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Le figure dei brigatisti

Il punto di partenza della nostra analisi in merito alle figure dei brigatisti parte da un assunto che pare chiaro, nella costruzione filmica di Bellocchio. Il paradigma della loro rappresentazione è quello della famiglia. A partire dalla sequenza iniziale e proseguendo lungo tutto il film, la pellicola mostra i quattro sequestratori (e il prigioniero) all’interno di una dinamica quotidiana che rispecchia la tipica famiglia borghese.

Vediamo alcune di queste scene.

La prima è tutta giocata su un contrasto di chiaroscuri e sul paradosso tra quello che ci mostra lo schermo (e quello che lo spettatore sa della vicenda che verrà narrata) e il sonoro: il monologo dell’agente immobiliare che presenta l’appartamento alla coppia di giovani diventa a tratti surreale; ad esempio quando, dopo aver illustrato spazi, dotazioni, finiture, luminosità, tranquillità e discrezione dell’appartamento, raggiunge insieme a Chiara il compagno fittizio di lei, che si era attardato per misurare, a passi, uno dei locali ancora in penombra. Dopo aver sollevato le tapparelle e aver fatto entrare la luce nella stanza, illuminando i volti dei due brigatisti, l’agente immobiliare commenta così: «Questo qui si può adibire a studio, ma spero che nel più breve tempo possibile lo possiate adibire alla camera per i vostri bambini». Proprio il locale in cui, invece, verrà ricavata la “cameretta” del prigioniero Moro. Il sorriso dei due brigatisti è forzato per noi che conosciamo la storia, ma sincero – famigliare – per l’agente immobiliare.

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Il sorriso dei brigatisti, mentre l’agente immobiliare augura loro che quello spazio – il futuro nascondiglio di Moro – diventi quanto prima una cameretta per i loro figli.

A sequestro riuscito, inizia la convivenza quotidiana dei cinque e si moltiplicano le scene di vita famigliare. Dapprima riproducendo con forza la costruzione ossimorica del film.

Ad esempio, mentre Andreotti alla televisione fa appello alle forze sociali e alle famiglie dicendo: «…ma vivranno pure in qualche parte, questi giovani, o questi uomini o queste donne, purtroppo, che si lasciano mobilitare per azioni criminose di questo tipo? Ci sono delle famiglie che possono, in un momento non ancora irreparabile, dir loro una parola…», Chiara rammenda un vestito, seduta sul divano, mentre i suoi compagni si occupano di smontare il cassone nel quale era stato trasportato Moro e di controllare e ripulire le armi.

Mentre Chiara rammenda, il suo compagno ripulisce le armi usate nell’agguato di via Fani

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Più avanti, ritroviamo i quattro seduti a tavola, davanti a una minestra110. Moretti, il padre, a capotavola. I due figli che si alzano dal divano e raggiungono la tavola qualche istante dopo; la televisione immancabilmente accesa che ronza in sottofondo. Chiara, che ondeggia continuamente tra i ruoli di madre, di figlia e di sorella, che si alza da tavola, redarguita dal padre-padrone Moretti. Di questa “famiglia”, poco alla volta, entra a fare parte anche Moro, inquadrato mentre - benché isolato nella sua prigione – mangia la stessa minestra.

I quattro brigatisti a tavola, la televisione accesa sullo sfondo; Moro, isolato, che mangia la stessa minestra

In una famiglia ci sono, ovviamente, anche dei contrasti. Ecco che allora Bellocchio ci mostra il compagno fittizio di Chiara come il “figlio ribelle”. È lui che si attarda davanti alla televisione mentre gli altri si danno da fare con le faccende domestiche – ad esempio pulire i piselli – ed è sempre lui che si impunta per uscire dal covo e recarsi dalla fidanzata “vera”. Una presa di posizione che lo porterà a un litigio violento con Moretti – spalleggiato dall’altro brigatista, il “figlio ubbidiente”.

110 Questo particolare della minestra rimanda proprio ad un particolare del racconto di Braghetti, che sottolinea la cura quasi familiare - e paradossale - che i brigatisti prestavano a Moro: «Cucinavo delle gran minestre. Le minestre fanno piacere a tutti, sono un cibo che dà conforto. Preparavo pasta e lenticchie, la più rapida, visto che le lenticchie non hanno bisogno di stare tante ore a bagno come altri legumi. E quando avevo tempo, o qualcuno prendeva l’impegno di mettere su la pentola un’ora prima del mio arrivo, portavo in tavola pasta e ceci o pasta e fagioli. Quando era stato interrogato sui suoi problemi di salute, se avesse bisogno di una dieta particolare - volevamo che si nutrisse, tentavamo di evitare qualunque tipo di complicazione - Moro aveva risposto che soffriva di stomaco, doveva mangiare leggero, soprattutto verdura, e non digeriva i fritti» (Braghetti, Tavella, Il prigioniero, cit., pag. 49).

97 Scene di vita domestica nel covo dei brigatisti

Il litigio tra il padre-padrone e il figlio ribelle

Ma in una famiglia ci sono anche momenti di intimità e tenerezza. Ecco allora che uno dei “fratelli” si prende cura di Chiara, portandola in braccio a letto; più avanti, invece, ecco Chiara che, sul divano, chiacchiera più vote, amabilmente, con il ribelle Ernesto.

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I compagni mettono a letto Chiara, che si era addormentata sul divano

Chiara ed Ernesto chiacchierano sul divano

Quest’insistenza sulla vita famigliare nel covo delle BR – appena accennata invece nel film di Ferrara – anche a discapito di altri dettagli o episodi (in tutto il film, nulla viene mostrato di ciò che avviene nei palazzi di potere; nessuna altra azione delle BR viene mostrata al di fuori di via Montalcini) sortisce un duplice effetto su quella che è la memoria dello spettatore.

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Da un punto di vista umano queste immagini – e l’audio che sapientemente le accompagna, come nel caso del discorso di Andreotti – sottolineano la “normalità” dei terroristi. Erano, sembra dirci Bellocchio, persone come tutti gli altri. Compravano casa, cucinavano, rammendavano, guardavano la televisione, litigavano. Non sono solo gli

“alieni”, indottrinati, militarizzati dei film anni ‘70111. Emblematico, in merito, un dialogo tra Chiara ed Ernesto. Il dialogo inizia con un raccordo di sguardi tra i due, che, appoggiati al divano, sospirano. In sottofondo si sente una canzoncina provenire dalla televisione.

CHIARA

«Che c’hai?»

ERNESTO

«Perché? Si vede che sono incazzato?»

C.

«Sì»

E.

«Mi manca Giulia»

C.

«Si capisce»

E.

«Vorrei fare quelle cose che si fanno normalmente. E invece non posso neanche chiamarla al telefono»

C.

«Lo sai...»

111 A questo proposito, O’Leary (cit.) osserva: «Ciò che è unico nella versione di Bellocchio è l’intimità della rappresentazione – i figli premurosi anche se assassini, la sorella/madre/figlia che prepara la cena per i fratelli e i figli assenti, la televisione che sfarfalla in continuazione nel soggiorno, il vecchio padre tenuto come un moribondo in una stanza sigillata (la prima volta che compare, Moro è nella posizione fetale che assumerà da morto). È una famiglia disfunzionale, ma può venire il sospetto che sia piuttosto tipica»

100 E.

«Sì, sì, lo so...ma io per lei metterei la mano sul fuoco»

C.

«Ma noi siamo soldati»

E.

«Ma quali soldati? Io manco l’ho fatto il militare»

C.

«Compagno Ernesto, un po’ di entusiasmo rivoluzionario»

Il dialogo si conclude con Chiara che sorride, ma, dopo l’inquadratura del brigatista che annuisce sconsolato e distoglie lo sguardo, il sorriso si spegne sul volto di Chiara, che si alza per andare a controllare il prigioniero. Quella convinzione rivoluzionaria diventa di facciata nelle sue parole successive, quando – tornata sul divano – Ernesto la incalza bonariamente:

E.

«Sei andata a guardarlo cinque minuti fa: sembri mia madre col rubinetto del gas»

C.

«È che devo sempre assicurarmi che ci sia, che non è tutto un sogno. Quando lo vedo mi rassicuro»

E.

«Perché vorresti fosse tutto un sogno?»

C.

«Non lo so, una cosa o l’altra...»

E.

«Io ho già risolto, non sogno più»

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Chiara ed Ernesto si trovano così accomunati nelle loro insicurezze; in contrasto con la figura granitica di Moretti – almeno inizialmente: col passare dei giorni, secondo una modalità d’interpretazione e rappresentazione avvallata dallo stesso Moretti e dal memoriale della Braghetti, anch’egli inizierà a faticare nel gestire il rapporto politico e umano con il prigioniero112. Immagini successive ci mostrano infatti un brigatista sempre più esausto all’uscita dai colloqui con il prigioniero.

Un Moretti visibilmente sconvolto, uscito dalla prigione di Moro dopo avergli letto la sentenza di condanna a morte

L’immagine che Bellocchio costruisce restituisce alla visione dello spettatore un quadro di dinamiche familiari che si mescola alle vicende politiche e in certi casi le sopravanza. L’insistenza anche lessicale su parole che rientrano in quella che potremmo definire l’area semantica della famiglia, crea un effetto straniante che porta lo spettatore a rivedere l’immagine che era stata assegnata, fino a quel momento, ai brigatisti. Non è un’assoluzione quella del regista, ma sicuramente una “riammissione in famiglia”, per quanto problematizzata113. Anche perché, come ci mostra Bellocchio (dando conto di

112 Vedi, ad es., Il prigioniero (cit., pag. 178) ove la Braghetti riferisce che a Moretti «ripugnava uccidere un uomo con il quale aveva trascorso tanto tempo. Lo conosceva, sapeva quanto temesse di lasciare indifesa la sua famiglia».

113 O’Leary (cit.), in merito, osserva: «Rifiutando la loro esclusione dalla famiglia – proprio tramite la loro rappresentazione come famiglia – Buongiorno, notte rifiuta la privazione della nazionalità dei rapitori di Moro, mentre consente una critica delle BR come figli che giocano un gioco futile e fatale».

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quella differenziazione che si era prodotta negli anni), non tutti i brigatisti sono uguali: ci sono quelli convinti delle loro ragioni, quelli critici, i pentiti e i dissociati della prima ora.

Le sequenze che raccontano le discussioni tra i quattro brigatisti e l’opposizione gridata da Ernesto e, soprattutto, Chiara – benché non venga ascoltata – danno conto della politica tutt’altro che monolitica delle BR, come aveva fatto già, d’altra parte, Il caso Moro.

È un aspetto, quello della rappresentazione dei brigatisti come famiglia, che non esaurisce il suo significato alla sfera, per così dire, sociale. Rimanda – ed è il secondo fattore di novità nel film di Bellocchio – a un aspetto più propriamente politico della vicenda. Il quale, a sua volta, mostra due risvolti particolarmente interessanti.

Il primo discende direttamente dalle scelte registiche di Bellocchio, che riprendono il racconto della Braghetti, mettendone in scena i contrasti interiori che racconta di aver vissuto nei giorni della prigionia di Moro. La decisione di Bellocchio di “dar voce” al racconto di una brigatista è, di per sé, una scelta ideologicamente importante, che rimanda – come detto poc’anzi – alla volontà di reintegrare gli ex brigatisti – e la loro voce come contributo alla memoria collettiva – nella famiglia nazionale e che riflette e suffraga, inevitabilmente, il ritratto di un Moro che non è più un politico “nemico” della sinistra extraparlamentare114.

La riduzione dei dissidi tra i sequestratori ad una dinamica di scontro familiare e di tormento personale banalizza e semplifica le motivazioni del terrorismo. Quelli di Bellocchio sono terroristi che non sanno prendere le misure alla realtà115. Che, come più volte ribadito, faticano a districarsi nella realtà politica – e linguistica – che Moro squaderna davanti ai loro occhi. Nelle parole di Enzo (che senza saperlo mette in crisi le certezze di Chiara, la quale infatti reagisce male, come un bambino toccato nel vivo) i brigatisti sono “pazzi”; non c’è modo di farli rinsavire se non, come capita alla brigatista nella sua sceneggiatura, con un ravvedimento improvviso e motivato solo dal fatto che

114 Per M. Bonaria Urban in Buongiorno, notte «compaiono dei brigatisti “sensibili” i quali, come la Braghetti, esprimono la loro ammirazione per la pazienza e mitezza di Moro, padre, marito e nonno affettuoso, fino a farne un «grande patriarca» della nazione» (Dal politico Moro all’uomo «stanchissimo e rassegnato». La narrazione del caso Moro ne Il prigioniero di Anna Laura Braghetti, in Caso Moro.

Memorie e narrazioni, cit.)

115 Quest’affermazione, che trova riscontro nella scena in cui i tre terroristi non riescono a far entrare la cassa contenente Moro nel cubicolo in cui lo rinchiuderanno, girandola più volte e sbuffando quasi grottescamente, viene confermata dall’osservazione dello stesso regista durante la già citata intervista al The Guardian: «Their ideals were so far from reality. And they could not see it» (S. Arie, My “little”

terrorist, cit.)

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“l’assassinio le fa orrore”. A Enzo che le racconta come ha rivisto la sceneggiatura di Buongiorno, notte inserendo il personaggio femminile, ispirato a lei, che libera il presidente, Chiara ribatte violentemente.

CHIARA

«Perché dovrebbe farlo? Com’è possibile che una terrorista che ha partecipato al sequestro convincersi, in meno di due mesi...»

ENZO

«Ma tu perché vuoi sempre una spiegazione logica? Perché di colpo ha orrore per l’assassinio, perché non ci crede più. Anzi, lei si infuria con sé stessa per essere stata

così cieca e così stupida... Deve fare qualcosa, deve assolutamente farlo, per non impazzire...»

Poco prima Chiara aveva accusato Enzo di parlare dei brigatisti come di «dei dementi, dei ragionieri che si masturbano con Playboy e poi vanno in giro ad ammazzare la gente» che le risponde accusando i terroristi di essere peggio dei servi del potere democristiano «perché li vogliono imitare», coi loro comunicati “deliranti”. La ricetta di Enzo, “l’immaginazione”, diventa l’unica possibile perché – secondo la sua lettura – non c’è una logica dall’altra parte.

A questo proposito, risultano particolarmente efficaci alcune scene che il regista dedica alla “famiglia” dei brigatisti. In una, ad esempio, vediamo Ernesto davanti alla televisione. Seduto sul divano guarda fisso lo schermo, mentre i suoi compagni si dedicano ad attività domestiche. Moretti riordina le carte, Chiara pulisce i piselli, il quarto brigatista bada ai canarini nella gabbietta. In televisione canta e balla Raffaella Carrà. Un tipico quadretto della piccola borghesia. Ernesto cambia canale. Appare sullo schermo il vicesegretario della DC, Giovanni Galloni, che, intervistato, apostrofa le BR come assassini e criminali. Ernesto, lo sguardo fisso e quasi allucinato, inizia a ripetere sottovoce «La classe operaia deve dirigere tutto»; ossessivamente, come un mantra. A lui si accodano i compagni, in un crescendo di voci che, improvvisamente, con un montaggio analogico, viene sovrastato dalle note della Marcia trionfale de L’Aida di Giuseppe Verdi e ai volti dei brigatisti si sostituiscono le immagini in bianco e nero di Tre canti su Lenin (Три песни о Ленине, Vertov, 1934), in cui compaiono le scene di una parata di

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propaganda e, poco dopo, addirittura un sorridente Stalin. Poiché, come già sappiamo dalla precedente scena del sonno di Chiara, Bellocchio usa gli inserti degli altri film per svelarci l’interiorità della terrorista, è palese l’appiattimento dell’ideologia brigatista su quella ciecamente filosovietica, dogmatica e antistorica.

I volti fissi dei brigatisti, mentre ripetono roboticamente lo slogan «La classe operaia deve dirigere tutto»

Un'immagine tratta da Tre canti su Lenin

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I brigatisti di Bellocchio sono prigionieri come e più di Moro. Prigionieri delle loro scelte, della loro ideologia e prigionieri delle dinamiche del sequestro, al pari del presidente della DC. L’appartamento di via Montalcini è un tripudio di sbarre. Si guarda fuori solo attraverso lo spioncino o sbirciando da finestre che vengono prontamente velate dalle tende. Quando, all’inizio del film, Chiara esce in giardino per ammirare i fuochi d’artificio, viene prontamente riportata dentro dal suo compagno. La gabbia dei canarini116 rimanda alla prigionia di Moro117.

La stessa Chiara, al di fuori dell’appartamento, appare sempre incerta, nervosa, guardinga ed indifesa. Nel confronto tra ideologia e realtà, la prima appare inevitabilmente sconfitta, persino dalle vacue parole di Enzo. Il crollo emotivo che la porta a perdere i sensi mentre un giovane parroco benedice l’appartamento di via Montalcini è l’esplicitazione visiva di un irrazionale che prende il sopravvento: dopo le ultime parole pronunciate dal religioso «Benedetto Signore sei tu, in questa casa, in questa famiglia, amen», Chiara sviene.

116 A un certo punto, infatti, i canarini scappano e Chiara viene accusata di aver lasciato la gabbia aperta, in una sorta di profetica anticipazione del finale. Altrettanto profeticamente, un suo compagno si affretta a commentare che essendo nati in cattività, sarà sicuramente già stato mangiato dai gatti.

117 Nelle sue memorie, la Braghetti tenta una sorta di autoanalisi, chidendosi in merito alla gabbia lasciata inavvertitamente aperta, cosa nascondesse quella sua disattenzione: «Chi avrei voluto lasciare libero? Me stessa, Aldo Moro?» (Il prigioniero, cit., pag. 78). Bellocchio coglie il “suggerimento” dandone forma nella sua narrazione.

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Chiara sviene davanti a Ernesto, al parroco e al chierichetto. Ernesto poi darà vita a un dialogo surreale, per lo spettatore che conosce la verità. La giustificherà col parroco dicendo: «È molto stanca, non dorme la notte». «Aspetta un bambino?» replica il religioso. «Sì». «Allora ci rivediamo per il battesimo»

All’inizio della vicenda i brigatisti ci vengono presentati come un nucleo efficiente, compatto, persino lucido nell’analisi politica, come quando Moretti spiega agli altri, davanti al comizio di Lama, che è lecito aspettarsi che non tutti siano d’accordo con loro118. Non indenni da emozioni, anche contrastanti – il volto di Ernesto che osserva in televisione le immagini della strage di via Fani è quello di uno che si rende conto solo in quel momento che cosa aveva commesso. Ma comunque consapevoli del loro agire politico. Mentre però i giorni del sequestro scorrono, Bellocchio ci mostra sempre più spesso – insieme alla tensione che si crea all’interno del “nucleo familiare” – Moretti che esce stravolto dai suoi colloqui con Moro. Gli altri, a poco a poco, abbandonano il divano e la televisione, per assieparsi nell’intercapedine ad ascoltare i discorsi del prigioniero: il loro rapporto si fa più intenso, il dialogo sui generis si intensifica, fino al momento in cui Moro chiede un parere a Chiara sulla lettera che ha appena scritto per il papa. Le lacrime di Chiara accompagnano la lettura, benché lei, poco dopo, si schermisca descrivendole come lacrime di rabbia, per una lettera troppo fredda e formale, rassegnata. Di fatto, è la certificazione del suo laceramento interiore o, per usare le parole di Enzo, della sua

118 Le stesse immagini ne Il caso Moro di Ferrara provocano una reazione sconcertata e incredula dei brigatisti.

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dissociazione: spera che Moro riesca a ottenere la libertà, perché sa di non essere in grado di dargliela.

I tre brigatisti seduti nell’intercapedine, mentre ascoltano gli interrogatori di Moretti a Moro

Moretti esce sempre più affaticato dai suoi colloqui con il prigioniero

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Le lacrime di Chiara mentre Moro legge la sua lettera per il papa

Non c’è una lettura storica e ideologica nel film di Bellocchio: la chiave è quella edipica119, del figlio ribelle che uccide il padre e viene alla fine riaccolto in famiglia.

Quella edipica è una chiave di lettura espressa dallo stesso regista, che in un'intervista120 affermò: «È un film sull’assassinio di un padre. Ed è un film che dice come la separazione da un padre non passi attraverso il parricidio». D’altra parte, la matrice analitica non è nuova nei film di Bellocchio121, anche se nel caso di Buongiorno, notte non si presta a

119 In merito a questa lettura, O’Leary, mettendo a confronto diversi film ambientati negli anni di piombo, afferma: «Nel primo capitolo ho già detto come il paradigma edipico (figli gelosi e padri risentiti) fosse tipico del cinema italiano a partire dagli anni ’60 e fino a tutti gli anni ’80. Per ciò che riguarda quei film che affrontano il terrorismo, ho suggerito che quel modello psicanalitico fosse, almeno in parte, il risultato della prossimità dei film con gli eventi che essi rappresentano o rifrangono. Può anche essere stato in qualche modo causato dalla percezione di un blocco generazionale nell’Italia dell’epoca: la sensazione, in altre parole, che ci fosse una gerontocrazia che deteneva il monopolio del potere all’interno degli ambiti politici italiani (compreso l’ambiente comunista) e della società in generale» (op. cit., pag. 80). Per una panoramica sul cinema che racconta il terrorismo sulla base del rapporto padri-figli, si veda anche C. Uva, Echi e macerie del terrorismo nel cinema italiano degli anni ‘80, in Anni Ottanta: realtà, immagini e immaginario di un decennio da ri-vedere, a cura di P. Mattera e C. Uva, Cinema e Storia, Rubettino, 2012).

120 Di A. Mammì, intitolata Buongiorno Marco e uscita su L’Espresso, 18 settembre 2003, pag. 114-6.

121 Non sfugga che il film è dedicato dal regista al padre, scomparso quando Bellocchio era ancora giovane.

Nella già citata intervista rilasciata al The Guardian (S. Arie, My “little” terrorist, cit.) Bellocchio spiegò:

«Without doing cheap psychoanalysis, I lost my father when I was small, so obviously I wanted to ignore, deny this absence»; e ancora: «While I was writing the script, and also during the shooting, I had an image of my father in my mind, wandering around the house at night when he was not well»: una scena che non può non ricordare quelle in cui Moro si aggira per l’appartamento di via Montalcini, mentre tutti – tranne Chiara – dormono. È da ricordare, inoltre, che il lavoro precedente di Bellocchio: L’ora di religione. Il sorriso di mia madre (2002) era dedicato, appunto, alla madre del regista. Inoltre, è noto il legame professionale di Bellocchio con Massimo Fagioli, psichiatra e psicoterapeuta, coautore delle sceneggiature di tre film del regista piacentino.

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un’interpretazione univoca, ma limita la portata ideologica delle istanze dei brigatisti, che vengono - in una certa misura - derubricate a “conflitto generazionale”122. Se i brigatisti erano “figli ribelli”, scontata la loro colpa, possono essere riammessi in famiglia.

Resta da capire di chi però siano figli. La risposta la abbiamo combinando gli elementi che abbiamo visto finora e un ultimo aspetto, al quale abbiamo accennato precedentemente. Il momento dell’agnizione – quello in cui Chiara riconosce in Moro una figura paterna attraverso la sovrapposizione della sua condanna a morte con quella dei Partigiani di Paisà – rappresenta un indizio chiave. Chiara è figlia di un Partigiano, la cui memoria è ancora viva, come ci mostra Bellocchio nella sequenza del pranzo in famiglia. Memoria viva, ma confusa: si susseguono immagini contrastanti che mostrano quanto l’eredità partigiana che porta fino a Chiara – e quindi ai brigatisti – viene problematizzata dal regista. Prima una scena religiosa: la famiglia inginocchiata che prega davanti alle lapidi dei genitori di Chiara. Quindi il dialogo tra Enzo e il fratello di Chiara;

il collega di Chiara parla male dei brigatisti: sono assassini dissociati che pensano di cambiare il mondo con un colpo di pistola. Ma il fratello di Chiara li difende: le BR sono

“meglio di me che sto qui sul prato a farmi una canna”; lottano per gli sfruttati e gli oppressi, sono disposti a dare la loro vita per questo, spiega, disegnando una sorta di continuità tra questi e la lotta partigiana. Ma è una continuità problematica, tant’è vero che, poco dopo, quando il partigiano Charlie intona “Fischia il vento” è Enzo a trascinare Chiara di nuovo alla tavola per unirsi al coro, mentre il fratello resta seduto sull’erba. Un bambino, un signore di mezz’età che agita il pugno chiuso, signore dai cappellini eleganti e dagli grossi orecchini in bella vista, una sposa di passaggio, Enzo. Cantano tutti – tutti figli della lotta partigiana – tranne Chiara, che è figlia di un Partigiano ed è una brigatista.

122 Sempre O’Leary (cit.) osserva: «Voglio quindi suggerire che in Maledetti vi amerò e in Buongiorno, notte i modelli freudiani sono utilizzati come veicolo di critica: si ricorre alla struttura totemica e a quella edipica per consentire una critica proprio delle teorie freudiane, almeno come se queste fossero imbastardite all’interno di un discorso che forniva una motivazione per l’uccisione di Moro. Il film sottintende che il paradigma edipico era già insito nel conflitto generazionale che portò alla morte di Moro, e che il risenti-mento e l’invidia nei confronti del padre/re era, più che gli autentici ideali e le aspirazioni politiche, il motore del sequestro e dell’omicidio».

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