingranaggio del suo sistema (se si vuol considerare il suo un sistema) ma che pervade invece l'intero campo della filosofia, critica e non.

Se per conoscenza si intende quel possedere la rappresentazione di un particolare stato di cose in modo che esso non possa rivelarsi diversamente da come ce lo si raffigura, ovvero che tale rappresentazione si accorda universalmente, in tutti i tempi e luoghi, con il suo oggetto, e non può essere altrimenti, allora una conoscenza non si trova ne può trovarsi mai fra i beni di cui la nostra mente è in possesso. Conoscenza può solo darsi quando non si tratti di stati di cose, ma di rapporti logici fra idee indipendenti da riferimenti a impressioni sensibili, che come tali sottostanno al principio di contraddizione. L'esperienza, non trattandosi che di un insieme ordinato di idee sul mondo le cui diverse alternative, immaginate, non hanno nulla di contraddittorio, non è passibile di fornirci conoscenze. Quest'ultima si rivela dunque al di là delle nostre umane capacità. Tale è, in parole povere, la concezione della natura del nostro intelletto che emerge dalle pagine del Trattato sulla natura umana di David Hume.

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Kant, cerca precisamente di fondare la nostra conoscenza del mondo su basi certe e scientifiche?

Il risveglio da questo sonno non è in realtà innescato da queste conclusioni con cui Hume sigilla il suo Trattato, ma dal percorso che ad esse lo portò, ovvero dalla scoperta che quanto poteva essere attribuito ai sensi, nello stesso campo che per antonomasia appartiene ad essi, ovvero nell'esperienza, non ha alcun'origine empirica. In polemica con la metafisica, Hume cercò di mettere a nudo i diversi “dogmatismi” dei suoi cultori, il loro pigro crogiolarsi su verità mai soppesate seriamente nella loro reale solidità, su cui furono eretti castelli di sabbia. Così facendo lui ha demolito, o almeno recato seri danni, ad articoli metafisici che spaziano da categorie come la sostanza e la causalità, fino alle basi della morale razionale, passando dall'identità personale e dalla credenza nell'immaterialità dell'anima. Ma di tutto quanto lui abbia effettivamente corroso con il suo scetticismo, Kant si soffermerà principalmente sulla sua analisi dell'idea di causalità, motivo per il quale, essendo il nostro interesse non tanto nella filosofia di Hume, quanto nella Deduzione kantiana, sarà l'unico concetto su cui ci soffermeremo pure noi, brevemente, prima di tornare definitivamente al significato della Deduzione.

Hume individua una particolarità nell'idea di causa ed effetto, che manca nelle altre relazioni da lui dette filosofiche: la causalità è l'unica a informarci

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sull'esistenza di oggetti prescindendo dall'intervento dei nostri sensi.9 Basandosi

sul principio che quanto si trova nella nostra mente ha come origine un'impressione sensibile, egli parte in modo del tutto empirico alla ricerca dell'origine di tale idea. Salta subito agli occhi che fra quanto noi solitamente consideriamo causa ed effetto non ci sono che oggetti contigui e in ordine di successione, ma, e qui inizia a diventare interessante, che non basta questa osservazione di natura puramente empirica per caratterizzare la causalità. Di oggetti successivi e contigui che nulla hanno a che fare fra di loro non mancano esempi nell'esperienza. Cos'è che rende quindi la causalità tale? La connessione

necessaria che intercorre tra i due oggetti. Ma la necessità non è, purtroppo, un

dato empirico, ed è unicamente legata, per Hume, come abbiamo detto, al principio di contraddizione come ultimo spartiacque fra quanto è possibile e quanto impossibile.

Accantonando per il momento questo intralcio, c'è un'ulteriore osservazione al riguardo che non può sfuggire. Finché restiamo incentrati su un caso di causa ed effetto non è possibile trovare altre particolarità di questa idea, ma se allarghiamo lo sguardo a diverse istanze di causalità10, allora scopriamo

che noi giudichiamo che qualcosa ne produce un'altra soltanto quando le abbiamo

9 David Hume, A Treatise of Human Nature, edited by Selby-Bigge, Oxford, 1967, p. 74.

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trovate entrambe sempre così congiunte nel passato. Così facendo, noi dal dato anticipiamo con la mente il non dato, ovvero inferiamo un effetto ancora assente da una causa presente ai nostri sensi. Ma questo nostro operare è imputabile all'intelletto o all'immaginazione, in quanto responsabili di anticipare il non dato partendo dal dato? Se si trattasse di un inferenza su basi intellettuali, occorrerebbe un principio da cui derivare in modo dimostrativo ogni inferenza causale, il che la renderebbe gnoseologicamente solida. Un principio siffatto affermerebbe che “the course of nature continues always uniformly the same”, ovvero che “instances, of which we have had no experience, must resemble those, of which we have had experience”11. Ma identificando, come fa Hume, il

possibile con il concepibile (e l'impossibile con il logicamente contraddittorio e quindi inconcepibile), la possibilità di cambiamenti nel corso della natura si allarga almeno quanto la capacità della nostra immaginazione, e il principio intellettuale risulta invalidato.

Nessun motivo razionale avremmo dunque per eseguire tali inferenze perfino nella nostra quotidianità. Diventa così l'immaginazione l'autrice delle nostre inferenze causali. Essa opera in modo irriflessivo, associando meccanicamente due oggetti dopo averli trovati congiunti diverse volte. Di conseguenza la causalità non gode più di alcun privilegio rispetto a qualsiasi altro

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tipo di associazione che non riguardi altro che il funzionamento della nostra psiche, ma non il mondo. Come tale non è distinguibile dall'operazione mediante la quale la nostra mente collega un termine al suo concetto nel parlare ordinario, quando, ad esempio, ascoltando la parola italiana “elefante”, noi ci figuriamo un animale con la proboscide. Quindi non v'è più profondità ne più solidità, o non ci è dato di scoprirne, nella concatenazione causale che pensavamo sorreggesse il corso della natura di quanta ce ne sia nelle corrispondenze convenzionali del linguaggio.12

Abbiamo tuttavia un'ultima istanza a cui appellarci: quale è l'origine della nostra idea di connessione necessaria di cui Hume stesso ha riconosciuto l'esistenza? La spiegazione si trova nell'influsso della ripetizione, sotto il quale la nostra mente si trova ad essere determinata nel passaggio dalla percezione della causa alla riproduzione della conseguenza. La necessità che noi credevamo di trovare negli oggetti non è altro che questa determinazione che la nostra mente subisce dalla medesima facoltà dell'immaginazione che ne associa i contenuti. Ancora, la determinazione del passaggio da causa a effetto non è che la determinazione del nostro spirito ad effettuare tale passaggio, e il nostro imputarlo alle cose è un errore della nostra psicologia. La determinazione non è certo assoluta, è in nostro potere ignorarla, ma nello stesso modo che possiamo evitare di respirare, sebbene la natura ci abbia abituati a farlo, soltanto

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disprezzando le conseguenze, dal che non può risultare niente di buono.

Hume stesso, interamente consapevole della portata eversiva di quanto sta sostenendo, così si esprime al riguardo: “I have just now examin'd one of the most sublime questions in philosophy, viz. that concerning the power and

efficacy of causes; where all the sciences seem so much interested”13. In che

situazione restano queste scienze della natura, intese anche come quelle basilari conoscenze quotidiane sul nostro intorno senza le quali perfino gli atti più insignificanti verrebbero travolti dall'incertezza? Se si considera il mondo come una complicatissima catena di cause determinate, a prima vista non ci sarebbero molte possibilità per la conoscenza di esso, quando incombe perennemente la fragilità e la possibile frustrazione di ogni sforzo diretto a stabilire delle leggi che sulla regolarità di queste cause si fondino. Una legge di natura prescinde dalla temporalità, il suo contenuto è universale e necessario, ma si pronuncia su ciò che è temporale, e non può derivare direttamente dagli oggetti, perché non si trova che nella loro congiunzione. È curioso, e da qui possiamo iniziare a replicare le parole di Hume, che neppure lui sia riuscito a prescindere implicitamente di quest'unità che congiunge gli oggetti. In seno alla sua ricerca rigorosamente empirica che a nulla di alternativo concede sostanza, vengono fuori momenti teorici come questo: “The efficacy or energy of causes is neither plac'd in the causes themselves, nor in the deity, nor in the concurrence of these

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two principles; but belongs entirely to the soul, which considers the union of two or more objects in all past instances.”14 Nell'identificazione di esperienze

appartenenti al passato, mediante l'unione in un'unica esperienza, noi troviamo che l'esperienza stessa viene sorretta da qualcosa di unitario che non proviene da essa, ma non perciò ha minore realtà, in quanto la permette. Quest'unità non solo, come fa vedere Hume, non si trova fra i dati sensibili, ma non si potrebbe neppure essere certi di trovarla nel nostro spirito. Tale è la concezione che si evince dalla sua nota dottrina sull'identità personale:

“The mind is a kind of theatre, where several perceptions successively make their appearance; pass, re-pass, glide away, and mingle in an infinite variety of postures and situations. There is properly no simplicity in it at one time, nor identity in different; whatever natural propension we may have to imagine that simplicity and identity.”15

Troviamo inoltre diversi luoghi in cui si percepisce quanto Hume non sia in grado di condurre indagini attorno alla causalità e di tracciare principi psicologici, prescindendo dall'aiuto della causalità stessa, come categoria e non solo come argomento.16 Questi due casi sembrano rievocare l'assioma citato da

14 D. Hume, Treatise, p. 166 (corsivo mio). 15 D. Hume, Treatise, p. 253.

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Leibniz in risposta a Locke nei suoi Nuovi Saggi, che certamente tutto quanto vi è nella mente proviene dai sensi, fuorché la mente stessa17. Con una visione

critica della dottrina humeana si possono dunque scoprire delle falle che punterebbero contro i risultati puramente scettici del suo pensiero, e precisamente verso la scoperta che il mondo empirico è composto da qualcosa che empirico non è.

Distanziandoci così un attimo dalla sua filosofia, giungiamo alla conclusione che nel campo dello scibile vi è dell'altro oltre la componente puramente empirica, se la nostra contingente, fragile e psicologica quanto si voglia esperienza non sussisterebbe nel caso non ci fosse a sorreggerla qualcosa, forse proveniente dal nostro interno, che appunto nei nostri sensi non ha origine. Sembrerebbe però paradossale che nella stessa oggettività, rifugio di ciò che meno ci concerne in prima persona, vi fosse del soggettivo, e ancor più che

alone give rise to an original idea, different from what is to be found in any

particular instance, as has been observ'd, and as evidently follows from our fundamental principle, that all ideas are copy'd from impressions. Since therefore the idea of power is a new original idea, not to be found in any one instance, and which yet arises from the repetition of several instances, it follows, that the repetition alone has not that effect, but must either discover or produce something new, which is the source of that idea.”, Treatise, p. 163, (sottolineature mie).

17 Gottfried-Wilhelm Leibniz, Nouveaux essais sur l'entendement humain, Livre II, Ch. 1, § 4, Paris, Flammarion, p. 68.

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questo soggettivo determinasse qualcosa che non le appartiene pienamente. Come potrebbe dunque accordarsi la spontaneità della mente con la ricettività dei sensi? L'ulteriore passo da compiere in questo momento è, insieme a Kant, la scoperta che in realtà gli oggetti stessi non possono prescindere dal pensiero nel suo conformarsi come tali18 e che così noi possiamo conoscere a priori alcune

caratteristiche di ogni oggetto empirico, partendo dal nostro pensiero, sia di quelli che appartengono al passato che di quelli con cui non avremo mai a che fare. Caratteristiche sulle quali anche il più prudente dei giocatori d'azzardo potrebbe puntare la sua intera fortuna senza rischiare. Che ogni oggetto ha una causa, che è determinato rispetto alle sue caratteristiche, che è una sostanza nella quale possono scoprirsi diverse qualità, che queste qualità avranno, in rapporto ad altre qualità analoghe, dei rapporti individuabili di gradazione, e altro, sono affermazioni che non possono non riguardare qualsivoglia oggetto appartenente al mondo. Ma sono caratteristiche che non scopriremmo mai, né sorgerebbero, se non ci fosse neanche un oggetto al mondo con, ad esempio, delle gradazioni diverse in qualsiasi sua qualità. Nella nostra conoscenza del mondo c'è quindi un'importante componente che precede qualsiasi rapporto particolare con l'oggetto di questa conoscenza, e che non deve poter fallire. Questa componente sorge dal nostro animo, spontaneamente, e ha come controparte, nella

18 Se ne parlerà in seguito venendo alla Deduzione stessa, quando si introdurranno i concetti di ricognizione nel concetto e di appercezione trascendentale.

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composizione della conoscenza, ciò che riceve dall'intuizione dei sensi.

Non bisogna tuttavia confondere gli aspetti della questione. Che la spontaneità della nostra mente nella conoscenza e, possiamo dire a questo punto, nella conformazione del mondo non può essere negata neanche seguendo una via rigorosamente empirista, non implica che questa stessa strada che porta al riconoscimento di qualcosa di puro nella realtà non presenti altrettanti risvolti problematici tra cui, il principale, riguarda la duttilità che la stessa natura, nel molteplice in cui ci si presenta, sembra avere nei riguardi delle prerogative della nostra mente. Sostare a metà strada fra l'empirismo e l'idealismo, nella conciliazione anziché nel superamento di entrambi, ereditandone problemi e nozioni anziché ponendosi interamente in altro contesto, potrebbe rivelarsi frustrante. Cercheremo di capire più avanti quanto Kant si sia sottratto a questa prospettiva e già nel capitolo successivo ci soffermeremo sull'aspetto della sensibilità che è stato conservato nella filosofia critica.

Siamo così giunti di nuovo al problema principale della nostra Deduzione, e siamo ancor più in grado di prima di determinare il suo scopo. Si sarà intuito a questo punto che con “deduzione” Kant non intende nulla di simile al concetto di “deduzione” che viene usato in logica, come contrapposto a quello d'induzione. La scelta di questo termine proviene invece dalla giurisprudenza, e precisamente da un istituto per il quale il possessore di un bene era chiamato a dimostrarne non

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tanto il possesso, quanto il diritto ad esserne in possesso. La Deduzione trascendentale non è altro che la giustificazione di un preteso diritto. Notare bene, non la giustificazione di un possesso, ma di un diritto a possedere. Le prove riguardanti il diritto di riferimento dei concetti puri a priori nei riguardi dell'esperienza non possono essere ricercate in quest'ultima, ma dalla certificazione della legittimità di questo diritto deriverà pure il possesso. Ovvero, se Kant riuscisse a provare che nelle operazioni che la nostra mente compie nell'uso delle categorie c'è della necessità e queste sono non solo indispensabili, ma non invalidabili da nessuna esperienza possibile, allora sarebbe garantito il loro diritto ad essere trattate come gli articoli principali di una scienza metafisica in quanto facenti parte indiscutibile della realtà.

Questo non può essere compiuto però finché non sia chiarito il rapporto che l'apriorismo ha con la regolarità della natura, perché questo possesso sembrerebbe sempre passibile di essere revocato dalla contingenza del molteplice. Il molteplice come punto di partenza teorico per l'analisi della conoscenza intellettuale è salvezza e rovina al contempo, in quanto evita i pericoli di un idealismo il cui risultato ultimo è una mente chiusa in sé stessa che crea da sé un mondo che crede da sé diverso, ma apre alle imprevedibili conseguenze di ammettere che qualcosa di empirico, e che è materialmente indipendente dalla mente, è universalmente necessario nella sua particolarità,

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come ad esempio, l'effetto costante di una causa conosciuta.

Queste le preoccupazioni di una Deduzione Trascendentale dei concetti puri dell'intelletto.

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Capitolo II

Datità e determinazione

Se la “datità” implichi determinazione e se essa sia un aspetto caratteristico e ineliminabile della filosofia critica sono questioni capitali per il nostro argomento, e perciò le affronteremo nel presente capitolo come preambolo alla trattazione della Deduzione vera e propria. Il sospetto è che il dato, il molteplice sensibile, preso acriticamente come tale, se determinante, impone troppo, e se invece è assolutamente indeterminante e disponibile ad essere categorizzato, conta troppo poco, e può finire per diventare ozioso ed essere abbandonato nella spiegazione della nostra conoscenza. Di “datità” si parla principalmente in quell'area della Critica detta “Estetica Trascendentale”, in cui Kant affronta, per l'appunto, la sensibilità e le sue condizioni a priori. Noi ci soffermeremo soltanto su quanto riguarda in modo generico l'ingrediente che ci interessa, ma non inizieremo subito da esso, sebbene sarebbe un modo facile di mostrare quanto difficile risulterebbe prescindere da un molteplice sensibile dato nella concezione kantiana di conoscenza. Un tale inizio sarebbe tanto semplice quanto fragile, dal momento che, trovandosi questo tema all'inizio della Critica, noi lasceremmo ancora un fianco scoperto a interpretazioni della filosofia kantiana che sostengono un presunto sviluppo progressivo del suo sistema nel

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quale, per forza di cose, si esprimerebbero pareri e si tesserebbero analisi del tutto provvisorie che, andando avanti nel testo, tendono a ridimensionarsi, riformularsi e finalmente sparire in una nuova prospettiva.

E tale potrebbe essere, in questa ipotetica visione, il caso per quanto riguarda l'inaugurale “Estetica Trascendentale”. Per questo motivo mi appellerò all'Estetica soltanto alla fine del capitolo come un'ulteriore e palese conferma dell'irrinunciabilità all'ammissione nella Critica di un molteplice sensibilmente dato, e solo in seguito ad aver messo in evidenza che di “esteriorità”, di “indipendenza del molteplice”, di “ulteriore irriducibile”, di “rimando delle nostre rappresentazioni”, ecc. si parla pure in altri momenti della Critica, e notevolmente in momenti di tal importanza da essere quelli in cui Kant stabilisce la sua posizione nei confronti di altre correnti filosofiche, oppure spiega distinzioni concettuali fondamentali per l'Idealismo Trascendentale.

1- L'Idealismo

I pericoli, così come la facile tentazione di finire in visioni idealistiche della realtà, fanno sì che Kant stesso introduca nella seconda edizione della

Critica una “Confutazione dell'idealismo”, in parte mosso dalla reazione che la

prima edizione provocò in alcuni recensori che presero la sua filosofia come una versione di idealismo classico, in particolare di quello tipicamente berkeleiano19. 19 Cfr. Lettera del 7-VIII-1783 a Christian Garve, Ak. X, pp 336-343 (edizione italiana

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In questa Confutazione egli si trova nella situazione di dover contestare una tendenza filosofica con la quale tuttavia condivide, da idealista trascendentale, parte del nome. È da notare la scelta con la quale l'autore si distingue da tale filosofia: egli la chiama “idealismo materiale”20. Secondo questa visione, perfino

la “materia” delle nostre rappresentazioni sulla realtà sarebbe di natura ideale, ovvero un prodotto della nostra mente. Abbiamo già parlato della forma e della materia dell'esperienza sensibile rispetto alle categorie, e il fatto che questo termine ricompaia qui è molto rilevante. In effetti l'idealismo materiale è specificamente, nelle parole del nostro autore, “la teoria che considera l'esistenza degli oggetti nello spazio fuori di noi o semplicemente dubbia e indimostrabile o falsa e impossibile”21

Kant concentra la sua attenzione nella prima delle due posture idealistiche, di matrice cartesiana, ritenendo la seconda, di matrice berkeleiana, sufficientemente confutata dall'Estetica Trascendentale. Per farlo, egli lega la nostra esperienza esterna, macchiata dal dubbio, a quella interna, al di sopra di ogni sospetto, in quanto quest'ultima presupporrebbe l'esteriorità.

Per comprendere cosa Kant abbia in mente qui, bisogna tenere in

a cura di Oscar Meo, Genova, 1990, pp. 116-124). Vedi pure Hansmichael Hohenegger, “Introduzione”, in Prolegomeni, pp. VII-XI.

20 Vedi sopra, Introduzione, pp. 5-7 21 KrV, B 274

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considerazione la distinzione fra senso interno ed esterno che lui opera sin dalle prime pagine dell'Estetica Trascendentale22.

Per senso interno non si intende qualcosa come la conoscenza che abbiamo di noi stessi in quanto soggetti, ovvero l'autocoscienza23, e neanche

quell'io che sorregge ogni mio pensiero e di cui parleremo nel seguente capitolo, ma la percezione dei miei stati in quanto possono essere da me oggettivati alla stregua delle cose del mondo esterno. Il senso interno riguarda quindi la ricettività del mio proprio essere come oggetto empirico. Vengono concepiti così i sentimenti, i concetti, le sensazioni, i ricordi, tutti come contenuti che per il mio pensiero possono essere dati alla pari dei dati sensibili provenienti dal mondo esterno. Ciò che rende tutti questi elementi appartenenti a un unico campo comune è detta la forma che questo senso interno possiede, nel quale essi sono considerati come suoi contenuti e si trovano ad essere determinati gli uni nei confronti degli altri. Questa forma è il tempo.

Se chiamiamo dunque, come fa Kant, “rappresentazione” ognuno di questi

22 KrV, A 32/B 37

23 Sulla differenza fra autocoscienza e senso interno si veda B 277: “Certamente la rappresentazione: 'io sono', che esprime la coscienza che può accompagnare ogni pensiero, è ciò che racchiude in sé immediatamente l'esistenza di un soggetto, non però tuttavia ancora una conoscenza di esso, e tanto meno quindi una sua

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contenuti in generale che troviamo nella nostra mente, allora possiamo comodamente dire che tutte le rappresentazioni sono determinate rispetto al resto e al tutto in rapporti temporali, di successione e simultaneità. Pure il senso esterno è dotato di una forma propria, lo spazio, nella cui struttura viene a trovarsi tutto quanto ci arriva da esso. Ma il fatto che anche questa esteriorità si manifesti in un nostro senso (in quanto viene recepita), essendo il senso qualcosa di sempre e comunque interno, suggerisce che in ultima istanza l'esteriorità fa parte di noi. I suoi contenuti vengono quindi a trovarsi determinati anche secondo la forma del senso interno, in quanto rappresentazioni, e immersi così sia in rapporti temporali che spaziali. Come fa notare La Rocca, esiste un “primato del senso interno”, che “è dovuto appunto al fatto che esso costituisce una 'condizione formale a priori di tutte le apparenze in generale', in quanto condizione immediata delle apparenze interne e condizione mediata di quelle esterne”24.

La difficoltà diventa così chiara. Essa investe le basi di una distinzione fra i contenuti del senso esterno e quelli del senso interno se entrambi hanno da trovarsi nel primo di questi due sensi, e dunque manifestarsi unicamente come delle nostre rappresentazioni.

L'argomento con cui Kant sceglie di affrontare la questione si basa principalmente su due assunti. Ma l'intera argomentazione si distingue talmente

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poco per la sua chiarezza al punto da costringerlo, ad esempio, ad aggiungere una nota alla Prefazione alla seconda edizione della Critica con l'intento di dissolvere ulteriormente ogni perplessità.

Questi due assunti affermano che “io sono cosciente della mia esistenza come determinata nel tempo” e che “[o]gni determinazione temporale presuppone alcunché di permanente nella percezione.”25 C'è però un'ulteriore

premessa a quest'ultima asserzione che sarebbe utile formulare in dettaglio per comprendere meglio che vie percorre il nostro autore per giungere alla soluzione da lui proposta.

Una determinazione temporale non può effettuarsi in modo assoluto, ovvero considerando un termine ed assegnandole un momento temporale tentando contemporaneamente di prescindere da qualsiasi riferimento a un termine ulteriore considerato fisso. Mi spiego:

Che un qualcosa si verifichi prima o dopo, ha come controparte necessaria il prima o dopo cosa, ovvero un termine diverso nei confronti del quale la posizione temporale è definita. Ad esempio, quotidianamente noi individuiamo la determinazione temporale di un evento considerandolo collocato nelle 24 ore in cui si scandisce la giornata. Non facciamo riferimento all'articolazione o contenuto dell'evento (per evento voglio intendere in generale qualsiasi oggetto temporale) ma lo poniamo in una situazione, ovvero lo inseriamo in qualcosa che

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lo circonda. Appunto nella partizione della giornata a cui altri eventi faranno pure riferimento e troveranno determinazione temporale reciproca. È infatti nei confronti di queste partizioni di tempo che noi ordiniamo la successione o simultaneità di quanto avviene.

L'altro termine non è certo in questo caso un altro evento, e la giornata non è che una spartizione convenzionale di tempo, ma essa ha come fondamento in ultima istanza i movimenti regolari dell'ente celeste, e questo riveste ugualmente per noi il ruolo di un secondo termine permanente.

Astraendo quanto detto, possiamo proporre che qualsiasi determinazione temporale fa presente il suo bisogno di stabilità di un “altro” posto come punto fisso di confronto, in riferimento al quale questa determinazione ha da trovare il suo valore.

La premessa da aggiungere è quindi che ogni determinazione temporale

riguarda almeno due termini d i v e r s i.

Ritorniamo all'argomentazione kantiana. Possiamo ora vedere che la determinazione della mia propria esistenza nel tempo non può prescindere da un termine fisso ulteriore nei confronti del quale, ad esempio, io distingua la mia esistenza di oggi da quella di ieri. Dove potrebbe trovarsi questo termine distinto da me? Esso non può infatti, ci dice Kant, essere fornito da noi stessi, come vorrebbe l'idealismo nel suo tentativo di far passare l'idea che non abbiamo

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contatto con null'altro all'infuori di noi stessi. Infatti “tutti i fondamenti della mia esistenza, che possono ritrovarsi in me, sono rappresentazioni e, come tali, hanno bisogno di qualcosa di permanente, da esse distinto, in relazione al quale possa essere determinato il loro cambiamento.”26

Quindi, se la mia esistenza deve poter essere determinata nel tempo, dovrebbe potersi trovare quella “permanenza” al di fuori della (mia) stessa esistenza da cui questa dipende. Giungiamo così a una conclusione che, sebbene si trovi quasi all'inizio della Dimostrazione del Teorema della Confutazione, è per noi un punto di arrivo che significherà molto nei seguenti capitoli, e dove la vera portata dell'esteriorità viene resa esplicita. Perché risulta ormai indispensabile riconoscere una reale diversità tra le mie rappresentazioni del mondo esterno e il mondo esterno stesso: “[l]a percezione di questo permanente non è dunque possibile se non in base a qualcosa fuori di me e non in base alla semplice

rappresentazione di una cosa fuori di me” [corsivo mio]27.

Vorrei tuttavia fare una parentesi per puntualizzare che sarebbe sbagliato, sebbene comodo, limitarci a rendere definito il senso di “datità” nella filosofia critica appellandoci a quanto ci fornisce il senso esterno.

Si potrebbe infatti citare l'”Annotazione 2” alla Confutazione per sottolineare che c'è un apparente rimando a quanto abbiamo esposto sopra

26 KrV B xxxix, nota 'a'. 27 KrV B275

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riguardo la differenza tra forma e materia delle nostre conoscenze e l'irriducibilità della seconda alla prima. Infatti in questo passo quella componente stabile dell'esteriorità che permette l'autocoscienza empirica sembra venir identificata con la materia fisica 28.

Ma non c'è vera corrispondenza fra la materialità del mondo esterno e la materia delle nostre rappresentazioni in generale.

Ridurre quest'ultima, a cui l'esperienza è conforme, a quella materialità fissa risulterebbe errato se teniamo in considerazione che per quanto riguarda la ricettività di contenuti per la nostra conoscenza, il senso esterno e quello interno sono alla pari. Per materialità di una rappresentazione di qualsiasi dei due sensi non si intende semplicisticamente la sua “materia fisica”, ma quella sua componente che dà sostanza e individualità a rapporti interni ed esterni, ovvero alla sua articolazione e situazione.

Non essendo dunque questo un risultato valido con cui arricchire il nostro tema, dove possiamo trovarlo? Ciò che ci ha interessato maggiormente di questa

28 KrV B277-278: “non soltanto non ci è possibile percepire alcuna determinazione temporale se non in virtù del cambiamento dei rapporti esterni (il movimento) in riferimento a ciò che nello spazio vi è di permanente (ad esempio, il movimento del sole rispetto agli oggetti della terra), ma non abbiamo assolutamente nulla di

permanente che possa, come intuizione, venir posto alla base d'un concetto della sostanza all'infuori della materia (...)”. Corsivo mio.

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parte della Critica, più che l'argomento in sé contro l'idealismo, è la teorizzazione esplicita del bisogno e del conseguente riconoscimento dell'esistenza di qualcosa di esterno e indipendente a me, sebbene limitato a quanto riguarda l'autocoscienza empirica, che traspare chiaramente nella citazione di B275 di cui sopra.

2- Fenomeni e noumeni

La limitazione vien tuttavia meno se ci addentriamo nella trattazione del concetto di “fenomeno”. Di esso si occupa in gran parte il capitolo sul “Fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni” e di conseguenza è qui che ci rivolgeremo ora con l'intento di proseguire ulteriormente nella specificazione di cosa intende Kant per quella materia indefinita che viene fornita ai nostri sensi e che abbiamo bollato sinora con il temine “datità”.

All'inizio del presente capitolo ci siamo chiesti se questa “datità” implicasse determinazione. A questo, oltre che all'altra nostra domanda riguardo quanto la “datità” sia un elemento costitutivo del sistema kantiano, cercheremo risposta nella “Distinzione”.

Se finora abbiamo trattato la componente data soltanto come un'esteriorità “contro” la quale determinare il tempo della nostra interiorità, essa è ora

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considerata con molta più importanza, attraverso i concetti di fenomeno e noumeno, in un luogo della critica che funge da conclusione dell'intera Analitica Trascendentale. Questa Analitica contiene, come sappiamo, la Deduzione dei concetti puri. È per questo che vogliamo aggiungere ai già esplicitati obiettivi della lettura di questo capitolo, quello di esaminare la coscienza che Kant esprime su ciò che per lui sono i risultati dell'Analitica Trascendentale, approfittando dello sforzo che egli compie qui per sintetizzarli.29 Potremmo

capire così il peso che in essi spetta alla Deduzione.

Che posto trova dunque tale capitolo in questo generico sguardo sintetico sui risultati raggiunti? Un posto marginale. A chi è rivolta quindi l'attenzione? A delle conoscenze che presenterebbero secondo Kant un'utilità perfino per l'intelletto empirico, ovvero per chi, da studioso, non pretende di conoscere la fondatezza del suo sapere, ma si limita a servirsi dell'intelletto in modo strumentale; qualcosa di paragonabile alla situazione di chi utilizza per i suoi scopi una macchina senza avere una minima nozione di meccanica, ma soltanto di guida. Egli potrebbe non aver presente fino a che punto può forzare il mezzo, non conoscendone i limiti:

29 Così dichiara Kant: “Benché abbiamo già dato sufficiente risposta a queste domande nel corso dell'Analitica, un colpo d'occhio generale alle soluzioni date potrà rinsaldare la nostra convinzione in proposito, riunendo in un sol punto i mutevoli aspetti della questione”. KrV B 295/A 236.

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“L'intelletto che non si occupi d'altro all'infuori del suo uso empirico, senza riflettere sulle fonti della sua conoscenza, è certamente in grado di conoscere benissimo, ma non è in grado di fare una cosa, cioè di stabilire a se stesso i limiti del proprio uso, rendendosi conto di ciò che sta al di dentro e di ciò che sta al di fuori dell'intera sua sfera. Proprio a questo sono indirizzate le indagini che abbiamo intrapreso.”30

È nel manifestare questa questione capitale che Kant dedica diverse pagine della conclusione dell'Analitica. Così facendo, sposta la concentrazione verso la celebre questione dei limiti dell'intelletto, verso l'impossibilità di varcarli e verso quanto si trova al di là di essi. Ciò non significa certo che non si tengano in mente in questi passi anche altri aspetti. Troviamo in effetti un accenno ai risultati riguardanti la Deduzione dei concetti puri31 e, sebbene nei confronti della

30 KrV, B 297/A 238, corsivo mio.

31 Si consideri al riguardo questo passo, dove c'è un implicito rimando al tema della Deduzione: “Prima di affrontare questo mare [della parvenza, tema della seguente parte della Critica] (…) sarà bene dare un ultimo sguardo alla carta del territorio che ci proponiamo di abbandonare, chiedendoci in primo luogo se sia possibile accontentarci di ciò che essa contiene, o se non dobbiamo accontentarcene per forza, per il fatto che non si dà altrove terreno su cui sia concesso edificare; e in secondo luogo per chiederci a qual titolo possediamo questo territorio, e in qual modo possiamo preservarlo da ogni pretesa nemica” KrV B 295/A 236, corsivo mio.

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Confutazione può sussistere un dubbio riguardo al fatto se essa abbia davvero importanza e coerenza tale da essere tenuta in considerazione al momento di interpretare altre sezioni della Critica,32 lo stesso non può essere detto del

capitolo ora in questione.

Resta tuttavia vero che nel descrivere “i risultati”, l'attenzione è rivolta ad altro. Si potrebbe pensare che ciò sia dovuto al fatto che, essendo stato presumibilmente risolto dalla Deduzione il problema della conoscenza empirica, e restando ancora da trattare, non tanto la limitazione in generale del conoscere al sensibile, quanto la puntuale trattazione delle materie che in questa nuova sistemazione sono state private dei loro antichi privilegi, l'enfasi su questo risultato si presti bene a chiudere l'Analitica, lasciando così passo alla Dialettica.

Ma in questo modo il nostro problema iniziale riguardo non ciò che è al di là, ma ciò che è al di qua dell'intelletto, ovvero l'empirico a cui lo si vuole limitare, non è più al centro della scena se si pensa all'Analitica nel suo insieme.

32 Cfr. La Rocca, Soggetto e mondo, p. 53: “L'attenzione di Kant per la cogenza della argomentazione, la ricerca di precisione e rigore testimoniata dal continuo ritorno sugli stessi temi non sembrano dovute in questo caso al valore fondante di queste pagine per la filosofia critica (…). La Confutazione non costituiva infatti una reale 'aggiunta', dal punto di vista del contenuto, alle teorie elaborate nella prima edizione della Critica della ragion pura, né un tema di importanza 'costruttiva' per la critica della ragione paragonabile, per esempio, alla deduzione trascendentale delle categorie.”

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Quale potrebbe essere il rapporto fra questi due risultati? Sono realmente separati oppure fanno parte di un'unica soluzione? Proviamo a determinare meglio cosa si intende per la limitazione dei concetti puri al solo sensibile come risultato dell'Analitica citando questo passo lungo quanto chiarificatore:

“L'uso trascendentale di un concetto, in un qualsiasi principio, è il seguente: il suo riferimento alle cose in generale e in sé stesse; mentre l'uso empirico sta nel suo semplice riferimento ai fenomeni, ossia a oggetti di un'esperienza possibile. Ma che soltanto il secondo uso sia in ogni caso possibile, risulta da quanto segue. Per qualsiasi concetto si richiede, prima di tutto, la forma logica di un concetto in generale (del pensiero); poi, in secondo luogo, si richiede la possibilità di fornirgli un oggetto, a cui si riferisca. In mancanza di tale oggetto, il concetto è privo di ogni senso e mancante di contenuto, benché contenga pur sempre la funzione logica di ricavare da particolari dati un concetto.”

Che soltanto il secondo uso di un concetto sia possibile è conseguenza anche della possibilità di fornirgli un oggetto. E la possibilità di fornirgli un oggetto è conseguenza diretta del rapporto fra concetti puri e oggetti, ovvero del tema della nostra Deduzione.

Supponiamo che per oggetto qui si intende quel fenomeno che è determinato in tutti i suoi aspetti rispetto a tutte le funzioni del pensiero (e che a

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breve illustreremo meglio). Allora questo senso di oggetto è proprio pertinente al nostro problema, e la sua genesi è esposta nella Deduzione A come frutto di recettività e di spontaneità in una triplice sintesi.

Ma supponiamo altrimenti che qui si intenda soltanto la recettività del molteplice fenomenico offertoci dai sensi e dunque non elaborato. Anche in questo caso la Deduzione sarebbe di pertinenza, e perfino di maggior pertinenza, in quanto questo senso di oggetto è a nostro parere la colonna portante del suo problema, essendo l'affinità del molteplice sensibile dato con la nostra possibilità di conoscere che deve essere provata dalla Deduzione.

Infatti Kant nel passo appena citato ci dice che la limitazione all'uso empirico dei concetti, ovvero la conclusione espressa dell'Analitica, “risulta da

quanto segue”, cioè dai requisiti di un concetto per avere senso e contenuto,

ovvero da qualcosa la cui trattazione trova sede nella Deduzione.

Orbene, proseguendo con la citazione, si vede che è il secondo senso di oggetto che Kant ha in mente:

Ma l'oggetto non può esser dato a un concetto diversamente che nell'intuizione; e benché un'intuizione pura sia possibile a priori, prima ancora dell'oggetto, tuttavia anche una siffatta intuizione può entrare in possesso del suo oggetto, quindi della sua validità oggettiva, soltanto per mezzo dell'intuizione empirica, di cui costituisce la semplice forma. Ne deriva che tutti i concetti, e assieme a loro, tutti i

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princìpi, pur essendo possibili a priori, si riferiscono a intuizioni empiriche ossia a dati per l'esperienza possibile” (KrV B 298/A 239, corsivi miei).

Ci sembra quindi che i due risultati siano intimamente collegati. Ricapitolando, è nella comprensione della natura delle categorie come forme intellettuali senza alcun significato se non rese operanti mediante dei contenuti sensibili che si radica la conclusione della loro vacuità nel caso in cui le si tenti di applicare al non sensibile. E qui evidentemente c'è un nodo comune con il nostro problema, perché questa affermazione presuppone che il loro legittimo campo di applicazione sia il sensibile e che su questo non restino dubbi derivanti, ad esempio, dalla insoddisfatta necessità di “dedurre” questa loro possibilità.

Torniamo ora alle nostre domande iniziali riguardo la “datità” e il concetto di “fenomeno”.

Se la nostra intuizione ci fornisce oggetti, ma essa ha, in quanto intuizione, delle condizioni a priori quali lo spazio e il tempo entro le quali i suoi contenuti devono necessariamente stare per essere recepiti, allora un'operazione del nostro intelletto semplice e naturale sarebbe considerare quegli oggetti separati dal nostro essere, ovvero dalle nostre condizioni per intuirli, e quindi come sono in sé, e non più per noi. Operare questa distinzione fra l'apparire di un oggetto, quindi il suo essere un fenomeno, e l'essere dell'oggetto che non ci può essere rivelato sensibilmente, ci obbliga a considerare quest'ultimo unicamente come

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qualcosa di pensabile e mai intuibile. Come un noumeno.

Questa che noi scorgiamo verso gli oggetti è una tendenza a speculare su come starebbero se fossero indipendenti dalle condizioni della nostra sensibilità, ovvero dalla nostra “capacità di ricevere (recettività) rappresentazioni, mediante il modo in cui siamo affetti dagli oggetti.”33, come ci dice l'Estetica

Trascendentale. Ciò testimonia a favore dell'ipotesi che tali oggetti, in realtà, devono poter venir considerati come se avessero un origine che non è interno, se non altro come necessaria conseguenza delle tendenze della nostra mente applicata all'esaminarli. Come se la loro realtà non si esaurisse con il loro venir recepiti da una mente a cui risultano dati.

Ora vorrei fare una distinzione. Una cosa è il rapporto fra le nostre

categorie e i noumeni, e un'altra cosa è il rapporto fra l'oggetto per noi, o fenomeno, e l'oggetto in sé, o noumeno.

La determinazione del primo è la risposta alla domanda che si fa Kant se “i nostri concetti puri dell'intelletto sono suscettibili di un significato in relazione a tali esseri dell'intelletto [noumeni] e se costituiscono un particolare modo di conoscerli.”34.

La seconda invece è quella relazione della quale il nostro intelletto fa astrazione nella scoperta del concetto di noumeno, come riferisce Kant:

33 KrV B 33/A 19 34 KrV B 306

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“[a]llorché l'intelletto chiama semplicemente fenomeno un oggetto, considerato secondo una certa relazione, dà luogo, contemporaneamente, a una rappresentazione che prescinde da questa relazione e che concerne l'oggetto in se stesso”.

È in questa relazione, che l'intelletto elimina nella considerazione di un noumeno, che crediamo consista propriamente la datità. In quel rapporto si trova la consapevolezza dell'indipendenza dei contenuti sensibili che appaiono come aventi un origine, quando conosciuti, che eccede questa conoscenza. “Se diamo il nome di noumeno a qualcosa in quanto non è oggetto della nostra intuizione sensibile” allora il noumeno è ciò che non ci è dato in alcun modo, e si distingue dal fenomeno come il non dato dal dato, ma dal quale la datità prende le mosse.

Perché ormai possiamo dire che per datità sensibile non intendiamo che questo avere un contenuto mentale determinato che rimanda necessariamente a qualcosa che non è un altro contenuto mentale determinato e da cui non può però, per essere concepito, essere staccato. Qui anticipiamo quel che verrà detto nella Deduzione A, perché ci avviciniamo a considerare questo elemento che va oltre la nostra sensibilità senza che essa se ne possa staccare in assoluto come un'”x” che funge da oggetto e unione delle nostre rappresentazioni.35

C'è una corrispondenza fra il nostro tentativo di tener distinti i rapporti intercorrenti fra concetti puri e noumeni e quelli intercorrenti tra fenomeni e

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noumeni e la distinzione che fa Kant di noumeno in senso negativo e in senso positivo.

Nel senso negativo, noumeno viene definito come qualcosa che semplicemente “non è oggetto della nostra intuizione sensibile, in quanto si fa astrazione dal nostro modo di intuirlo.”36

Invece nel suo senso positivo il noumeno è un vero e proprio oggetto a cui non corrisponde un'intuizione sensibile, ma intellettuale. Perché, come abbiamo citato sopra per esteso, un “oggetto non può esser dato a un concetto diversamente che nell'intuizione” e se l'intuizione non può essere in questo caso sensibile, essa deve essere intellettuale. Ma un'intuizione intellettuale non è a disposizione della nostra facoltà conoscitiva, per cui in questo senso, un noumeno non deve mai essere considerato.

C'è però di interessante in questi due sensi di noumeno ancora una corrispondenza fra essi e la nostra distinzione tra i risultati dell'intera analitica, ovvero il riguardante i limiti nell'uso delle categorie e quello riguardante l'applicazione di queste categorie ai fenomeni.

Certo in entrambi questi casi si ha a che fare con categorie, e quindi nel secondo caso, che vorrei mettere in relazione con il rapporto problematico fra fenomeni e noumeni, sembrerebbe non ci fosse corrispondenza. Ma se

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consideriamo che il problema che abbiamo individuato fin'ora era quello del rapporto del come i concetti a priori si possano riferire a oggetti, e gli oggetti sono inscindibilmente legati al concetto di fenomeno e mediante esso a quello di noumeno e anzi, la loro conformazione, che è in questione qui quando si pensa all'applicabilità delle categorie nei confronti del molteplice, è proprio qualcosa di dato e quindi di origine indipendente, allora si può scorgere questa correlazione.

Allo stesso modo il senso positivo di noumeno comporta l'estensione delle nostre conoscenze al di là della sensibilità, ed è nell'insostenibilità di quest'estensione che consiste il risultato che Kant privilegia alla fine dell'Analitica rispetto ai limiti dell'uso delle categorie.

Se quindi nella seconda di queste dicotomie, nel rapporto fra fenomeni e noumeni, nei noumeni in senso negativo, nel rapporto fra oggetti empirici e concetti puri, si posa il nostro interesse, ci resterebbe per concludere questo capitolo soltanto parlare molto brevemente dell'Estetica Trascendentale, sia, come ci eravamo proposti fin dall'inizio, per sostenere la tesi su quanto è profonda nel pensiero kantiano la necessità di ricorrere al concetto di dato sensibile, sia in quanto “[l]a dottrina della sensibilità è dunque nel contempo dottrina dei noumeni in senso negativo”37, e quindi coerente con la nostra ricerca.

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3- L'Estetica trascendentale

Il testo di questa parte della Critica, con cui essa ha inizio, esprime in modo palese e succinto quanto fin'ora abbiamo cercato di raggiungere indirettamente: “In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza possa riferirsi ad oggetti, certo il modo in cui vi si riferisce immediatamente, ed a cui ogni pensiero tende, come suo mezzo, è l' i n t u i z i o n e. Ma questa si riscontra soltanto quando l'oggetto sia dato.”38

Tuttavia noi vedremo dettagliatamente nella Deduzione che l'oggetto non è mai dato, ma sempre prodotto, se per oggetto intendiamo un ente composto di un molteplice sensibile unitario e determinato rispetto a tutte le categorie, ovvero un commisto di sensibilità e concettualità.

Trovandomi, ad esempio, in prossimità di una pantera rosa, i miei sensi mi restituirebbero un molteplice che attribuirei tutto quanto a questa pantera. Percepirei il suo respiro, il suo odore felino, il suo abbagliante colorito rosaceo, il suo procedere attraverso la foresta; e io farei di tutto questo molteplice un'unità. Ma non mi limiterei a questo nella consapevolezza di trovarmi di fronte a una pantera rosa. Avrei in mente anche che si tratta di una pantera, animale pericoloso se io sono inerme, ovvero la metterò in rapporto ad altre mie conoscenze riguardo l'universo in cui si danno animali con queste caratteristiche.

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E non solo ciò, ma sarò a conoscenza che sicuramente è un agente causale, magari causa di devastazioni nell'oriente africano, oppure che è determinabile quantitativamente rispetto alla sua lunghezza, forse di 12 metri, oppure che il suo pelame non è omogeneo, ma in certi punti presenta gradazioni di rosa più o meno accentuate, oppure che è un animale che non credevo esistesse, ecc.

Questo è un oggetto la cui genesi, contro ogni pretesa empiristica, non è frutto diretto e passivo della nostra recettività sul mondo. Però non solo quelli concreti sono considerati “oggetti” da Kant, come si legge in una Reflexion del 1797, ma perfino il calore, la rotondità39. Come fa notare Allison, Kant ha in

mente qui una nozione molto ampia di oggetto, che include perfino oggetti astratti quali “ragione”40. Forse che il molteplice dato, in questi casi, proviene dal

senso interno? Kant si soffermerà sulla spiegazione genetica dell'oggetto in

39 Cfr. Henry E. Allison, Kant's Transcendental Idealism. An interpretation and defence, Yale, 1983, pp. 146-147: “What is an object? That which is represented throught a totality of several predicates which pertain to it. The plate is round, warm, tin, etc. 'Warm', 'round', 'tin' etc. are not objects, but the warmth, the tin, etc. are. An object is that in the representation of which other representations can be thought as synthetically connected. Every judgment has a subject and predicate. The subject of the judgment, insofar as it contains different possible predicates, is the object. (…) The warmth, the rectangle, the depth etc. are objects. The same applies to rational and reason.” (Refl. 6350, Ak. XVIII, 676)

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generale durante la Deduzione A, ma non darà spiegazioni particolareggiate riguardo a questi oggetti astratti.

In ogni caso l'Estetica ha in mente un tipo di “oggettualità” diverso da questi in cui l'oggetto è di già conformato e fruibile per la nostra mente.41 Infatti

la citazione da cui abbiamo tratto spunto resa per intero ci dice: “Ma questa [l'intuizione] si riscontra soltanto quando l'oggetto sia dato; il che è, a sua volta, possibile, per noi uomini almeno, solo se l'oggetto agisce, in qualche modo, sul nostro animo.” Certo non si intende qui l'oggetto complesso “pantera rosa”, ma si intende il suo molteplice sensibile dato, ovvero quello di cui abbiamo fin'ora parlato e cercato le caratteristiche.

L'oggetto “pantera rosa” ha una basta controparte concettuale che è, vedremo, necessaria nella conformazione di un oggetto tale. Ma è “[l]'oggetto

41 Longuenesse rileva distinzioni analoghe, ma non identiche, fra i diversi sensi in cui Kant usa il termine oggetto; op cit, p. 55, nota 29: “An object in the logical sense is thus whatever is thought under the subject-concept of a categorical judgment, where the subject-concept is a complex concept, to which many different possible predicates may be attributed. Now, the “object” discussed in the Transcendental Deduction is not this merely logical notion. What is under discussion in the Deduction is primarily the empirical object: the “appearance,” or “undetermined object of an empirical intuition,” inherited from the Transcendental Aesthetic”.

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