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La figura di Aldo Moro

Nell’articolo citato poc’anzi, il regista presenta in modo chiaro il suo giudizio politicamente severo e tranchant sul presidente della DC:

«Trovo storicamente assurdo affermare che Aldo Moro fu un martire dello Stato di Diritto. […] Trovo storicamente indegno dimenticare che Aldo Moro fu un cavallo di

razza della DC, gestendo come capo del governo, ministro, segretario della DC, un potere illimitato, e gestendolo assai male, meritandosi il nomignolo di Dottor Divago»

Poco più avanti Grimaldi aggiunge:

«Spero vanitosamente che sia giusto dire […] che il “mio” non è l’Aldo Moro santificato da destra e sinistra. Le santificazioni umiliano chi le fa, ma soprattutto chi le

riceve. Il Moro santificato è talmente finto da oscurare anche i lati positivi, che credo nel mio film non siano stati affatto elusi, della sua personalità storica e umana»

La sceneggiatura prova effettivamente a dar conto di questi due aspetti solo apparentemente contrapposti, alternando scene nelle quali un Moro elusivo risponde in modo recalcitrante alle domande incalzanti del brigatista Marco, ad altre nelle quali il presidente della DC dedica le sue attenzioni interamente alla famiglia e mostra senza remore la sua fragilità. Ad esempio, nella scena del primo interrogatorio, Moro risponde in maniera riluttante; quindi, accetta di declinare le proprie generalità, ma la sua voce incespica e solo dopo un sospiro sofferto riesce a parlare del nipote Luca. Infine, si indurisce nuovamente, quando il brigatista gli chiede qual è il suo soprannome, rifiutandosi di pronunciarlo.

BRIGATISTA

«Il suo soprannome»

MORO

«Come ho già avuto occasione di dirle, non possiedo nessun soprannome.

Il fatto di essere miei carcerieri non vi dà alcun diritto di profanare la mia persona né di oltraggiarmi»

119 BR.

[sogghigna]

«Profanarmi? Oltraggiarmi? Che razza di termini usa, Dottor Divago?»

Il soprannome e il rimarcare il linguaggio formale del prigioniero segnalano sin da questa sequenza, la distanza che separa il Moro politico dai suoi carcerieri. Una distanza incolmabile, rimarcata anche dalla distanza dei due durante l’interrogatorio.

Moro è seduto sulla sua branda, appoggiato – quasi con un atteggiamento di sprezzante distacco – alla parete. Il brigatista, seduto molto meno comodamente, è inquadrato di schiena: il passamontagna ben calato sulla testa, in ombra e leggermente fuori fuoco.

Il primo interrogatorio nella “prigione del popolo”

Grimaldi gioca continuamente con vicinanza e lontananza, sottolineando come la prima si sviluppi nei momenti di umanità e di interiorità, mentre la seconda si fissi in maniera incolmabile e immutata durante tutto il film, nei momenti in cui è la politica ad essere oggetto delle conversazioni.

Coerentemente con questa impostazione, il secondo interrogatorio è giocato tutto sui controcampi tra i volti dei brigatisti che accusano Moro per i suoi trascorsi fascisti e il prigioniero che risponde in modo evasivo.

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La distanza tra Moro e il suo carceriere, mentre quest’ultimo gli rinfaccia i suoi trascorsi da fascista e il fatto di essersi tenuto in disparte durante la guerra

Una scena che esemplifica in modo chiaro questa dinamica visiva, la troviamo durante il terzo interrogatorio. Qui Moro appare inizialmente in ombra, mentre racconta il suo ingresso in politica, riluttante nel prendersi responsabilità; ma, a mano a mano che il discorso si sposta sull’aspetto umano, l’immagine si fa più chiara, sino ad una inquadratura di Moro in piena luce, in primo piano, proteso verso il brigatista e la macchina da presa.

MORO

«Io sono un uomo politico molto mite. La politica mi è calata addosso fin da giovane, vede. […] Come tanti altri, io ho obbedito agli ordini, con una certa riluttanza […]

Ma io sono sempre stato un uomo di studio, ecco, non sono stato altro. Ho cercato di lavorare in politica, così come in tutta la mia vita, con umanità e dignità, con rispetto nei

confronti di chi è stato meno fortunato. Certo, ho avuto i miei privilegi, ma non sono un uomo ricco e voi lo sapete. […]

La mia famiglia sta soffrendo molto. Io vorrei solo tornare in famiglia. […]

Quel piccolo bambino ha portato un’immensa gioia nelle nostre vite. Lui si è affidato completamente a me, io dovrei essere con lui, a casa mia»

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Moro appoggiato all’indietro, in ombra, all’inizio del terzo interrogatorio

Moro con il volto illuminato, proteso in avanti, mentre parla del nipote Luca

Ancora: in uno degli interrogatori più accesi, nel quale vengono rinfacciate a Moro le responsabilità politiche dell’appoggio al regime di Pinochet – per compiacere gli USA – i primi piani dei brigatisti e quello di Moro si alternano rapidamente. Moro glissa, nega, scuote la testa e gesticola come se stesse spiegando le ragioni della politica dall’alto di uno scranno parlamentare o sul podio di un comizio.

122 BRIGATISTA

«Lei, Ministro degli esteri Aldo Moro, ha fatto carte false per riconoscere il più disgustoso regime fascista degli ultimi vent’anni»

MORO

«Ma voi dimenticate l’innumerevole presenza di interessi economici italiani in Cile.

[…]

Voi non potete semplificare la complessità politica del continente sudamericano con quattro statistiche...»

[…]

BR.

«Voi siete stati complici di Kissinger e di Nixon, che hanno finanziato il golpe di Pinochet con soldi americani. E perché mai? Perché l’Italia non perdesse lo sguardo

benevolo del signor Kissinger e del signor Nixon. L’Italia, il cinquantunesimo stato americano, il più servile e sottomesso di tutti»

Quando però l’accusatore alza il tono e gli attribuisce responsabilità personali nella morte delle tantissime vittime del regime cileno, Grimaldi non stacca, ma sposta velocemente l’inquadratura dal brigatista ad Aldo Moro, uniti, per la prima volta, in un unico movimento di macchina. Certo, dal punto di vista politico per lo spettatore, la frase che pronuncia Moro («Le mie mani sono pulite») riecheggia grottescamente i processi degli anni ‘90 e forse nasconde – ma non troppo – un riferimento alla DC travolta dagli scandali di corruzione.

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La sequenza dell’interrogatorio sui fatti sudamericani: Moro che quasi ignora le accuse; quindi, spiega ai brigatisti il funzionamento della politica sudamericana; infine, Moro che, messo sotto pressione, urla: «Le mie mani sono pulite!»

Il film di Grimaldi riprende, in parte, le dinamiche di quello di Ferrara. Ma inverte i rapporti, in taluni casi: ad esempio, mentre Ferrara mostra le immagini di via Fani e sottolinea la brutalità dei brigatisti, Grimaldi mette in risalto quelle perpetrate dalla polizia. Una certa evoluzione del personaggio di Moro interpretato da Seth riecheggia quella del personaggio di Volontè ne Il caso Moro: anche nel film di Grimaldi l’abbandono del suo partito si accompagna ad un avvicinamento ai suoi rapitori. Però nel film di Grimaldi questo aspetto è meno rimarcato e lascia il dubbio che questo comportamento da parte di Moro sia strumentale al salvarsi la vita. Fino all’ultimo, infatti, Grimaldi equilibra le parole dei carcerieri, tra quelle di chi vorrebbe liberare il prigioniero – per ragioni politiche e umane – e coloro che invece sostengono che Moro sia «il più geniale politicante» e che quella famigliare sia una farsa volta a intenerire i brigatisti.

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Anche visivamente il film di Grimaldi richiama quello di Ferrara, sia per le inquadrature di Moro nel suo cubicolo e durante gli interrogatori, sia in altre circostanze, come – ad esempio – la scena in cui viene mostrato a Zaccagnini il manifesto funebre prima ancora che il delitto sia compiuto.

Frammenti nei quali il film di Grimaldi richiama alla mente quello di Ferrara

L’insistenza di Grimaldi sui momenti di intimità e di umanità di Moro è minore rispetto a quella di Ferrara: sono rarissimi i momenti nei quali appare sullo schermo la moglie, ad esempio, che invece ne Il caso Moro è uno dei personaggi protagonisti. Ma il lato umano di Moro emerge più volte e ancora più forte poiché messo ripetutamente a contrasto con quello del Moro politico, al quale nessuna accusa viene risparmiata.

Nel gioco di vicinanze e lontananze, il momento più interessante è racchiuso nella scena in cui un Moro sopraffatto dalla situazione, dai sensi di colpa e dalla paura di morire, si sveglia nel cuore della notte invocando aiuto e poco dopo stringe le braccia del carceriere accorso nel suo cubicolo.

125 Moro confessa al brigatista di aver paura della morte

Che il Moro politico sia nel mirino del regista siciliano emerge chiaramente anche dalle scene che raccontano le reazioni dei militanti del PCI. Mentre nelle altre pellicole che abbiamo esaminato non viene dato spazio alle voci dissonanti e – tutt'al più – si ipotizzano manovre politiche oscure che segnano la sorte di Moro, Grimaldi vuole dar voce anche a coloro che, nella sinistra, non dimenticavano che Moro restava pur sempre un avversario politico. E dei più temibili. Come spiegano le parole di un militante:

«Aldo Moro si è mangiato quel poveraccio di Nenni e tutti i socialisti, che ora sono al 10% in meno. E la cosa più disonesta, la cosa più vigliacca, è che ha trovato lo

stratagemma per mangiarsi anche noi!»

Parole queste che fanno eco con quelle pronunciate da un brigatista durante un dibattito:

«Se Moro fosse liberato, la Democrazia cristiana lo riaccoglierebbe a braccia aperte come la pecorella smarrita. E le Brigate Rosse sarebbero per tutti solo una pericolosa

banda di sovversivi che lo ha torturato con droghe e con violenza»

Si può perciò affermare che Grimaldi, coerentemente con i suoi intenti, non faccia alcuno sconto al Moro politico; più di un aspetto controverso della sua carriera politica gli viene rinfacciato durante gli interrogatori. Allo stesso tempo però, l’umanità e il senso della famiglia del prigioniero sono messi ripetute volte in risalto, benché la sua figura sia,

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sostanzialmente, dissacrata. Spogliata, cioè, di quell’aura da martire di Stato – morto per difendere la Repubblica – che gli è stata cucita attorno, come abbiamo visto nei capitoli precedenti. Un’aura che gli era stata negata anche dai suoi ex sodali e dallo Stato italiano, il quale, nella ricostruzione di Grimaldi, era pronto – su suggerimento della consulente statunitense giunta a dare direttive al governo italiano – a dichiarare Moro affetto da

“sindrome di Stoccolma”, disponendone il ricovero coatto nel caso in cui fosse stato liberato. La vocazione al martirio gli è infine strappata di dosso in una delle ultime sequenze. Dopo la scena del vertice politico in cui si raccomanda la linea da tenere nei confronti di un Moro non in sé, la macchina da presa torna nella prigione del popolo. Il presidente della DC è in piedi, di fronte a due brigatisti – presumibilmente gli alter ego di Moretti e Bonisoli – ed espone loro il suo piano per aver salva la vita, accontentandosi di essere condannato all’ergastolo. Le prime battute del dialogo risultano grottescamente efficaci nel segnare un punto di non ritorno, politico, del prigioniero. Mentre lo schermo è ancora nero dopo la dissolvenza che chiude la scena nei palazzi del potere, Moro inizia a parlare:

MORO

«Confesso che in questo momento mi sento più vicino a voi che al mio partito. Io posso dire adesso di comprendere le vostre istanze rivoluzionarie, le capisco profondamente»

BRIGATISTA

«E allora, cosa vuole fare? Entrare nelle Brigate rosse?»

MORO

«Ma voi mi avete condannato a morte, dal vostro punto di vista anche giustamente, suppongo. Ma la pena di morte in Italia non è riconosciuta, è il massimo della pena che

potrei aspettarmi è la prigione a vita»

127 Moro che prova a contrattare la sua condanna

Non c’è alcuna solennità nel Moro di Grimaldi; nessun riferimento al martirio politico, nessun parallelo cristologico. Il Moro di Se sarà luce, sarà bellissimo è un politico inchiodato alle sue responsabilità, che si difende dicendo che «La politica è prostituzione» e che «La politica è per gli uomini mediocri». Un uomo che cerca di intenerire i suoi carcerieri parlando loro della sua famiglia e che prova a contrattare la propria salvezza offrendosi dicendo: «Confesserò tutto quello che volete».

L’ultima scena nella quale compare il presidente della DC lo vede seduto sulla branda. Di fronte a lui i due brigatisti, per la prima volta a volto scoperto. Gli dicono che lo stanno liberando. Moro non risponde, ma pare non credere alle loro parole. Lo invitano a vestirsi e Grimaldi si sofferma sulla lenta preparazione del prigioniero. La macchina da presa segue le dita che, bottone dopo bottone, risalgono fino al colletto della camicia bianca, stirata di fresco. È come se Grimaldi volesse sottolineare, dopo tanta insistenza sulla contrapposizione tra il Moro umano e il Moro politico, che è quest’ultimo che si sta preparando a morire. Non è l’uomo in pigiama che implora pietà, ma il politico condannato: dal suo partito e, soprattutto, dalle sue azioni. Non certamente il martire di Stato che affronta un destino tragicamente segnato dalla Storia.

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Moro indossa nuovamente la camicia bianca: torna politico e si prepara alla condanna morte

A interpretare il politico italiano è un attore indo-inglese, Roshan Seth. Già politico nel ruolo di Nerhu in Gandhi (Attenborough, 1984) e interpreta anche di film di avventura e di cassetta come Indiana Jones e il tempio maledetto (Indiana Jones and the Temple of Doom, Spielberg, 1984) e Street Fighter – Sfida finale (Street Fighter, De Souza, 1994) è comunque un volto poco noto agli spettatori italiani. Non porta perciò con sé un’immagine che possa in qualche modo condizionare l’immaginario del pubblico.

Non come il divo Volontè, né come un Herlitzka che porta con sé l’aura del tragico scespiriano. E nemmeno, come capiterà in seguito, con Michele Placido nel film per la tv Aldo Moro – Il presidente (Tavarelli, 2008) che ha alle spalle numerosi film conosciuti al grande pubblico.

È, quello del film di Grimaldi, il volto di un Moro vergine, privo ancora di connotati paratestuali per la maggioranza degli spettatori; adatto in maggior misura a proporre una lettura differente della figura del presidente della DC: un Moro, per dirla con le parole del regista, «politicamente scorretto», da raccontare all’interno di «un’altra storia». Una storia che Seth interpreta, nel ristretto spazio della prigione del popolo, giocando abilmente con sguardi e posture, che sottolineano ad ogni scena vicinanza e distacco e sottolineano i due Moro confliggenti.

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