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Le figure dei brigatisti

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D’altra parte, le parole successive, sono quelle di chi sostiene che invece la politica debba fare una severa autocritica e dare dei segnali alla crisi che attanaglia il paese; questa alternanza è uno dei leitmotiv sui quali Grimaldi costruisce il suo montaggio.

Ci sono due le scene nelle quali il contrasto raggiunge la maggior efficacia. Nel primo, l’accostamento è tra il prigioniero che si lava il volto con cura e raccoglimento, nell’intimità del suo cubicolo, mentre il giovane nelle mani della polizia subisce la tortura dell’annegamento forzoso, con i due poliziotti che gli immergono la testa in un catino pieno d’acqua.

Nella prima immagine, Moro si lava il viso, con cura e calma; nella seconda due poliziotti sottopongono il giovane sospettato alla tortura dell’annegamento

Il secondo accostamento è quello tra il cubicolo nel quale è rinchiuso il presidente della DC e la cella nella quale è detenuta la professoressa. Sono due prigioni speculari;

ma nella prima Grimaldi ci mostra Moro quasi sempre seduto comodamente, spesso accudito dai suoi carcerieri; mentre la professoressa ci viene mostrata rannicchiata in un angolo, provata dalle condizioni di grave privazione e dalle continue violenze verbali dagli agenti di polizia.

Le due prigioni a confronto

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Come osserva Scalia130 «In una continua opposizione tra l’umanità della prigione del popolo gestita dalle BR e la bestialità mostruosa delle carceri di Stato […], il film documenta ampiamente le violenze sugli indiziati di terrorismo e drammaticamente si conclude con la scena di un poliziotto aguzzino che consuma indifferente il suo pranzo a fianco del corpo martoriato e privo di sensi di un giovane torturato». Questa opposizione segna indubbiamente un punto a favore, per così dire, dei brigatisti. Ma non sostituisce affatto i terroristi a Moro nel ruolo delle vittime, come erroneamente osserva lo stesso Scalia131. Nessuno dei torturati appartiene effettivamente alle BR, dunque non sono a subire le conseguenze peggiori delle violenze di stato; in realtà, sembra suggerire Grimaldi, a perdere ogni diritto di cittadinanza è il pensiero “terzo”, quella nella quale lo stesso regista afferma di identificarsi.

Alcune immagini che Grimaldi usa per raccontare le violenze subite dal giovane arrestato

130 Scalia, Il caso Moro e il cinema: l'elaborazione collettiva di una tragedia nazionale?, cit.

131 «Nel film di Grimaldi i veri eroi sono proprio i brigatisti: loro, e non Moro, sono l’alter Christus, come dimostrano le rappresentazioni delle flagellazioni e delle torture ad essi riservate nelle carceri e nelle questure italiane» (Scalia, Il caso Moro e il cinema: l'elaborazione collettiva di una tragedia nazionale?, cit.)

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Altre immagini delle violenze sul giovane fermato dalla polizia; i richiami all’iconografia cristiana sono palesi: i veri martiri, coloro che soffrono ingiustamente per le loro idee, sono quelli che non stanno “né con le BR, né con lo stato”

Le figure dei terroristi non vengono però delineate solo per contrasto con quelle delle forze dell’ordine. Dal punto di vista visivo, il regista siciliano non si discosta molto dai suoi predecessori. Secondo una linea inaugurata da Ferrara, il film mostra i brigatisti all’interno del covo di via Montalcini impegnati in scene di vita quotidiana. Come Grimaldi stesso afferma, non c’è una particolare attenzione per l’aderenza ai fatti emersi riguardo alla prigionia. I brigatisti presenti nel covo sono più dei quattro accertati e non rispondono chiaramente a particolari somiglianze visive o ideologiche; si possono provare ad accostare Moretti e Bonisoli a due dei personaggi della pellicola, così come si può pensare di identificare nella Braghetti il personaggio interpretato da Maria Papas (la brigatista Loredana). Ma non è questo il tipo di ricostruzione che interessa Grimaldi132. Nemmeno l’evoluzione psicologica dei personaggi o il mutare del loro rapporto con il prigioniero – al procedere dei tempi e a mutare delle reazioni della politica – viene indagato con attenzione, come avviene invece nella pellicola di Bellocchio.

132 Grimaldi, nella già citata intervista ripresa dal sito verderivista, spiega: «Rispetto ai personaggi, mi sono totalmente liberato della realtà storica esteriore. I “miei” brigatisti sono concretamente diversi, per ruolo e organizzazione, da quelli veri del caso Moro. Io, ovviamente, andavo alla ricerca della loro ideologia e della umanità interiore, non di una concretezza storica nella fisicità esterna».

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I brigatisti nel covo di via Montalcini, tra scene di vita quotidiana e dibattiti politici

In Se sarà luce, sarà bellissimo i personaggi dei brigatisti si arricchiscono di nuove sfumature grazie alla costruzione della sceneggiatura di Grimaldi. Quello che fa il regista è di non focalizzare la sua attenzione solo su quanto avviene nella “prigione del popolo”

o nei centri di potere. Allarga lo sguardo della telecamera sulla galassia ideologica e sociale nella quale si muovevano le BR in quegli anni. Il confronto interno, anche aspro – come vedremo – e la dialettica violenta delle loro discussioni, riecheggia le scene ambientate nel circolo del PCI o nella sede sindacale. Ma ne esce addirittura meglio:

violento sì, ma più aperto e democratico.

Inoltre, all’interno delle discussioni di partito e sindacali – nonché nella scena del comizio a scuola – Grimaldi sottolinea ripetutamente la consequenzialità delle azioni terroristiche a partire dalla crisi sociale, economica e politica che aveva colpito il paese.

Le BR, ci dice Grimaldi attraverso la sua sceneggiatura, diventano la voce – seppur con una carica di violenza disconosciuta dalle altre componenti – di una sinistra che non è

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d’accordo con Berlinguer. Di coloro che sostengono che Moro si sia già «mangiato» i socialisti di Nenni e si appresti a fare lo stesso con i comunisti di Berlinguer. Dopo aver sciorinato i nomi dei ministri che si apprestavano a giurare nel nuovo governo sostenuto anche dal PCI, un militante – nella sequenza iniziale – inveisce:

«Oh, non c’è un solo tecnico degno di questo nome in questo cazzo di governo cosiddetto dei tecnici. Oh, non c’è mezza persona rispettabile.

E questo sarebbe il primo governo della storia repubblicana con l’appoggio del partito Comunista? Ma questo è uno schifo!»

Lo stesso militante, durante una riunione successiva all’agguato di via Fani, interviene con parole nette:

«Io sono contrario alla strategia sanguinaria, sterile e farneticante delle Brigate Rosse e questo sia chiaro una volta per tutte. Ma le Brigate Rosse non sono schegge impazzite e soprattutto nessuno si può permettere di paragonarle ai fascisti. Le Brigate

Rosse sono frutto della nostra stessa cultura e dobbiamo essere orgogliosi e fieri e imparare a difenderle»

Questo aspetto, sottolineato dalla voce dissonante di Rossana Rossanda nel già citato articolo dell’«album di famiglia» ed espunto da tutte le successive letture cinematografiche, viene qui ripreso da Grimaldi ed espresso attraverso il dibattito nelle sezioni del PCI.

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I militanti nei circoli locali sostengono le loro tesi contro Aldo Moro e a favore del riconoscimento politico delle BR

I brigatisti di Grimaldi sono risoluti, spietati, determinati. Il dibattito interno viene mostrato in tutta la sua violenza. Il brigatista Marco, che si occupa degli interrogatori, è messo sotto pressione dagli altri, che lo accusano di essersi fatto intenerire dai piagnistei del prigioniero. Chiedono – e votano – interrogatori più incalzanti e violenti. Tutti, tranne Marco, sono dell’idea che liberare Moro sarebbe una sconfitta. Grimaldi non rinuncia a mettere in scena le varie anime dei brigatisti e i loro contrasti interni. Ma la dialettica è sincopata e violenta; seduti sul divano o bevendo il caffè, i brigatisti si confrontano fra loro senza risparmiarsi accuse e insulti.

LOREDANA

«Sì, è un argomento di cui non abbiamo ancora discusso: il modo in cui ha ridotto il povero Marco, raccontandogli tante favolette sulla sua povera famiglia. Perché tu lo sai

Marco, anche i terroristi hanno un cuore che batte»

ALTRA BRIGATISTA

«Smettila adesso, Loredana. Tu non hai nessun diritto di...»

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«Non sei un essere umano. Un piranha del cazzo ha più senso della famiglia e umanità di te. Tu odi la vita. Nessun essere umano può essere generato da te. Dalla tua fica

schifosa possono uscire solo aborti deformi»

La violenza inaudita delle parole di Marco133 risalta ancora di più perché è attraverso la figura di Loredana che Grimaldi ha scelto invece di rappresentare la voracità del desiderio di vita mettendo in scena i suoi rapporti sessuali con un compagno brigatista. Proprio alla fine di uno di questi rapporti, il suo compagno le confessa di aver deciso di lasciare le BR al termine del sequestro, scatenando il disgusto di lei e la fine della loro relazione: più di qualunque passione, importa l’ideologia. Questo coacervo di contrasti e punti di vista risulta indubbiamente confuso e senza una vera e propria evoluzione dei personaggi né approfondimento sulla loro interiorità. Resta tutto sulla superficie delle parole e delle smorfie, che molto spesso mancano di coerenza tra una sequenza e l’altra. Ma il risultato è comunque quello ricercato da Grimaldi: quello di mostrare un’organizzazione estremamente polarizzata e sempre sul filo dell’implosione, incapace di conciliare l’istanza politica egalitaria e la scelta di portare avanti il dibattito interno, con la realizzazione di una lotta armata che – a un certo punto – perde anche la bussola dei suoi scopi iniziali. È chiaro questo aspetto nelle parole di un altro brigatista:

«Ancora con questa cazzo di rivoluzione del popolo? Ci siamo rotti il cazzo.

Ora basta. Le masse vogliono solo i soldi e il benessere della borghesia.

Si tengono Moro, ma anche Andreotti e persino Hitler e Mussolini se solo gli dai quattro ossi da spolpare»

Grimaldi non ci mostra dei brigatisti sprovveduti né, tantomeno, ingenui o sbandati, ma sceglie di mettere in scena il momento in cui – proprio in seguito all’assassinio di Moro – si segna il loro scollamento dalle istanze proletarie delle origini. Lo fa in modo chiaro e violento, ma senza ridicolizzare i terroristi e, anzi, cercando di mettere in scena il loro retroterra culturale e il modo in cui se ne sono allontanati.

133 Qui il riferimento di Grimaldi alla figura di Mario Moretti è piuttosto chiaro. Il brigatista che si occupò degli interrogatori aveva infatti abbandonato la compagna e un figlio per unirsi alla lotta armata.

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Le BR di Grimaldi sono estremiste e spietate, ma non gratuitamente violente.

Sbagliano valutazioni politiche, ma lo fanno attraverso il dibattito e agendo secondo la loro ideologia. Nelle loro discussioni e negli interrogatori non risparmiano nulla a Moro:

è un fascista, bugiardo, sostenitore delle peggiori dittature sudamericane, le sue mani grondano sangue; ironizzano anche sul suo attaccamento alla famiglia e la sua parola di morire. Loro che invece per l’ideologia hanno rinunciato a tutto e sono pronti ad affrontare la morte134. Ciononostante, nell’incalzare delle loro accuse e nell’avvicinarsi dell’inevitabile epilogo, il Moro essere umano viene rispettato e, nei limiti di una prigionia, accudito. Contrariamente a quanto avviene invece nelle prigioni di stato. Come osserva Adami135 è «significativo anche il fatto, mostrato da Grimaldi, che tra i membri della direzione strategica vince la linea di non torturare Moro, anche se solo per un voto di scarto […] tra i brigatisti l’utilizzo della violenza viene problematizzato, al contrario di quanto accade nel cosiddetto Stato di diritto».

Un altro elemento di contrasto tra polizia e brigatisti sottolinea chiaramente quanto Grimaldi vuole trasmettere. Il personaggio, violento ed ambiguo, del commissario Achille Crollo, conduce gli interrogatori della professoressa e sovrintende a quelli del giovane. La sua violenza verbale è inaudita e la sua accondiscendenza ai pestaggi è sordida. Alla docente rivolge parole di scherno e insulti sessisti. Durante gli interrogatori divaga, senza – concretamente – accusare di nulla la donna che gli sta di fronte. Ben diversi sono gli interrogatori portati avanti dagli uomini col passamontagna. Le accuse sono dirette, circostanziate, documentate. Grimaldi ci mostra il brigatista che rivolge le domande a Moro attingendo a precisi appunti che ha davanti a sé: riportano cifre, nomi, circostanze. Non inventa nulla, al contrario della polizia che tra una violenza e una privazione, ipotizza fittizie connessioni tra i fermati e le BR.

134 Questo è uno degli aspetti che “affascina” Grimaldi. Come riportato da Ventura (Il cinema e il caso Moro, pag. 171, cit.), il regista si dichiara affascinato «da una categoria - indubbiamente molto coraggiosa - di esseri umani disposti a morire per delle idee».

135 I. Adami, Al cuore dello Stato, cit.

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Due scene degli interrogatori del commissario Crollo alla professoressa; tra le altre cose, le dice: «Tu diritti non ne hai. L’unico diritto che hai, se voglio io, è quello di farci un pompino con l’ingoio a tutti quanti»

Un interrogatorio nella “prigione del popolo”; in primo piano, in mano al brigatista, si nota il block-notes con gli appunti sull’argomento del giorno: il coinvolgimento del collaboratore di Moro, Ziliotto, in affari sporchi e riciclaggio

Possiamo perciò affermare che il merito di Grimaldi, pur nell’incompletezza dell’opera e nella militanza delle argomentazioni proposte, evita di stereotipare i brigatisti. Tenta, allargando il fronte del raccontato, di contestualizzare le loro istanze e di non banalizzare il dibattito che il sequestro Moro scatenò al loro interno e negli ambienti contigui. Non sono né schegge impazzite, pazzi sanguinari, né giovani sbandati, da perdonare e riaccogliere semplicemente come nella parabola cristiana del “figliol prodigo”. È una lettura del terrorismo che, insieme alla figura umanamente rispettata ma tutt’altro che beatificata di Moro, rende effettivamente quella di Grimaldi “un’altra storia”. Le cui difficoltà nella realizzazione e nella produzione danno conto di quanto

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possa essere complesso un intervento sulla memoria collettiva così dissonante e politicamente scorretto come quello che tenta di fare il regista siciliano.

Un politicamente scorretto che costò a un altro Moro ancora – dipinto prima dei fatti del ‘78 e, curiosamente, proprio da alcuni degli iniziatori del processo di beatificazione che comincerà dopo la morte del presidente della DC – la rimozione dalla memoria collettiva, come vedremo nel prossimo capitolo.

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CAP. V – Todo Modo: “l'altro” Aldo Moro, espulso dal cinema e dalla memoria

È difficile, se non impossibile, stabilire in quale relazione causa-effetto possiamo inscrivere il rapporto tra le difficoltà produttive, realizzazione incompleta, distribuzione limitata, scarsa considerazione da parte della critica e natura “politicamente scorretta” che il suo autore riconosce a Se sarà luce, sarà bellissimo. Il risultato però – come detto – è il mancato sfondamento di questa altra storia nella memoria collettiva della nazione.

L’Aldo Moro di Grimaldi manca l’obiettivo di riportare al centro del dibattito pubblico l’aspetto politico – spesso controverso – in luogo di quello umano per quanto riguarda il presidente della DC. Moro resta “il meno coinvolto”, martire della politica, coraggioso pater familias.

Eppure, un altro Aldo Moro era già stato portato sugli schermi in precedenza. Ed era un personaggio estremamente differente da quello che è stato poi tramandato alla memoria collettiva dai film di Ferrara e Bellocchio. Era il Moro di Elio Petri. Non esplicitato, certamente (il personaggio, a capo del partito di maggioranza, è chiamato sempre Presidente ed indicato solo con l’iniziale M.); ma non ci sono dubbi su chi sia il personaggio al quale diede il volto Gian Maria Volonté136.

Quando uscì, il film suscitò accese polemiche e giudizi anche violenti, da destra e da sinistra. Se un film che attaccava frontalmente la DC – mettendo in scena un coacervo di corruzione, bassezze personali, violenza e degradazione – era normale che attirasse critiche, la violenza di alcune di esse appare allo spettatore odierno decisamente sproporzionata. «Petri è Goebbels [il ministro della propaganda nazista]» arrivò ad affermare il deputato della DC Bartolo Ciccardini137. Da sinistra non furono così violenti,

136 In merito al personaggio di Moro, in un dattiloscritto di Petri, conservato nel Fondo Elio Petri, Archivio del Museo Nazionale del Cinema di Torino, si legge: «Per quel personaggio, Volonté ed io ci servimmo molto della moviola. Avevamo radunato molti pezzi di repertorio su Moro. Io, per scrivere il copione, avevo studiato alcuni dei suoi dilaganti discorsi. […] I primi due giorni di lavorazione di Todo modo furono cestinati da me, d'accordo col produttore e con lo stesso Volonté, perché la somiglianza di Gian Maria con Moro era nauseante, imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco. In quell'immagine risultava tutta l'insidiosità, l'astuzia dell'uomo politico».

Consultabile all’indirizzo: https://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-i-film/todo-

modo/volonte-e-la-caricatura-di-aldo-moro#:~:text=I%20primi%20due%20giorni%20di,'astuzia%20dell'uomo%20politico

137 Il giudizio è riportato in J. A. Gili (a cura di) Elio Petri. Scritti di cinema e di vita, Bulzoni, 2007, pag.

26 ed è tratto da un intervento del deputato a La Repubblica, 8 maggio 1976: «Petri è Goebbels, il film è

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ma anche dal PCI arrivarono critiche al film. Lo stesso Petri osservò: «in privato i comunisti ti dicevano che gli piaceva, ma in pubblico lo attaccavano...138». Il film uscì nelle sale il 30 aprile 1976, in piena campagna elettorale. Moro era a capo del governo per la quinta volta e negli ambienti politici si iniziava a parlare di “compromesso storico”

tra DC e PCI. Non sorprende perciò la reazione del mondo della politica al momento dell’uscita del film139140. Bisogna anche tener conto del fatto che, in quel momento, Petri era uno dei registi di maggior fama in Italia e non solo. Aveva conquistato un Oscar per il miglior film straniero con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e il Grand Prix come miglior film al Festival del cinema di Cannes con La classe operaia va in paradiso (1971). Naturale che l’occhio della critica si appuntasse su un film che, oltretutto, presentava tutte le caratteristiche per essere attaccato dal punto di vista cinematografico e politico. Petri stesso, parlando della sua opera, ebbe a dire: «Il mio film dev’essere visto da gente che piange, che ride, che polemizza. Perché, se ci riesco, credo di aver fatto una cosa interessante, spero di aver provocato un fenomeno umano141». Todo modo resterà nelle sale circa un mese, prima di essere sequestrato e le sue copie bruciate.

L’ostracismo nei confronti della pellicola si trasformerà in qualcosa di definitivo e assoluto dopo il 1978: un film il cui finale metteva in scena l’uccisione del presidente

come Süss l’ebreo. Questo film ha un solo precedente, quello dei nazisti contro gli ebrei. È una deformazione incolta e faziosa della DC. È un’istigazione alla guerra civile».

138 Vedi nota 129.

139 L. Donghi, nel suo saggio L’utopia grottesca: Todo modo e l’apocalisse della DC, in G. Rigola (a cura di), Elio Petri, uomo di cinema, Bonanno, 2015, pag. 205) racconta: «Nonostante le pressioni della DC, il film inizia a circolare nelle sale (ci resterà per poco più di un mese) in un clima di campagna elettorale, susseguente al termine della legislatura: un clima in cui, come è facile intendere, una lettura politica del film finisce presto per prendere il sopravvento sulla sua pertinenza estetica. Ciò spiega forse la freddezza bipartisan con cui il film viene accolto all’uscita, quanto meno in Italia. Non piace ovviamente alla DC […]; ma non piace nemmeno al Partito Comunista».

140 Epoche diverse e film differenti – benché presentino punti di contatto – ma una simile sorte occorse a Il caimano (Moretti, 2006); il film, uscito in piena campagna elettorale, non era solo un film sul premier uscente Silvio Berlusconi, ma la figura del leader di centrodestra capeggiava, grottescamente, al centro della scena per tutta la pellicola. Ci furono critiche da parte di vari schieramenti politici e persino perplessità sulla sua opportunità prima ancora di averlo visto: in molti chiesero, a gran voce, di posticiparne l’uscita a elezioni avvenute. Si veda, ad esempio:

https://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2006/02_Febbraio/26/zuccolini.shtml

141 La citazione è posta in esergo al saggio di G. Rigola Un fenomeno umano. L’opera di Elio Petri e la cultura cinematografica italiana, che introduce il volume Elio Petri, uomo di cinema, cit., pag. 15; ad esso si rimanda per una trattazione approfondita riguardo l’opera, il contesto e la ricezione del cinema di Petri.

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della Democrazia cristiana, al concretizzarsi di tale evento, non poteva che sparire dalla circolazione. Un oblio condiviso, in una certa misura, con il suo autore142.

Non è questa la sede per interrogarsi in merito alle ragioni di una storia critica così controversa, benché si possa – senza sbagliare – affermare che le motivazioni non siano da ricercare solamente nel mutare dei gusti di pubblico e critica. Il contesto nel quale il regista si è trovato a lavorare e lo stretto legame tra le sue opere e l’attualità che raccontavano, hanno certamente condizionato la ricezione dei suoi film. Lo stesso Petri ne era cosciente; a proposito di Todo modo ebbe a dire, facendo riferimento al romanzo di Sciascia143 che era la fonte del film, che «L'interesse del libro consiste nel fatto di mettere in una situazione sado-masochista un gruppo di notabili democristiani nel momento in cui risulta chiaro che questa classe dirigente cattolica è destinata a naufragare, a colare a picco, a scomparire».

La modifica più sostanziale, rispetto al romanzo, è la sostituzione di uno dei protagonisti. Nel libro di Sciascia, al centro della scena ci sono Don Gaetano – che gestisce l’ambiguo eremo-hotel Zafer – e un pittore in cerca di pace e solitudine. In merito al protagonista del suo film Petri spiegò: «Al posto del pittore immaginato da Sciascia io ho messo un personaggio che è una specie di Tartuffe144, un democristiano che somiglia ai tanti ministri che ci governano da trent'anni: mezzo omosessuale e mezzo impotente, soprattutto politicamente impotente145». È alla costruzione di questo personaggio che, in merito alla nostra trattazione, vogliamo dedicare alcune osservazioni.

Come osserva Donghi146, il personaggio di M. è l’esplicita caricatura di Aldo Moro, che per Petri rappresenta l’emblema del trasformismo e il nemico della classe operaia. La scelta di Volonté come interprete è indicativa della volontà di puntare sul mimetismo esasperato che è nelle corde dell’attore. Le scenografie «claustrofobiche» di Dante Ferretti e le musiche «inquietanti» di Ennio Morricone, contribuiscono a conferire

142 Rigola (cit., pag. 16-17) a proposito di Petri parla di «generale disinteresse e occultamento successivi, dalla metà degli anni Settanta a non molti anni fa»; ancora, scrive di un regista «troppo in fretta dimenticato e liquidato» e di «oscuramento e occultamento occorsi al lavoro di Petri».

143 L. Sciascia, Todo modo, cit.

144 Il riferimento è al protagonista della commedia del drammaturgo francese Molière: Tartuffe ou l'Imposteur, del 1664.

145 Vedi la voce dedicata a Todo modo nell’enciclopedia Treccani, curata dal critico cinematografico J. A.

Gili, e consultabile all’indirizzo: https://www.treccani.it/enciclopedia/todo-modo_(Enciclopedia-del-Cinema)

146 L’utopia grottesca: Todo modo e l’apocalisse della DC, cit., pag. 208 e seguenti.

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