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Finanze ed economia

Nel documento La seconda discesa di Carlo IV a Pisa (pagine 39-73)

Nel periodo coperto dal nostro lavoro era ormai giunta al termine la messa a punto di una assai articolata struttura amministrativa e fiscale, dettata dall’aumento dei costi militari e amministrativi e da esigenze di parità di bilancio. Essa era imperniata su un sistema di uffici piuttosto complesso. Ognuno di questi uffici poteva impiegare diversi funzionari ed esattori che rispondevano a un Soprastante, responsabile della sua “cellula”, che rispondeva direttamente agli Anziani. La nomina dei Soprastanti era affare degli Anziani, anche se in caso di incarichi eccezionali, legati ad imposte impreviste, si ricorreva ad elezioni straordinarie, in alcuni casi ricorrendo a stranieri. Ciò si verifica va in special modo per quanto riguarda le gabelle più importanti e redditizie. I balzelli più fruttuosi per il comune riguardavano le imposte su materie prime come il vino, il sale e il ferro, e le imposte doganali sulle transazioni commerciali. Ma era tassato gran parte del movimento di finanze nel comune, a partire dalla vendita al minuto fino anche alla stesura di un contratto. A seconda delle evenienze le gabelle potevano essere aumentate, oppure potevano ricadere su soggetti normalmente esenti. Nel ‘300 questi aumenti divennero costanti tanto da colpire sensibilmente i consumi. Anche l’essere incaricati di questi uffici rappresentava un modo per avvicinarsi ai centri decisionali della politica comunale, e rappresentarono la strada privilegiata attraverso la quale la posizione conquistata da nuove famiglie mercantili nella vita economica cittadina tendeva a trasformarsi in influenza politica53.

Nonostante il sistema assai accentrato si continuava spesso a ricorrere ai vecchi metodi, dei quali si può dire anzi che continuassero a rivestire un ruolo chiave, che prevedevano dei contributi una tantum per affrontare spese particolari. Il comune per integrare gli introiti ordinari delle sue casse (oltre alle varie gabelle si possono menzionare i tributi dal contado, imposte dirette su beni mobili e immobili, “regalie”, ecc.) soleva infatti ricorrere al consueto sistema delle prestanze, qualcosa di non molto diverso da un prestito, chieste ad alcuni individui selezionati o all’intera cittadinanza, su cui poi essi potevano maturare

degli interessi economici, ma anche per il ritorno in termini di prestigio e, di conseguenza, di rilevanza politica. Altre volte invece le prestanze non assumevano il carattere del rimborso a interesse sui fondi del comune ma potevano invece portare allo scomputo di cifre rilevanti su successive imposte quando non all’esonero totale. I prestiti volontari preferiti da chi erogava crediti erano quelli rimborsabili a breve termine, che permettevano al comune di procurarsi denari in tempi rapidissimi e che garantivano ai finanziatori interessi lucrosi (fino al 30%) tempestivamente rimborsati. Le prestanze potevano però assumere un carattere non volontario, bensì forzato, vale a dire obbligatorio per una parte o per tutti i cittadini, naturalmente quando si presentavano evenienze particolarmente stringenti a cui far fronte. A tale proposito si componeva una commissione ad hoc di cittadini per prendere le misure necessarie per recuperare la cifra necessaria. Con questi metodi il comune si procurava denaro liquido attingendo dal risparmio privato, evitando però le ripercussioni negative in termini di popolarità derivanti da una semplice imposta diretta, che rimase attiva solo per gli abitanti del contado, sempre più oberati dai gravami fiscali rispetto a chi risiedeva nella città.

Frequentemente però il comune si trovava nell’imbarazzante situazione di non poter rifondere i cittadini con cui avevano contratto debiti con tale metodo. Si presentava così la possibilità di entrare in un circolo vizioso in cui si faceva ricorso ad un ulteriore prestito per rifondere i debiti. Le conseguenze erano un debito pubblico che con il trascorrere del XIV secolo si avviava verso cifre sempre più spropositate, e una diminuzione di fiducia dei privati nei confronti dell’amministrazione e una certa reticenza a sottoporsi volontariamente all’erogazione del prestito. Il comune cercò di ovviare all’inconveniente garantendo ai creditori beni o entrate del comune, come i “dirictus” sui beni più disparati o lo stanziamento delle terre pubbliche suburbane (i famosi “guariganghi”)54. Più spesso di

quanto si possa pensare il comune cedeva temporaneamente a privati degli appalti sulla riscossione di alcune tra le gabelle maggiormente redditizie, come quelle sul vino, o addirittura i proventi di un “asset strategico” come le miniere di ferro dell’Isola d’Elba, con il risultato paradossale che a cagione dei suoi problemi economici era costretto ad alienarsi le fonti di introito più cospicue, aggravando così le proprie debolezze55. Ma nonostante ciò spesso il pagamento degli interessi e la restituzione dei capitali delle prestanze venivano ulteriormente procrastinati perché le entrare destinate a tale scopo erano stornate per

54 C. Violante, Imposte dirette e debito pubblico, p. 106.

55 Poloni nota comunque come il comune assegnasse in appalto entrate pubbliche per il rimborso di creditori

del comune, ma che normalmente tali entrate continuavano ad essere gestite direttamente dagli ufficiali cittadini che versavano poi parte dei proventi ai creditori. In questo modo le autorità riuscirono a tenersi stretta l’amministrazione dei cespiti fiscali,. Trasformazioni della società, p. 105.

ulteriori spese urgenti. Con il passare del tempo le prestanze vennero ripetute in intervalli di tempo sempre più brevi, accentuando così il loro carattere coercitivo, rendendole sempre più simili ad imposte di carattere ordinario56. A tali imposte venivano ad aggiungersi altre esazioni a carattere straordinario come le “date”, che potevano raggiungere il peso del 25% sul reddito57, o come quelle denominate “seghe”, calcolate sulla base di contributi giornalieri e a cui erano sottoposti anche i forestieri. Il disavanzo di bilancio si avviava verso la sua irredimibilità, e sempre più risorse venivano destinate a pagare il debito pubblico, andando a far parte della parte improduttiva della spesa pubblica58.

Allo scopo di contenere le crescenti pressioni che i creditori esercitavano per ottenere gli interessi e la restituzione delle somme nel 1348 troviamo per la prima volta l’istituzione di una “massa delle prestanze”, creata anche con il fine di riordinare il garbuglio costituito dal variare degli interessi dei prestiti, che furono unificati al 10%, e per far tornare a disposizione del comune alcune gabelle. Inoltre, fattosi più facile il pagamento dei debiti, i cittadini più ricchi non furono più così restii a prestare denaro al comune come avveniva nei momenti più critici. A quanto pare tale decisione provvide solo per poco a dare sollievo alle stremate casse del comune, dato che essa non fu un unicum nella storia finanziaria del comune: ulteriori masse delle prestanze si ebbero nel 1364 per decisione di Giovanni dell’Agnello e nel 1370 da Pietro Gambacorta che fissò gli interessi alla modesta quota del 5%, con conseguente perdita di profitto per chi negli anni passati aveva prestato al comune somme ad interessi ben più vantaggiosi. Si riduceva inoltre il valore dei crediti che fossero stati venduti dal contraente ad una terza persona: si era infatti diffusa la consuetudine di vendere e comprare i crediti che si avevano verso lo stato. Con la massa delle prestanze del 1370 si decretava che coloro che avevano acquistato da terze persone titoli di debito pubblico dal 1366 in poi fossero risarciti soltanto per la metà del valore dei titoli di credito comprati, perdendo ogni diritto al rimborso dell’altra metà.

Per computare l’attribuzione dei carichi di un’imposta diretta venne adottato come sistema l’estimo, un censimento generale dei beni di tutti gli abitanti di Pisa. Esso sostituì il vecchio metodo del focatico, ossia un’imposizione sui “fuochi”, ovvero i vari nuclei familiari indipendenti59. Secondo un procedimento simile ad altri comuni della regione era stabilita una quota media di contribuzione per fuoco, ma ai singoli nuclei veniva chiesto di più o di meno a seconda delle possibilità economiche stimate. Con l’estimo si introduceva

56 C. Violante, Imposte dirette e debito pubblico, p. 126. 57 G. Rossi-Sabatini, Pisa al tempo dei Donoratico, p. 130. 58 M. Ginatempo, Prima del debito. p. 49.

il criterio della descrizione dei beni come base reale per la determinazione dell’ imponibile e per l’applicazione proporzionale dell’imposta, risultando così maggiormente obiettivo e meno gravoso per i ceti più indigenti, mentre viceversa accresceva l’onere tributario delle famiglie più facoltose60. Inoltre l’estimo era applicato a tutti i residenti in città, non solo ai cittadini veri e propri del comune. Solamente in un secondo momento si procedette anche ad estendere l’estimo anche nei territori del contado. Sebbene questo sistema alleviasse le sperequazioni che prima contraddistinguevano la politica fiscale pisana, non era certo però per desiderio di giustizia sociale che si adottava il criterio dell’estimo ma perché questo era più adatto a rimpinguare le casse del comune. Comunque sia l’estimo si limitava ad un’enumerazione puramente quantitativa dei beni posseduti e non teneva conto della disparità di rendite che poteva derivare da tali beni. Con buona pace delle istanze riformatrici che talvolta il comune mostrava di voler mettere in pratica con l’introduzione di un estimo, non fosse altro che per alleviare il peso della tassazione sul popolo minuto che più aveva a soffrire per la tassazione, spesso questi intenti andavano a scontrarsi con il muro di gomma rappresentato dall’opposizione dei cittadini più abbienti, che spesso e volentieri erano anche i personaggi che più peso avevano in ambito politico, dando vita a casi abbastanza clamorosi di conflitto di interesse.

I travagli finanziari del comune si spiegano con la situazione economica di Pisa che nel XIV secolo era radicalmente mutata rispetto ai secoli precedenti. Essa non era più la grande potenza marittima che dispiegava il raggio della sua azione ai quattro angoli del Mediterraneo in un ruolo di primo piano, lottando per la supremazia con le altre città marinare, soprattutto Genova. La sconfitta nella battaglia della Meloria nel 1284 non segnò il definitivo colpo di grazia per le sue ambizioni imperialistiche e commerciali, ma fu solo il suggello di una tendenza che si andava già sviluppando da lungo tempo. Il colpo infertole dalla rivale non significò però la rovina definitiva. Pisa, pur perdendo la posizione privilegiata che a lungo aveva ricoperto nei rapporti commerciali con le compagini orientali, riuscì a conservare le relazioni con esse, che però non furono più fondamentali come in precedenza. Il comune tirrenico infatti operò una vera e propria riconversione strategica dei propri interessi, contraendo l’areale della propria influenza in virtù del mutare dei rapporti di forza. Ci si preoccupò di mantenere la posizione di dominio già affermatasi in Sardegna, che acquistò un ruolo sempre più inestimabile nel quadro degli interessi economici sia pubblici che privati, e si verificò quella riconversione della piazza commerciale in luogo di scambi e smistamento delle merci.

L’area coperta dalla piazza mercantile pisana nel ‘300 raggiunse un’espansione eccezionale, paragonabile a quello di Venezia: dal Ticino al Garigliano, sfiorando la laguna ed Ancona61. Ciò comportò il progressivo integrarsi dell’economia pisana con quella fiorentina che stava vivendo una fortissima espansione. Firenze vedeva in Porto Pisano lo sbocco naturale verso il mare. Le compagnie fiorentine, che erano presenti numerose a Pisa, non utilizzavano il porto solo per rifornire di merci la città madre, ma anche per concludere affari con lo stesso comune pisano62, trattando soprattutto grano e sale. I rapporti politici intercorrenti tra i due comuni influenzavano naturalmente anche quelli economici, e viceversa. La crisi dell’economia fiorentina seguita al fallimento delle grandi compagnie dei Bardi e dei Peruzzi ebbe come conseguenza l’allentarsi della pressione di questa sull’economia pisana, e in ciò Tangheroni ha ravvisato i motivi del prevalere di una politica antifiorentina63. Nel venir meno dell’influenza fiorentina Melis ha ravvisato i motivi del sorgere a Pisa di un’attività bancaria autoctona di discreto livello, prima impossibile a causa della soffocante ingerenza delle gigantesche compagnie fiorentine64. Ma la perdita prima della Sardegna nel 1326 per mano aragonese non rendeva le cose facili per Pisa. Nemmeno l’assoggettamento di Lucca, strappata alla concorrenza fiorentina, si rivelò particolarmente vantaggiosa: la sua conquista fu particolarmente dispendiosa e le spese di gestione furono altissime.

Nel 1355 le entrate derivanti dal comune vicino si assestavano sui 36.000 fiorini. La precarietà del suo dominio suggerì a Pisa una certa prudenza negli affari lucchesi sia dal punto di vista economico sia da quello economico. A Lucca fu garantita una certa indipendenza amministrativa e anche finanziaria, mentre dal canto suo Pisa si accollava le gravose spese militari. Il comune dominante acconsentì addirittura ad abolire l’imposta diretta sul contado, provato dalle guerre. Ma fu soprattutto la fine dell’influenza politica pisana sulla Sardegna a rivelarsi foriera di implicazioni funeste. Sebbene i contatti e i traffici con l’isola continuassero anche dopo la conquista straniera, il comune non poteva più sfruttare le materie prime sarde, che avevano rappresentato fino ad allora una voce significativa degli introiti del comune, forse fino a 100.000 fiorini. Il bilancio del comune fu prostrato e si avviò verso una tendenza verso il passivo difficile da sovvertire, e per coprire il deficit fu costretto far ricorso ai discutibili rimedi già descritti. In aggiunta a ciò la congiuntura economica fu sfavorevole per gran parte del secolo e perciò i gettiti fiscali

61 F. Melis, Note di storia, p. 232.

62 M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura pag. 84. 63 M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura , pag. 86. 64 F. Melis, Note di storia, p. 229.

delle gabelle e il denaro drenabile tramite prestiti e imposte diminuì. Nel 1313 il comune pisano poteva disporre di entrate per 234.000 fiorini annui65, mentre nel 1355 una

commissione di savi stimò per il comune una disponibilità di 141.000 fiorini all’anno: una diminuzione sensibilissima dovuta principalmente alla perdita della Sardegna, dal quale nel 1313 si ricavavano all’incirca 90.000 fiorini. Furono anche le contingenze politiche a colpire nel portafogli il comune pisano. Oltre ai diversi conflitti che l’opposero a Siena e a Firenze, le quattro discese imperiali succedutesi lungo il XIV secolo causarono un salasso particolarmente sanguinoso, soprattutto per quanto riguarda il lungo soggiorno di Ludovico il Bavaro, che vampirizzò Pisa per una cifra che è stata stimata nell’ordine di 200.000 fiorini senza contare i mancati introiti dati dalla requisizione delle gabelle66.

A ciò si deve aggiungere delle doverose considerazioni sull’aumenti dei costi militari e della gestione statale. Fino a circa la metà del XIII secolo i comuni spendevano pochissimo, sia per le loro dimensioni ridotte, sia perché si avocavano varie competenze che andavano a gravare su altre organizzazioni67.L’ingrandirsi dello stato e la sua progressiva centralizzazione comportò l’aumento delle spese. Cambiava anche la natura dell’impegno militare: fino ad allora le guerre erano state condotte con eserciti cittadini. Quando Pisa si trovò impelagata in conflitti di scala regionale lo sforzo bellico si rivelò inadeguato e si iniziò a fare ricorso a molto più costose truppe stipendiate, sostituendo quasi del tutto le milizie cittadine non professioniste. Le guerre si fecero sempre più frequenti e nello sforzo per la supremazia gli eserciti divennero sempre più grandi. Le spese militari andarono dunque a costituire una parte cospicua del budget comunale, ed erano spese ineludibili anche in tempo di pace perché buona parte dei mercenari rimaneva in città per esigenze difensive. La smobilitazione era una strada difficilmente praticabile perché la pena era uno svantaggio fatale nei confronti delle controparti in eventuali operazioni militari, e perché gli eserciti congedati potevano dare adito a problemi di ordine pubblico nel territorio, soprattutto se non pagati o mal remunerati. Le guerre diventarono pessimi affari, i cui costi esorbitanti non venivano ripagati con guadagni durevoli.68

Quando Pisa riuscì a tenersi lontana dai conflitti operando una riduzione delle spese le finanze comunali ne ebbero sollievo. Gli anni di Fazio Novello da Donoratico e quelli di Andrea Gambacorta sono ricordati come periodi di ripresa economica e verosimilmente si riuscì a ridurre la stretta del debito pubblico. Fazio Novello ebbe vieppiù le risorse per

65 C. Violante, Imposte dirette e debito pubblico, p. 157. 66 G. Volpe, Pisa, Firenze, Impero, p. 329.

67 M. Ginatempo, Prima del debito, p. 35. 68 M. Ginatempo, Prima del debito, pp. 46-47.

promuovere una politica architettonica civile, notizia unica per il XIV secolo, le cui iniziative in ambito di architettura sono monopolizzate dalle fortificazioni e da altre esigenze di tipo militare. Ma negli anni seguenti Pisa venne sempre di più risucchiata nelle guerre che continuavano a divampare: con il permanere delle spese militari probabilmente venne meno la possibilità per il comune di uscire dalla crisi economica.

Il continuo succedersi dei rovesci sfavorevoli dovette probabilmente operare un cambiamento di mentalità nel ceto mercantile: nel XIV secolo furono vaste le testimonianze a proposito di ampie operazioni relative ad investimenti fondiari e di un del tutto nuovo interesse nell’agricoltura. È il periodo del “ritorno alla terra”, e l’avverarsi di una delle leggi fondamentali dell’economia: in tempi di crisi si torna a coltivare i campi. Nella fattispecie i borghesi pisani, considerando le incognite e il diradarsi delle possibilità relative ai profitti commerciali, preferirono ancorare il capitale a rendite sicure. Ciò non significò che le grandi famiglie furono portate ad alterare il loro carattere urbano, diventando grandi proprietari terrieri; fu piuttosto un’integrazione e una diversificazione degli investimenti.

Il commercio internazionale non cessò di esercitare il suo fascino e i traffici mediterranei rimasero sempre attivi anche nei momenti più bui. Verso la metà del Trecento si ebbe anzi un aumento in tal senso: ripresero e si intensificarono i contatti già esistenti con l’Africa (in Tunisia i mercanti pisani continuarono ad esercitare un ruolo rilevante), con la penisola iberica e con l’Italia meridionale. Indicazioni in tal senso si possono scorgere nell’armamento di nuove galee nel periodo del vicariato di Gualtieri, che portano a pensare a una precisa strategia dei mercanti pisani69. Prova questa che la cosiddetta crisi del XIV secolo non ha i tratti della decadenza più abietta, ma che in alcuni aspetti Pisa continuava a dare segni di vitalità. Un’altra prova in tal senso è la continua salute che il risparmio privato pisano continua ad avere per tutto il secolo. Mercanti abbienti ma anche cittadini comuni continuano a versare prestanze e tributi al comune affamato in lassi di tempo sempre più ristretti, ma le cifre che circolano continuano ad essere considerevoli: nel 1393 una prestanza volontaria “sine lucro” promossa per le riparazioni delle strutture di Porto Pisano riuscì a racimolare 14.100 fiorini70. Per alcuni si può addirittura parlare di ripresa per il periodo dal 1345 al 1390, quando l’importanza di Firenze nell’economia pisana era momentaneamente scemata71.

69 ASP Com A, 7’, 24’

70 O. Banti, Iacopo d’Appiano, p. 139. 71 F. Melis, Note di storia, p. 235.

L’attenzione verso il contado e l’investimenti fondiari, insieme alla perdita della Sardegna e al bisogno di reperire nuove fonti di profitto, fu uno dei fattori che determinò l’accento che Pisa pose nel ‘300 verso l’espansione territoriale nell’entroterra. Ciò era ritenuto cruciale per riuscire a mantenere un ruolo di primo piano almeno nello scacchiere regionale, pena la progressiva perdita di importanza, a cui sarebbe seguita la fine dell’autonomia politica. La scelta pisana comportò in politica estera motivi evidenti di tensioni con Firenze, impegnata già da molto prima della vicina in un programma di rafforzamento della base territoriale. La rivale stessa nutriva comunque mire espansionistiche verso il comune tirrenico: il controllo di Porto Pisano risultava strategicamente cruciale nei disegni politici del comune gigliato, nonostante le sue compagnie mercantili disponessero ormai di navi proprie. A mio parere Pisa non perseguì in tal senso una politica continua. Vi sono momenti in cui si accentua la spinta espansionistica, soprattutto ad opera di Giovanni dell’Agnello, ma spesso il comune preferisce portare avanti una politica più pacifista per considerazioni non solo di ordine diplomatico ma anche economico.

Una politica di potenza per Pisa era comunque difficilmente sostenibile per alcune stringenti problematiche. Il comune tirrenico si collocava in uno spazio geopolitico affollato e le chances di allargamento territoriale erano esigue e cozzavano con l’esistenza di avversari forti, oltre al formidabile nemico fiorentino. Poi gli enormi costi che una

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