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Le figure dei brigatisti …

La prima considerazione che va fatta a proposito della rappresentazione dei brigatisti nella pellicola di Ferrara è la scelta dell'autore di mostrare i quattro carcerieri a volto scoperto. Il primo dialogo tra Moretti e Moro riguarda proprio questo:

MORO

«Allora è già deciso che mi ucciderete?»

MORETTI

«Ma che dice presidente?»

MORO

«Se parlate a viso scoperto con me...»

MORETTI

«Lei crede che Fidel Castro si coprisse il viso quando andava all'assalto della fortezza del Moncada? Siamo in guerra presidente. Arriva sempre un momento in cui i rivoluzionari se ne fregano della giustizia borghese: identikit, confronti, testimonianze...

Con lei qui, nella prigione del popolo, tutto è cominciato. È cominciato l'attacco al cuore dello Stato»

di Moro e ai dettagli dell’affaire retrospettivamente, proprio grazie al cinema investigativo di Petri e Ferrara, e non attraverso i telegiornali dell’epoca. […] Poiché non ero ancora stato esposto alla storia della Prima Repubblica, la sovrapposizione tra l’attore engagé e il politico assassinato […] creò un corto circuito nella mia mente, al punto che la rappresentazione della realtà divenne la realtà stessa, e per qualche settimana rimasi convito che Moro e Volonté fossero la stessa persona. Leggendo stralci delle recensioni dell’epoca […] è evidente come il plagio tra il volto di Moro e quello dell’attore, seppur viziato dal mio sguardo preadolescenziale, non fosse poi del tutto naïve»

55 R. Scalia, Il caso Moro e il cinema: l'elaborazione collettiva di una tragedia nazionale?, cit.

56 Quest'ultima osservazione trova riscontro nelle affermazioni di Ferrara, in F. Ventura, Il cinema e il caso Moro, Le Mani, 2008, pag. 154.

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La scelta di Ferrara è un falso storico. Il dialogo sopra riportato non è mai avvenuto. I brigatisti, secondo le loro testimonianze, si presentarono a Moro sempre con il volto coperto dai passamontagna. Perché, dunque, all'interno di un film che hai il taglio di un documentario, che lavora sulla sovrapposizione tra realtà e finzione57, una scelta così radicalmente antistorica58? Qual è il valore di questa scelta e quale effetto ha nei confronti dello spettatore?

In merito alle figure dei brigatisti nel film di Ferrara, la lettura più diffusa ne rimanda una rappresentazione quasi monolitica, certamente colpevole, il più delle volte completamente priva di pietas, soverchiata dallo spessore che va via via acquisendo il prigioniero e dagli eventi esterni – il successo dello sciopero generale, la delegittimazione delle lettere di Moro, la linea della fermezza che non conosce crepe – che risultano loro imprevisti e ai quali non sanno reagire. Secondo P. Desogus59, ad esempio, ne Il caso Moro i brigatisti «sono rappresentati come automi totalmente spersonalizzati, immersi in un immaginario fittizio e irrazionale». Secondo S. Gastaldi «I brigatisti di Ferrara sono del tutto sprovvisti di pietas. Il loro atteggiamento nei riguardi del prigioniero e della loro azione è rappresentato come immutabilmente ostile dall’inizio alla fine del rapimento60».

E ancora: «Ferrara descrive i suoi brigatisti sotto una assoluta luce negativa: sono spavaldi, determinati, sicuri, cinici e perfino sarcastici nei confronti di Aldo Moro, che per loro rappresenta il potere di uno Stato che odiano e vogliono solo rovesciare61». Le ragioni di questa lettura si possono riscontrare soprattutto in due aspetti della pellicola di Ferrara.

Il primo riguarda la sequenza iniziale. Ferrara, unico tra i registi che si occupano del caso Moro, sceglie di iniziare la narrazione mettendo in scena il delitto di via Fani. In linea generale si può dire che mostrando l'assalto senza risparmiare nulla nei dettagli – gli

57 Cfr. le osservazioni, solo in parte condivisibili, di P. Desogus, Il brigatista sul grande schermo. Appunti su memoria e trauma del terrorismo rosso nel cinema italiano, in Sociétés face à la terreur (de 1960 à nos jours). Discours, mémoire et identité, a cura di N. Bonnet, P.P. Grégorio, N. Le Bouëdec, A. Palau, M.

Smith, Orbis Tertius, 2017, pag. 405 e seguenti).

58 Lo stesso Ferrara ha dichiarato che non ripeterebbe quello che oggi considera un errore (F. Ventura, Il cinema e il caso Moro, p. 163, cit.).

59 In P. Desogus, Il brigatista sul grande schermo. Appunti su memoria e trauma del terrorismo rosso nel cinema italiano, in Sociétés Face à la Terreur (De1960 à Nos Jours) Discours, Mémoire et Identité, N.

Bonnet, P-P. Grégorio, N. Le Bouëdec, A. Palau, M. Smith (a cura di), Orbis Tertius, 2017

60 Sciltan Gastaldi in Fra Erinni ed Estia: rappresentazioni della donna brigatista nei film Il caso Moro (1986), La seconda volta (1995), La meglio gioventù (2003) e Buongiorno, notte (2003), cit., pag. 124.

61 Ibid., pag. 124.

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spari, il sangue, i corpi degli uomini della scorta crivellati di colpi – Ferrara tenda ad orientare il giudizio del pubblico in maniera netta. Il secondo aspetto che motiva il giudizio di studiosi come Gastaldi e Desogus, che abbiamo poco fa citato, è l'univocità che sembrano riscontrare nei brigatisti: una condotta che, secondo la loro osservazione, non varia nel corso del film e perfino ruoli e battute che potrebbero essere interscambiabili, in virtù dell'assenza di differenziazione tra i vari brigatisti.

Eppure, il film di Ferrara si presta a una lettura più sfumata, osservando con attenzione quel che accade sullo schermo. È vero che l'assalto, di per sé, risulta uno stigma morale e visivo che pesa sulle figure dei brigatisti. Ma la sequenza iniziale contiene molte altre informazioni. Proviamo a scomporre le scene che la compongono. Le figure dei terroristi che si preparano all'assalto sono montate in contrapposizione alle scene di quotidiana familiarità che ci mostrano Moro in compagnia del nipotino Luca. Anche la sceneggiatura contribuisce alla contrapposizione tra la vittima e i cattivi, i “lupi” nella favola che il nonno Moro ricorda al nipote. Tutti i brigatisti fanno parte del commando, tutti sono responsabili della morte degli uomini della scorta. La loro presentazione ce li mostra concentrati, spietati. «Come siamo coi tempi?» domanda Moretti mentre sistema il giubbotto antiproiettili e controlla la pistola. «Mancano cinquanta minuti» risponde la compagna Barbara Balzerani mentre indossa una parrucca bionda. È ripresa in primo piano, Moretti è sullo sfondo e fra i due c'è uno scaffale sul quale sono appoggiati pochi libri, in modo disordinato. Non c'è alcuna intimità tra i due: sono due killer che si preparano all'azione.

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Balzerani – in primo piano – e Moretti – dietro – si preparano per l'agguato di via Fani

Il contrappunto è segnato dalla scena successiva. Una pistola appare in primo piano, per essere infilata, senza alcun controllo, nella fondina che uno degli uomini della scorta tiene sistemata al petto. Per lo spettatore che conosce gli eventi, il dialogo tra l'uomo e la moglie è tragico e grottesco. «Salutami la signora Moro» dice la signora. E dopo la risposta affermativa del marito, domanda: «Vieni a cena stasera?». La risposta del marito, mentre indossa la giacca aiutato dalla moglie e poi prende il soprabito che lei gli porge, arriva direttamente da un mondo consuetudinario, domestico, famigliare: «Eh, lo sai com'è il Presidente: quello non ha orari. Tranquilla che ti telefono». Un bacio sulla guancia per salutarsi, senza saperlo, un'ultima volta.

La scena successiva ci porta in casa di Morucci e Faranda. I due – ricordiamolo – si erano dissociati dalle BR e avevano rilasciato una serie di dichiarazioni al giudice Imposimato che Ferrara aveva consultato prima delle riprese. Sono due brigatisti, ma la scena ricalca più quella precedente che quella che riguarda Moretti e Balzerani. Intanto sarà solo Morucci a prendere parte all'assalto. Come Moretti, Morucci controlla l'arma, poi si alza dal divano. La Faranda lo aiuta nei preparativi: gli porge il giaccone dell'Alitalia, gli calca il cappello della divisa sulla testa. Nel frattempo, si scambiano poche battute di dialogo: «Mi raccomando, non farmi stare in pensiero. Chiamami appena puoi» dice lei. Il compagno, evasivo, le risponde che se le cose fossero andate male, lo

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avrebbe saputo dalla radio; in caso contrario, attraverso il solito sistema. Quindi Morucci chiede alla compagna di controllare se l'uscita è libera. La Faranda osserva dalla finestra, quindi la macchina da presa la segue fino all'ingresso e, con raccordo di sguardo, ci mostra la tromba delle scale libera, attraverso lo spioncino. Morucci, fino a quel momento piuttosto freddo, la raggiunge e davanti alla porta ancora chiusa, la afferra con un braccio e la saluta con un bacio appassionato. Appeso alla porta c'è un poster: è la locandina di Ultimo tango a Parigi, film di Bertolucci uscito nel 1972. Non può essere una scelta casuale quella di Ferrara, nessun cineasta inserisce la locandina di un film senza la consapevolezza del suo portato, tanto meno quella di un film tanto noto e dalle vicende censorie celebri come quelle che riguardarono la pellicola di Bertolucci. Certo è un poster che nella casa di due giovani (Morucci è del 1949, Faranda del 1950) ribelli del 1978 ci si può aspettare. Ma non è una pellicola in alcun modo ascrivibile ideologicamente all'area della sinistra estrema62. È lo sfondo perfetto per il bacio appassionato di due giovani che si salutano davanti alla porta di casa. Non il poster che ci si aspetterebbe in un covo di brigatisti.

Morucci e Faranda si salutano scambiandosi un bacio appassionato. Dietro di loro, il poster di Ultimo tango a Parigi

62 Certamente, con questo poster, Ferrara vuole comunque giocare con il valore politico del film di Bertolucci, sul quale si vedano le osservazioni in O’Leary (cit., pag. 140 e successive).

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Complessivamente, possiamo affermare che la scena in casa di Morucci e Faranda si differenza decisamente da quella in casa di Moretti e Balzerani. Una differenziazione che Ferrara sottolineerà ripetutamente nella sua pellicola, contraddicendo il parere di chi vede ne Il caso Moro una rappresentazione monolitica delle BR. Il contrasto tra le due

“anime” delle BR viene sottolineato visivamente anche nella sequenza di via Fani, quando Balzerani arriva al volante per recuperare Morucci e lo redarguisce con impeto, perché invece di recuperare le borse di Moro resta stordito e scioccato – arma in mano – ad osservare la strage appena compiuta. Per la verità, anche i volti degli altri brigatisti coinvolti tradiscono incredulità e senso di colpa; solo Moretti sembra non avvertire alcuna emozione.

Morucci incredulo e immobile davanti alla strage che si è appena compiuta

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Balzerani, con la parrucca bionda che le abbiamo visto indossare in una delle prime scene, rimprovera Morucci che è sotto shock

Nella scena in cui la colonna romana si incontra all'aperto, sono ancora Morucci e Faranda ad opporsi all'indirizzo del comitato centrale, riportato da Moretti, di condannare a morte Moro. «Bisogna aspettare» interviene quasi supplicando Morucci63. Moretti è irremovibile e risponde duramente anche alle osservazioni della Faranda. Che il dibattito all'intero delle BR fosse più animato di quanto si poteva pensare è illustrato anche dalla scena della riunione nella sede milanese: al termine, si giunge a una decisione unanime, ma non senza contraddittorio. Si può dire che Ferrara abbia, almeno in parte, tenuto conto di quanto era emerso negli anni precedenti, anche attraverso il memoriale del pentito Patrizio Peci64 nel quale le differenziazioni all'interno delle BR vengono sottolineate.

Un altro momento di confronto che sottolinea la non unanimità delle scelte dei brigatisti è relativo alle prime lettere di Moro. Il direttivo discute sull'opportunità o meno di renderle pubbliche, scegliendo per quest'ultima soluzione, anche se non tutti sono d'accordo. Il dibattito prosegue però in una piazza romana, tra Moretti e Faranda e Morucci. Il primo afferma che il direttivo ha già deciso, gli altri due esprimono il loro

63 Il confronto, avvenuto l'8 maggio in via Chiabrera, viene narrato da Morucci, come riportato negli atti parlamentari, consultabili anche on-line, vedi:

http://leg13.camera.it/_dati/leg13/lavori/doc/xxiii/064v02t02_RS/00000019.pdf

64 P. Peci, G. B. Guerri (a cura di), Io, l'infame, Mondadori, 1983.

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dissenso e disappunto: «Vedrete, la DC si irrigidirà ancora di più. E poi a che scopo tradire la fiducia di Fritz [il nome in codice usato per indicare Moro tra le BR]? Bene o male ci conviene averlo alleato. È lui che conosce le smagliature del potere» afferma Morucci. E Faranda rincara, puntando sull'aspetto personale e umano, oltre che politico: «È assurda la scorrettezza che gli stiamo facendo». Le parole di Morucci introducono due temi che si svilupperanno ulteriormente nel proseguimento della pellicola: il legame tra la sorte di Moro e quella delle BR – che usciranno, infatti, parimenti sconfitti dalla vicenda – e il fatto che il segretario della DC sia per i brigatisti una guida.

Il primo aspetto è sottolineato dallo stesso Moro, infuriato con Moretti perché le sue lettere sono state rese pubbliche.

MORO

«Prima accettate il principio che la lettera sia segreta, poi non è segreta!»

MORETTI

«Il comitato ha deciso che niente va tenuto segreto al movimento rivoluzionario»

MORO

«Potevate dirmelo! L'avrei riscritta»

MORETTI

«Non c'era tempo, siamo in guerra, non siamo mica in Parlamento»

MORO

«Ma vi rendete conto che rendendo pubblica questa lettera avete offerto ai miei nemici l'occasione – e i miei nemici non sembrano essere pochi, da quanto comincia a trapelare

– gli avete offerto l'occasione di svilire la mia integrità, col rischio di creare un'atmosfera di indifferenza intorno alla mia sorte. Ma anche intorno alla vostra, vi

rendete conto?»

Moretti, che fino a quel momento aveva ascoltato lo sfogo di Moro appoggiato rigido e indifferente al muro, dopo le ultime parole si scuote, rendendosi conto dell'errore commesso.

51 Moretti ascolta, indifferente, lo sfogo di Moro

Moretti lascia cadere le braccia, scuotendosi dalla propria indifferenza, mentre si rende conto che Moro ha ragione

È questo il secondo aspetto prefigurato da Morucci con le parole pronunciate in piazza: Moro ci vede sempre un po' più in là dei brigatisti, che Ferrara ci presenta quasi come ingenui, di certo obnubilati, spesso impreparati. Dopo averlo apostrofato inizialmente, poco dopo l'assalto, chiedendo ironicamente a Moro se stesse provando a dar loro dei consigli, Moretti – di fatto – si affiderà alle scelte del politico nella gestione

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del sequestro65. In un progressivo scoraggiamento, sottolineato anche dal linguaggio del corpo di Moretti, in modo quasi caricaturale, il capo dei brigatisti lascerà sempre più spazio alla dialettica del prigioniero. Il quale proverà a istruire i suoi carcerieri («Forse il mondo è più complesso di così») scontrandosi con la loro mentalità troppo rigida. Nella lotta del linguaggio, Moretti rimane imbrigliato e più volte si ribella temendo di essere raggirato dalla dialettica morotea che aveva reso celebre Moro. Ferrara sottolinea quest'aspetto mostrandoci un Moretti assai diverso quando si trova nella prigione del popolo, alla presenza di Moro, rispetto a quello risoluto e decisionista che agisce al di fuori del covo di via Montalcini. L'omicidio di Moro diventa quasi un estremo gesto di ribellione del comitato direttivo, prima di essere assorbiti dalla politica del segretario della DC.

Quello che però contribuisce a dare uno spessore alle figure dei brigatisti, sganciandoli, almeno in certi momenti, da quelle figure macchiettistiche che in molti hanno riscontrato nella pellicola di Ferrara, sono alcune immagini disseminate lungo tutto il film; brevi inquadrature nelle quali la soldatesca integrità dei terroristi si incrina, gesti ed espressioni che si discostano significativamente anche dalle parole che essi stessi pronunciano ripetutamente. Perché è vero che il linguaggio utilizzato dai carcerieri di Moro risponde ai codici e agli slogan del gergo militare e terroristico, lo stesso che appare nei loro comunicati, ma i loro gesti e le loro espressioni ne costituiscono, in certi frangenti, un controcanto. Esaminiamone alcuni esempi.

Nella già citata scena in cui uno dei carcerieri si avvicina a un Moro già condannato, si rivolge a lui con parole incoraggianti. Esordisce con un'osservazione preoccupata («Perché non ha mangiato niente?»). Quindi commenta affermando che la condanna non è definitiva, potrebbe essere anche considerata un passaggio tattico. Gli si siede accanto, creando una familiarità fino a quel momento sconosciuta. Sullo sfondo la Braghetti, in camicia da notte, assiste alla scena. Il dialogo non decolla, arenandosi sulle frasi militaresche e sugli slogan dei brigatisti. Tra queste, la più dura la pronuncia proprio la Braghetti: «Abbiamo scelto di lottare con le armi, perché era l’unico modo di farvi

65 Questo aspetto viene confermato dallo stesso Moretti che nell'intervista rilasciata a R. Rossanda e C.

afferma: «Ma noi eravamo le Brigate Rosse, un'organizzazione rivoluzionaria, non una conventicola del palazzo: del potere sapevamo poco o nulla. Soltanto discutendo con Moro scopriremo i meccanismi attraverso i quali la Dc si regge». (M. Moretti, Le Brigate Rosse. Una storia italiana, cit.).

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paura». Una frase messa in bocca a una ragazza che poco prima viene inquadrata appoggiata alla parete, in camicia da notte, con un maglione sulle spalle, i capelli sciolti, che guarda verso Moro con un'espressione carica di pietà. È vero dunque che, nella sceneggiatura, Ferrara non fa alcuna concessione ai brigatisti, lontani dalla figura dei giovani idealisti; siamo anche ben lontani dall'immagine non assolutoria, ma pacificatoria, che ne darà Bellocchio. Ma la loro monolitica mentalità è più volte incrinata da un gesto, un atteggiamento, un'espressione.

Il terzo brigatista siede accanto a Moro e inizia a raccontargli come è entrato nella lotta armata

Secondo Scalia, l'unica concessione che Ferrara fa ai brigatisti «è quella di una gelida ma premurosa cortesia nei confronti del prigioniero, incrinata talora da cedimenti ad una autentica pietà umana66»; in realtà, per quanto possano sembrare poco significativi, questi gesti di cortesia risaltano proprio per la loro contrapposizione con le parole retoriche che vengono rivolte a Moro durante gli interrogatori. Paradigmatica in questo senso è la scena in cui l'altro carceriere entra nel cubicolo interrompendo l'interrogatorio

“ufficiale” di Moretti per portare un brodo caldo al prigioniero. Mentre Moretti incalza il presidente a proposito delle basi NATO in Sardegna, si sente il terzo brigatista che bussa e poi entra, mentre Moretti si interrompe: «No, non adesso, non adesso» e lui replica: «È del brodo caldo, me lo avete fatto fare...». Moro pare divertito e sorridendo si rivolge a

66 R. Scalia, Il caso Moro e il cinema: l'elaborazione collettiva di una tragedia nazionale?, cit.

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Moretti: «Beh, possiamo riprendere dopo». Le cure rispettose che i brigatisti prestano al presidente della DC sembrano andare oltre quanto necessario per mantenere il prigioniero in buona salute.

Già nel suo pamphlet, Sciascia aveva anticipato quello che Ferrara sembra cogliere nella sua pellicola. A proposito della familiarità che si crea tra prigioniero e carcerieri, Sciascia67 scrive: «Tanti piccoli gesti; tante parole che inavvertitamente si dicono, ma che provengono dai più profondi moti dell'animo; un incontrarsi di sguardi nei momenti più disarmati; l'imprevedibile e improvviso scambio di un sorriso; i silenzi – sono tante le cose, tanti i momenti, che giorno dopo giorno – per più di cinquanta – possono insorgere ad affratellare il carceriere e il carcerato, il boia e la vittima. E al punto che il boia non può più essere boia».

Il terzo brigatista entra nel cubicolo portando un brodo caldo per il prigioniero

A Moretti – un aspetto che testimonianze e ricostruzioni storiche confermano – è affidato il ruolo del brigatista più inflessibile. È lui l'unico che fa parte del direttivo delle BR, è lui a portare nel covo di via Montalcini le istruzioni su come agire, è lui che si rapporta con Moro per gestire le fasi del sequestro ed è sempre lui che conduce gli interrogatori. Le scene di dialogo tra Moretti e Moro vengono girate secondo alcuni canoni che si ripetono lungo tutto il film. Nel momento in cui Moretti svolge un

67 L. Sciascia, L'affaire Moro, p. 98-99, cit.

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interrogatorio “ufficiale”, registrato, la macchina da presa è ferma; il brigatista compie gesti misurati ed è sempre in una posizione soprelevata rispetto al prigioniero.

Un'inquadratura tipica degli interrogatori: Moretti in piedi, rigido; Moro seduto, ascolta senza guardare il suo interlocutore.

Quando Moro risponde e argomenta, la telecamera si muove. Stringe sul volto di Moro e coglie, in alcuni frangenti, una mimica di Moretti tutt'altro che militaresca. Il Moro politico e la sua dialettica prendono il sopravvento, attirano – incantano – la macchina da presa come attirerebbero l'uditorio, nelle piazze o in Parlamento.

MORETTI

«Noi vogliamo sapere il ruolo del suo partito in questa cospirazione internazionale contro la classe operaia.»

MORO

«Davvero mi viene difficile capire la visione che avete voi del mio partito. Un monolite tutto partecipe di un disegno dai grandi contorni. Per quel che ne so io, gli uomini della

Democrazia Cristiana prestano infinitamente più attenzione alla sorte ultima di meschine consorterie interne...»

Mentre scorrono i cinquantacinque giorni della prigionia, la gestualità di Moretti si arricchisce. Atteggiamenti che sottolineano la crescente frustrazione per la piega che

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