• Non ci sono risultati.

La seconda discesa di Carlo IV a Pisa

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La seconda discesa di Carlo IV a Pisa"

Copied!
227
0
0

Testo completo

(1)

INDICE

Indice 1

Sigle usate 2

Introduzione 3 1.Istituzioni, economia e politica a Pisa nel XIV secolo 14

1.1 Considerazioni generali: tra comune di popolo e signoria 14

1.2. Il ruolo della nobiltà 22

1.3 La fisionomia istituzionale 26

1.4 Finanze ed economia 39 1.5. Le parti a Pisa: un problema spinoso 48 2. Cenni di storia di Pisa da Enrico VII fino alla prima discesa di Carlo IV 54

3. Le due discese di Carlo IV a Pisa: un confronto 73 4. Tra Lucca e Pisa: i rapporti dell’imperatore con il comune lucchese sotto la dominazione pisana 103 5. Carlo IV e Pisa tra 1368 e 1369: alcuni cenni in dettaglio 119 5.1. L’imperatore e le “partes” pisane 119

5.2. Il quadro politico di Pisa 125

5.3. L’istituto dell’anzianato in occasione della seconda discesa 132 5.4. L’economia pisana 135

6. Giovanni dell’Agnello e Pisa dalla fine del dogato alla partenza di Carlo 142

7. Il vicariato imperiale su Pisa, Marquardo di Randeck e Gualtieri di Hochschlitz 166 8. La Compagnia di San Michele 192

Conclusione 215

Bibliografia 222

Ringraziamenti 227

(2)

SIGLE USATE

(3)

INTRODUZIONE

Il presente lavoro si propone il fine di fare luce sugli avvenimenti che ebbero luogo a Pisa nel corso della seconda discesa in Italia dell’imperatore Carlo IV a cavaliere del biennio 1368-69, riprendendo le tracce da quanto era avvenuto durante la prima esperienza pisana dell’imperatore. È innegabile che Carlo abbia avuto con il comune pisano rapporti che superano per intensità quelli avuti con ogni altra città della penisola. Le visite imperiali a Pisa, come si avrà modo di vedere, immancabilmente provocavano uno sconvolgimento nella situazione politica della città della torre, e nel nostro caso particolare, ciò è particolarmente vero, se consideriamo il rincorrersi concitato, quasi convulso di ciò che succede a Pisa durante i circa dieci mesi in cui l’imperatore fece sentire l’influsso della sua presenza nel comune tirrenico, senza essere spettatore passivo o essere trascinato dal flusso di ciò che succede, ma prendendone parte in maniera forte e vigorosa come si conviene ad un sovrano dalla personalità pragmatica ed energica, e mutando con le sue azioni lo status quo vigente.

D’altronde, già quando per la prima volta Carlo si presentò a Pisa nel 1354, le cose si svolsero in maniera tutt’altro che ordinaria per Pisa, con l’estromissione dal potere della fazione dominante dei Bergolini in seguito a violenti disordini. Conseguenza di ciò fu l’instaurazione di un governo egemonizzato dai rivali Raspanti, coadiuvati e convalidati fino al 1362 nella loro azione dal sostegno imperiale, impersonato dagli uomini di fiducia di Carlo. Ci si riferisce a Marquardo di Randeck, Vicario imperiale, e al nipote di questi, Gualtieri di Hochschlitz, dapprima Capitano e poi Vicario egli stesso1.

Nella seconda discesa l’imperatore si trovò nella situazione di dover, per così dire, ricominciare da zero la sua opera politica nei confronti di Pisa, in virtù della situazione ivi radicalmente mutata nei pochi anni di vacuum dalla supervisione dell’impero. Il fedele regime dei Raspanti era stato sostituito dalla signoria sui generis di Giovanni dell’Agnello, asceso ai vertici della repubblica durante la rovinosa guerra contro Firenze. Egli, inizialmente appoggiato dalla fazione al potere, aveva perseguito una politica autonoma e in definitiva svincolata dai limiti fazionali. Considerando questi prodromi, non sorprende

1 La questione riguardante la natura dei loro incarichi durante è abbastanza complessa. Sarà comunque

esplorata più in dettaglio nel presente lavoro, specialmente nel settimo capitolo (Passim, pp. 149-171). A tal proposito si veda comunque il contributo di Mauro Ronzani L’imperatore come signore della città.

(4)

quindi che il ritorno di Carlo IV nella città nel 1368 abbia causato un terremoto di portata, se possibile, superiore alla precedente esperienza.

Innanzitutto si ebbe il quasi immediato esautoramento dell’autonominatosi Doge Dell’Agnello, dopo quattro anni alle redini del governo pisano, in seguito a una rocambolesca caduta da un balcone nel mese di settembre. La sua deposizione (o meglio, le sue dimissioni) fu però in qualche modo agevolata dai provvedimenti presi dall’imperatore. Poi, dopo un traballante governo di coalizione fra le due parti, divise da decenni di lotta in cui si erano alternate al potere, dei Bergolini e dei Raspanti, sotto la tutela dell’imperatore e del suo entourage, si assistette allo straordinario esperimento politico rappresentato dall’effimero governo di una compagnia di popolo, la compagnia di San Michele, assolutamente peculiare per Pisa, in cui essa si assunse l’onere del governo per ovviare al conflitto fazionale che minava lo svolgimento pacifico della vita comunale. Anch’essa però non riuscì a sottrarsi alle logiche del bipolarismo Bergolini-Raspanti, vedendo ben presto prevalere nel suo seno i partigiani del primo schieramento. Conseguenza di ciò fu l’inizio dell’egemonia nella vita politica pisana di Pietro Gambacorta, il cui ritorno dall’esilio fu concesso dallo stesso imperatore dietro l’esborso di una forte somma di denaro. Tale rivolgimento, vedremo il perché, suscitò la rabbia dell’imperatore, che ordinò una rappresaglia armata contro Pisa. La pace seguente comportò, oltre ad un’ingente perdita pecuniaria, l’uscita definitiva di Lucca dall’orbita pisana, soggetta a Pisa dal 1342, in cui comunque l’influenza dei dominatori andò già scemando proprio ad opera delle prime azioni di Carlo IV.

Questo rapido e parziale riassunto aiuta ad evidenziare in anticipo le criticità su cui la mia tesi si concentrerà, oltre naturalmente a prendere in esame il susseguirsi degli eventi e la loro interpretazione, e le conseguenze che al redde rationem ebbero per Pisa. Per iniziare sarà d’uopo contestualizzare il quadro degli eventi in una cornice che non tratti solo la cornice evenemenziale, ma anche il profilo politico, sociale, economico e istituzionale del Comune. Verrà poi affrontato il problema di come gli accadimenti di questa seconda discesa imperiale nella città turrita rappresentino una rottura nei confronti degli avvenimenti che caratterizzarono la prima calata di Carlo e ciò che essa comportò a Pisa. Oltre a tale questione ci si soffermerà anche sulle similitudini che per forza di cose si ebbero nei due eventi.

In secondo luogo trovo necessario soffermarsi sulla fine del dogato di Giovanni Dell’Agnello e soprattutto sul suo persistente influsso nel delicato quadro della vita politica pisana di questo relativamente breve lasso di tempo, tema quest’ultimo ch,e a mio

(5)

parere, è stato fortemente sottovaluto dalla storiografia precedente, se non addirittura ignorato. Questo argomento a mio parere dovrebbe essere accompagnato da una rivalutazione del suo governo che in questo lavoro si può soltanto accennare, esulando ciò dal nucleo della trattazione.

Sarà anche cruciale prendere in esame il nodo difficile da sciogliersi della presenza a Pisa dei fidati luogotenenti dell’imperatore, Marquardo di Randeck e di Gualtieri di Hochschlitz, già protagonisti in occasione della prima discesa di Carlo nel 1354, e prima uno poi l’altro vicari imperiali dopo la sua partenza, fino al 1362. Il loro ritorno presenta delle questioni che è necessario prendere in esame, riguardanti in primo luogo la natura giuridica ed istituzionale del loro compito, e conseguentemente la natura del loro operato e della loro influenza sulla politica pisana. Una riflessione approfondita ha messo in risalto delle ambivalenze sostanziali che sono difficili da ignorare e che meritano una trattazione approfondita.

Uno sguardo rapido alla Compagnia di San Michele sarà doveroso, in virtù dell’eccezionalità del suo governo nella storia pisana. Questo vero e proprio esperimento politico (e non fu un caso se questo si ebbe in occasione di un momento assai travagliato per il comune pisano), in cui esponenti del ceto medio legato ai settori artigiani e manifatturieri, la cui influenza politica tradizionalmente fu sì importante ma rarissimamente decisiva, prendono in mano in prima persona il governo del comune, fu senza dubbio un unicum che è stato d’altronde trattato in maniera tutt’altro che ampia in ambito storiografico.

Per fare fronte a tale compito era indispensabile un lavoro negli archivi sul quale ho incentrato i miei sforzi. Nel corso delle ricerche ho trovato a disposizione una documentazione pubblica che, nella fattispecie delle provvisioni degli Anziani, sorprendentemente si presenta quasi intatta per quasi tutto il dipanarsi progressivo degli avvenimenti presi in esame (specificatamente dal mese di novembre fino a quello di Giugno, coperti dai registri dall’ ASP Com A 142 all’ ASP Com A 145), cosa del tutto eccezionale se si tengono presenti le lacune che affliggono lo stato della documentazione pubblica pisana. Ciò permette di seguire con puntualità lo svolgersi degli avvenimenti tramite gli atti ufficiali del comune, suscitando spunti di riflessione che non sarebbe stato possibile avere con a disposizione una documentazione parziale o assente, e altresì consentendo di svincolarci in alcuni punti dalle fonti cronachistiche, o di emendarle in alcuni punti. Altresì inestimabile è il registro ASP Com A 207, dove è raccolto il carteggio epistolare degli Anziani negli ultimi mesi del 1368, che aiuta a gettare luce sulle questioni

(6)

di politica estera e interna al di là degli affari prevalentemente legati alle questioni ordinarie del comune, oggetto dei summenzionati registri. In special modo questa raccolta aiuta ad analizzare con perizia di particolari i rapporti del comune con l’imperatore e i suoi rappresentanti. Nel raccogliere la documentazione necessaria ho scelto di non avvalermi del patrimonio archivistico lasciatoci dai privati, che sebbene indispensabile per un lavoro vertente su argomenti di natura socioeconomica, non sarebbe stato decisivo laddove, come in questo caso, ci si concentra sulla specificità degli avvenimenti, pur lasciando ovviamente spiragli aperti per osservazioni di carattere composito.

Naturalmente anche le fonti di carattere letterario sono cruciali per un lavoro del genere. Le cronache contemporanee vicine spazialmente non sono presenti in gran numero per il periodo in esame. Per esempio, le cronache fiorentine scritte dai vari componenti della famiglia Villani susseguitisi nel tempo, che nonostante il mancato coinvolgimento diretto negli affari pisani si mostravano non di rado fecondi di informazioni per la suddetta città, e che infatti tanto utili si erano rivelate per chi aveva trattato la prima discesa dell’imperatore (su cui ha scritto Matteo), si interrompono proprio pochi anni prima della discesa imperiale, vale a dire nel 1364, quando Filippo interruppe l’opera dei suoi predecessori. Nonostante il cronista fiorentino non faccia niente per nascondere dove siano riposte le sue simpatie in ambito pisano, mostrando in maniera palese la sua preferenza per i Bergolini e per i Gambacorta, ciò nondimeno sarebbe stato inestimabile il suo contributo, al netto di un accurato esame critico.

In ambito pisano preziose sono le cronaca scritta da Ranieri Sardo e quella, nota come “Cronica di Pisa” contenuta nel manoscritto del cosiddetto anonimo muratoriano, edita recentemente da Iannella2. Entrambi furono testimoni diretti degli avvenimenti, che, data l’eccezionalità rappresentata dalla presenza di un imperatore nella loro città, non mancano di mettere nero su bianco con inusitata facondia. Segno questo che nonostante il declino, percepito già dai commentatori coevi più acuti, dell’importanza dell’istituzione imperiale, la venuta di un’ imperatore suscitasse ancora un’emozione capace di eccitare fortemente gli animi di chi l’avesse vissuta.

Il primo cronista menzionato, come dimostrato da diverse attestazioni documentarie, partecipò attivamente alla vita politica della città, ricoprendo incarichi legati alla gestione finanziaria del comune (non a caso egli è una figura legata ad attività mercantili di entità significativa) come quello di camarlingo, ed essendo eletto in varie occasioni Anziano,

2 Per quanto riguarda la genesi e la composizione di queste cronache, la cui trattazione esulerebbe troppo dal

contesto, rimando al saggio di Banti, Studio sulla genesi dei testi cronistici e alle relative introduzioni della cronache summenzionate.

(7)

ambasciatore ed altri uffici di prestigio. Si tratta quindi di un personaggio che ebbe modo di vivere sulla propria pelle il tumultuare degli avvenimenti, e che mostra di conoscere in maniera approfondita, oltre alla materia trattata, anche i personaggi che la animarono. Il secondo, anch’egli identificabile con un funzionario di basso livello, dal canto suo, pur non potendo vantare un simile curriculum essendo probabilmente estraneo all’ambiente decisionale, si mostra nondimeno attento e puntuale osservatore. Si tratta quindi di personalità ben addentro i luoghi del potere, che conoscevano in profondità i meccanismi della vita politica. Ulteriore dimostrazione che i due cronisti fossero adusi agli affari di governo è la ricca congerie di nomi elencati in occasione dei vari avvenimenti (liste di Anziani, gli ambasciatori imprigionati da Carlo), in grande maggioranza esatti.

Anch’egli coevo agli avvenimenti, è il lucchese Giovanni Sercambi, che inizia a scrivere la sua cronaca proprio a partire dalla seconda discesa di Carlo IV, così foriera di avvenimenti per la sua città. Il suo resoconto rappresenta un punto di vista alternativo a quello pisano, scrivendo egli da Lucca, rivelando a chi ne studia gli scritti chiavi di lettura inedite della faccenda.

Naturalmente quando si tratta di avere a che fare con la produzione cronachistica non si può fare a meno di un’operazione di lavoro critico, prendendo ciò che è stato scritto cum grano salis e tenendo conto delle personalità e delle idiosincrasie di chi ci ha lasciato i propri ricordi. Le cronache pisane si possono definire abbastanza obiettive: per loro vale la felice espressione coniata da Iannella di “generica imparzialità politica”,3 per cui gli autori

si configurano come particolarmente restii ad assumere posizioni troppo radicali e faziose, identificate come collegate ad una politica di parte ritenuta da una parte lesiva per le sorte del comune, dall’altra come troppo rischiose e compromettenti. Ciò è specialmente vero per il caso di Ranieri Sardo, dalle cui pagine traspare una personalità amante del quieto vivere, aliena ai contrasti di parte e tutta tesa al bene del comune di Pisa. Per quanto riguarda il Sercambi non passa certo inosservato, com’è naturale che sia, il suo sentimento antipisano condito anche da una certa verve polemica e frizzante, e in virtù di tali osservazioni quanto scrive deve essere vagliato in maniera particolarmente attenta, visto che il pericolo di distorsioni della realtà dettate dalla sua partigianeria è alto. In alcuni punti il travisamento dei fatti è evidente.

Il patrimonio degli studi concernente gli argomenti trattati non è molto vasto. Com’è prevedibile il maggior contributo storico sulla figura di Carlo IV è stato dato da studiosi tedeschi. A questo proposito i rapporti tra l’imperatore e l’Italia sono stati esplorati in

(8)

maniera più diffusa in due testi scritti l’uno da Pirchan “Italien und Kaiser Karl IV” e l’altro da Werunsky “Geschichte Kaiser Karls IV und seiner Zeit”.

Il primo ad affrontare in maniera specifica la presenza di Carlo IV a Pisa fu Goffredo Mancinelli con il suo saggio “Carlo IV di Lussemburgo e la repubblica di Pisa”, del 1906, che affronta fatalmente solo la prima discesa dell’imperatore. Il suo lavoro si affidava preponderantemente ai lavori di cronaca senza troppe elaborazioni critiche, peraltro non aiutato dalla scarsità della documentazione pubblica presente per il periodo in esame. Inoltre l’articolo risente dell’impostazione storiografica figlia delle teorie del Volpe, di cui parleremo in seguito,ormai desuete e in parte sconfessate dalla produzione successiva.

Più moderno è il fondamentale lavoro di Pauler, che affronta da vicino e in maniera approfondita i temi su cui verte il mio lavoro. Si tratta di un lavoro che tratta i rapporti che Carlo IV ebbe con Pisa in occasione delle due discesa, non mancando di scrivere sulle figure dei vicari imperiali nell’intervallo di tre lustri che vide assente fisicamente il monarca dal comune toscano, non mancando di affidarsi alla documentazione del comune laddove sia stato necessario. Il suo contributo è stato necessario per superare pregiudizi e incomprensioni sulle relazioni intercorrenti tra Pisa e l’imperatore dovute all’impostazione storiografica precedente. Ma nonostante ciò si sente la necessità di integrare gli sforzi del Pauler (e, in alcuni casi, modificare) con una nuova trattazione per alcuni motivi, cercando un nuovo approccio che riveda alcune sue conclusioni. Naturalmente, l’attenzione dell’autore si concentra (non in maniera esclusiva, ça va sans dire) sulla figura dell’imperatore, mentre le problematicità riguardanti Pisa passano lievemente in secondo piano. La seconda discesa di Carlo IV non è affrontata abbastanza in exstenso: qui lo studioso tedesco si è preoccupato principalmente di far parlare principalmente, sebbene puntualmente, i fatti, lasciando in sospeso alcune questioni che meritano di essere approfondite, come ad esempio la natura delle prerogative di Marquardo e Gualtieri, o il persistere dell’azione destabilizzante del Dell’Agnello sulla stabilità del governo pisano.

Successivamente Ronzani, con il suo saggio prima menzionato, conciso ma denso di spunti fecondi, ha trattato della natura dei compiti dei vicari imperiali tra le due discese, sottolineando il carattere controverso delle loro doppie prerogative istituzionali, in virtù del fatto che essi fossero contemporaneamente sia ufficiali del comune sia dell’impero.

Significativo ai termini del nostro sforzo anche l’opera dello storico francese Pierre Jugie, sul vicariato imperiale del cardinale Guy de Boulogne a Lucca, con un significativo lavoro di esplorazione del patrimonio documentaristico della curia .Qui, in pratica, si esaurisce ciò che il lavoro storico ha prodotto su questo aspetto della storia pisana.

(9)

Inoltre si può lamentare l’assenza di uno studio comprensivo sulla natura generale del vicariato imperiale nel trecento. Un lavoro comparativo getterebbe luce sulle prerogative che gli inviati della massima carica temporale esercitavano nelle aree a loro assegnate, e suoi rapporti che essi ebbero con le autorità esistenti.

Per quanto riguarda in generale lo stato degli studi sul XIV secolo e Pisa, non ci si può che affliggere per l’assenza di studi recenti e approfonditi (soprattutto per quanto riguarda la seconda metà del periodo) che superino definitivamente il paradigma storiografico stabilito dal Volpe ormai più di un secolo fa, le cui intuizioni sono state per lungo tempo fin troppo irrigidite e appiattite su una lettura acritica.

L’insigne storico abruzzese, nel suo famosissimo lavoro, praticamente il primo sull’argomento e ancora per molti versi imprescindibile per chi voglia avvicinarsi allo studio della Pisa medievale, “Storia delle istituzioni comunali a Pisa” e nel saggio “Pisa,

Firenze e Impero al principio del 1300 e gli inizi della signoria civile a Pisa”, che tratta

più da vicino le vicende del XIV secolo, tracciò le linee guida su cui si concentreranno i suoi successori per la critica del periodo. Nell’ultimo saggio il Volpe si concentra sul problema storico rappresentato dal sorgere delle signorie, problema comune a tutta la penisola. Dopo aver ripercorso le ragioni storiche del tradizionale ghibellinismo della città tirrenica, evidenziò come a suo parere l’afflusso repentino di nuove energie provenienti dal contado (punto chiave anche dell’altro suo monumentale lavoro), oltre a modificare radicalmente la composizione demografica della città, insieme alle basi dell’attività economica, comportò anche la comparsa di nuovi attori sulla scena politica, estranei alla nobiltà e non legati dalla vecchia fede imperiale, di cui egli sostanzialmente decreta la morte nel 1333 con la cacciata del vicario imperiale Tarlatino Tarlati. Fu inoltre “responsabile” dell’annosa dicotomia che monopolizzò la critica sulle due fazioni che caratterizzarono la vita politica pisana per parte del ‘300. Secondo la lezione volpiana ripresa in maniera eccessivamente schematica dagli autori successivi, con il decadere delle condizioni per esercitare un “imperialismo” marittimo, gli interessi economici dei pisani si volsero verso l’entroterra. Da qui il nascere delle due fazioni rivali, di cui Volpe tratteggiò brevemente le caratterizzazioni: i Bergolini dovevano per forza essere armatori, mentre i Raspanti erano immancabilmente lanaioli4; perciò in virtù dei loro supposti interessi economici era consequenziale la loro disposizione nei confronti di Firenze, con i primi strenui sostenitori della città gigliata e i secondi in conflitto con essa, perseguendo una politica che si può definire con un anacronismo “protezionistica”, prediligendo lo sviluppo

(10)

dell’industria e di conseguenza della città. Ma gli interessi di Volpe non erano tanto rivolti a sostituire il contrasto tra nobili e popolare con quello tra lanaioli e mercanti, quanto ad analizzare il tramonto delle ideologie politiche del guelfismo e del ghibellinismo che avevano lasciato un’impronta indelebile nei tempi precedenti, e il mutamento della mentalità e degli orizzonti di chi componeva la popolazione pisane5. Tutti fattori che contribuirono all’affermarsi del fenomeno della signoria.

Tra chi seguì le tracce di questa impostazione si possono annoverare Giovanni Rossi Sabatini, che studiò la signoria dei conti di Donoratico, Pietro Silva e Natale Caturegli.

Fu il Silva, sviluppando gli accenni in proposito di Volpe, a sviluppare l’annoso tema storiografico della dicotomia tra il partito dei Bergolini e quello dei Raspanti, analizzato per la prima volta dall’autore in un saggio sull’industria laniera e il suo commercio a Pisa6.

Fu già lo stesso storico a notare en passant il problema della mancata aderenza ad una classe precisa di chi faceva parte di un partito7, ma egli non approfondì il tema. D’altra parte per molto tempo nessuno raccolse l’imbeccata, trascurando il carattere della varietà e della complessità interna delle parti in contrasto. Silva scrisse anche un lavoro a proposito della signoria di Pietro Gambacorta, riprendendo la questione della sua fedeltà a Firenze, prova supplementare per l’autore dell’interesse che avevano i Bergolini (fazione di cui la famiglia Gambacorta tradizionalmente faceva parte) a legare le proprie fortune con quelle del comune fiorentino.

Il lavoro di Natale Caturegli è particolarmente degno di nota in quanto studiò, fra le altre cose, le problematiche relative ai partiti di Pisa e soprattutto a Giovanni dell’Agnello. La sua opera, “La signoria di Giovanni dell’Agnello a Pisa e le sue relazioni con Firenze e

Milano”, come si può intuire dal titolo, presenta una particolare attenzione sulle relazioni

diplomatiche intercorse tra Pisa e le due principali potenze italiane del periodo ai tempi del dogato e nei lassi di tempo contigui. Non mancò quindi un suo contributo riguardo alla discesa imperiale di Carlo IV. I limiti del lavoro di Caturegli sono molti. Egli irrigidisce fin troppo il pensiero volpiano sulla natura delle parti a Pisa, rimanendo vittima dei suoi pregiudizi nell’analizzare i fatti e i documenti, che d’altra parte spesso contraddicono quanto afferma. Il suo tratteggio della personalità del Dell’Agnello è fortemente caratterizzato dai suoi preconcetti. Anche la sua analisi relativa al partito dei Raspanti non è soddisfacente, in quanto si limita a riconoscere a tale schieramento quella base socioeconomica rappresentata dagli interessi lanieri e da un’ideologia che si rifaceva al

5 C. Violante, La fortuna, p. 357.

6 Si veda il saggio Intorno all’industria e al commercio della lana in Pisa. 7 P. Silva, Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa, pp. 14-15n.

(11)

ghibellinismo e ad un passato di grandeur pisana che essi volevano restaurare. D’altra parte la sua è l’unica monografia che tratti approfonditamente la figura del Doge pisano, e non si può fare a meno di confrontarvisi.

Tra i primi ad intaccare le ormai consolidate concezioni volpiane ci fu Emilio Cristiani con il suo “Nobiltà e popolo nel comune di Pisa”, estendendo la sua critica in varie direzioni. Vengono confutate in prima istanza le conclusioni sul mutamento demografico che Pisa avrebbe sperimentato nel XIII secolo . Il lavoro dello storico pisano poi, con un certosino lavoro prosopografico, si concentra nel dimostrare il persistere dei rapporti tra esponenti della nobiltà (che riuscirono a mantenere un piede negli organismi governativi del comune) e del popolo, che portò ad una sostanziale fusione dei due schieramenti in un’élite unitaria che monopolizzava i vertici del potere. Confutò così il mito di un totale rinnovamento ai vertici del ceto dirigente pisano. Prendendo spunto dagli orientamenti storiografici allora dominanti elaborò poi la teoria che gli scontri di parte che caratterizzarono la vita politica pisano non erano per la maggior parte riconducibili a schemi ideologici quanto a rivalità personali e a considerazioni dettate dall’interesse privato8, appiattendo troppo l’interpretazione sul desiderio di potere da parte di una famiglia o di un gruppo di famiglie, negando in ultima istanza il concetto di classe e la presenza della componente economica nel contrasto politico. Per Cristiani in definitiva alla base delle contrapposizioni e dei conflitti non trovavano un essenziale risalto né motivi economici né motivi ideologici.

L’insoddisfazione per i limiti imposti da tale bipolarismo sono poi stati evidenziati ad opera di Tangheroni “Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel Trecento”. Gli scopi di ricerca dell’autore si rivolgevano prevalentemente sul versante economico, ciononostante il suo libro affronta sinteticamente ma efficacemente anche gli aspetti più stringenti del certame politico pisano. Di particolare importanza la sua breve trattazione prosopografica delle famiglie del partito raspante che demolì la visione delle parti in lotta come compartimenti stagni facendo notare come nessun esponente dei ceti più elevati facesse della produzione di lana la propria attività esclusiva, ma che questi avessero bensì interessi diversificati. L’esame dei gruppi familiari mostrava come gli indirizzi e le strategie politiche in molti casi mutassero nel tempo, a seconda degli interessi personali, accrescendo l’insoddisfazione per il modello interpretativo sui Bergolini e i Raspanti9.

8 E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa, pp. 79-80.

9 Senza comunque integralmente fare proprie le tesi già esposte del Cristiani, e riconoscendo spesso una

linea politica costante nel tempo e scevra da quello che qualcuno potrebbe chiamare opportunismo. Ulteriore prova di come l’agone politico trecentesco non debba essere affrontato con schemi di pensiero ferrei ma

(12)

Tangheroni sfidò le considerazioni riguardanti le due parti anche facendo notare (riprendendo in tale senso alcune osservazioni di Cristiani10) come la tassazione imposta ai

mercanti fiorentini non fosse un provvedimento mirante ad indebolire l’industria laniera fiorentina, e che tale misura giovò sia ai lanaioli che agli armatori. Egli inoltre fu il primo ad emendare la visione di Pisa come città in grave crisi dalla fine del XIII secolo, e come nel secolo seguente il comune tirrenico attraversasse momenti di forte vitalità economica e commerciale. Non bisogna quindi adagiarsi sulla lettura storiografica tradizionale che vuole il XIV secolo come periodo di regresso e depressione inesorabile di Pisa, ma tenere conto della complessità dei fenomeni per trovare risposte adeguate riguardo le problematiche storiche per il periodo in esame. In un pugno di pagine feconde di spunti egli rivolse le proprie attenzioni anche verso la compagnia di San Michele, sottolineandone il carattere anormale, almeno per quanto riguarda lo scenario pisano11.

Ultimo in ordine di tempo è il lavoro di Poloni “Trasformazioni della società e

mutamenti delle forme politiche in un Comune italiano: il popolo a Pisa (1220-1330)”.

Concentrandosi, e mettendo in evidenza l’importante ricambio familiare operatosi ai vertici del governo comunale alla metà del XIII secolo, sulle circostanze che portarono alla ribalta il movimento del partito popolare, l’autrice rifiuta la tesi di Cristiani per la quale popolo e nobiltà operarono una sostanziale unificazione che le portarono a governare Pisa come un solo blocco coeso. Al contrario, questa è la tesi di Poloni, fu il partito del popolo a fare la parte del leone, mantenendo intatte le proprie prerogative e la propria identità. Le vecchie consorterie furono in pratica escluse dall’esercizio del potere, anche se va detto che continuarono comunque a ritagliarsi uno spazio nel panorama istituzionale pisano.

Tutti i lavori dotati di un respiro più ampio sopra menzionati, con l’unica e preziosa eccezione rappresentata dall’opera del Tangheroni, esauriscono la propria trattazione arrivando a coprire solo i primi decenni del XIV secolo. Anche se la fisionomia istituzionale del comune pisano all’epoca si era già ben definita, si avverte comunque la mancanza di una discussione sulle unicità che contraddistinsero il periodo e sulle similitudini intercorrenti tra Pisa e le altre città del periodo che affrontarono problematiche simili, come la crisi della partecipazione allo spazio politico e l’ascesa prepotente del fenomeno della signoria.

richieda una certa duttilità interpretativa. Si veda M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura, capitolo II.

10 E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa, pp. 308-312

(13)

Nonostante le considerazioni di Tangheroni si possano considerare come acquisite nell’indirizzo degli studi pisani, mancano altresì dei lavori che riprendano seriamente le orme del suo lavoro, e sono tuttora importanti per chi studi il periodo i lavori scritti nella prima metà del secolo appena trascorso. C’è da auspicare che si rimetta al lavoro l’opera dello storico per affrontare con un punto di vista nuovo i problemi storici già affrontati con i vecchi strumenti: l’esperienza politica dei Gambacorta, quella del Dell’Agnello, e in generale il problema riguardante la natura della lotta fazionale tra Bergolini e Raspanti.

Alcuni lavori che affrontano in un’ottica attuale le questioni sopra elencati sono d’altronde stati effettuati. Si segnalano tra gli altri i saggi di Poloni sul Dell’Agnello12 e

quello di Ciccaglioni sull’effimera esperienza della compagnia di San Michele, quest’ultimo concentrato in prevalenza su aspetti di natura economica. Si tratta comunque di brevi dissertazioni che, seppur rimarchevoli e foriere di idee, per la natura stessa del loro lavoro non bastano a sviscerare in profondità le problematiche proposto, e devono dare il la a trattazioni più ampie. In particolar modo abbisogna di una nuova trattazione il problema relativo appunto al dogato del Dell’Agnello, perché la figura di questi e il suo governo vengano rivalutati in uno studio che non sia prigioniero di antichi errori storiografici e che prendano spunto dalle intuizioni più innovative.

12 A. Poloni, Il trono del doge.

(14)

ISTITUZIONI, ECONOMIA E POLITICA A PISA NEL XIV

SECOLO

1.1 CONSIDERAZIONI GENERALI: TRA COMUNE DI POPOLO E

SIGNORIA

Prima di addentrarci nel cuore della questione è opportuno, per dare un’idea adeguata dello scenario dentro cui si muovono gli avvenimenti, tracciare a grandi linee la fisionomia istituzionale ed economica di Pisa nei tempi in cui si delinea la nostra trattazione. L’argomento presenta già una vasta bibliografia da cui prendere le tracce, per cui non sarà necessario soffermarsi troppo su tali problematiche.

Nella seconda metà del XIV secolo l’aspetto istituzionale di Pisa era ben delineato già da parecchio tempo, con il progressivo rafforzamento del comune di Popolo.13 L’ultima innovazione rilevante si era avuta nel 1308, quando fu statuita in maniera definitiva la modalità di elezione del collegio anzianale, magistratura cardine del comune di popolo di Pisa. Ci furono poi successive modifiche degli statuti, soprattutto per quanto riguarda le Commissioni dei Savi e gli organi consiliari, ma si può dire che la fase di sperimentazione di nuove forme politiche nel comune di Pisa si fosse ormai esaurita e che i protagonisti dei nostri affari si muovessero in un ambito istituzionale già fissato e considerato, per così dire, tradizionale. Le fasi signorili che contraddistinsero il comune pisano per gran parte del Trecento si limitarono a inserirsi in forme di governo già esistenti e ampiamente accettate senza apportare sostanziali cambiamenti formali, ed esplicitando il proprio potere evitando di snaturare lo status quo vigente, ma in maniera da convivere con gli ordinamenti del comune. Dunque quella che è stata definita una “cripto-signoria”14.

Le forme con cui il potere autocratico del signore interagì con le tradizioni comunali furono via via sempre diverse, ma comunque i signori furono generalmente sempre attenti a conservare, seppur in maniera meramente formale, intatte le prerogative dei vari uffici e

13 Per popolo non si deve intendere lo strato più basso della società cittadina (che si può identificare con il

“popolo minuto”) ma generalmente un’unione, da un certo momento in poi formalizzata, tra individui che coalizzavano in sé interessi mercantili e artigiani di formazione relativamente recente nell’ambito di un ceto di nuova comparsa inizialmente escluso dal potere tradizionale. Questa unione si organizzò poi in peculiari forme territoriali che erano al contempo uno strumento per esercitare pressione politica e per forgiare un’identità condivisa, oltre a fornire un apparato militare al comune.

(15)

delle varie magistrature che costituivano la struttura politica del comune pisano, d’altronde sempre sensibile alla retorica mai appassita della “libertas” e quanto mai allergico alla signoria “a bacchetta”, per usare le parole di Ranieri Sardo (importante eccezione a questo stato di cose fu la signoria di Giovanni dell’Agnello, di cui giova sottolineare una volta di più il carattere speciale). Nonostante il susseguirsi di esperimenti signorili Pisa rimase infatti fino alla fine un comune di Popolo, almeno nominalmente, e i governi personali continuavano a sfruttare il richiamo all’esperienza politica popolare, che non mancava di pizzicare le corde della sensibilità cittadina. D’altra parte la città tirrenica avvertiva sempre più spesso e maniera costantemente più pressante la necessità di un governo forte e stabile che ponesse un freno alle lotte di parte che non di rado paralizzavano lo svolgersi della vita quotidiana con disordini e faide; oppure di un personaggio carismatico che in tempi di gravi difficoltà militari ricompattasse il fronte del comune dinanzi alle minacce esterne e superasse con il suo ascendente e le sue abilità di comando le crisi che Pisa si trovò ad affrontare così frequentemente nel XIV secolo. Vi era poi l’esigenza percepita da più parti di un consolidamento politico-amministrativo dello stato e di un superamento della sua base prettamente cittadina per giungere al cosiddetto stato territoriale. Insomma, come già notato a suo tempo da Volpe, era presente una tensione ineludibile tra gelosia e attaccamento alle proprie tradizioni e alle istituzioni comunali, e un desiderio di tranquillità e forza che a volte il governo di popolo non era in grado di garantire15.

I popolari, per motivi sia pragmatici che ideologici, erano disposti a cedere le redini del governo solo in momenti di particolare urgenza e solo per periodi brevi. Una contravvenzione in questo senso suscitava la loro immancabile reazione. L’eccezione rappresentata dalla signoria dei Donoratico si spiega con la loro disponibilità a concedere un ampio spazio politico alle famiglie popolari, instaurando una forma di signoria “soft”. Come già detto il dogato di Giovanni dell’Agnello, su cui dovremo necessariamente tornare, rappresenta per l’esperienza pisana un momento di rottura per i caratteri innovativi che tentò di introdurre nel suo governo. La tendenza all’emergere di forme di governo di stampo signorile a Pisa si innesta su un trend comune al periodo, che si era andata verificando in Italia settentrionale già negli ultima metà del XIII secolo, anche se va detto che le esperienze signorili toscane si pongono in una condizione di alterità rispetto a quelle attuate di norma a nord degli Appennini. Motivazioni comuni erano l’esigenza di creare più vasti organismi territoriali teoricamente ben coordinati ed accentrati, costituiti in maniera gerarchica. Per arrivare a ciò in Italia settentrionale fu cruciale l’apporto del

(16)

contado e della nobiltà ivi risiedente con le sue vaste clientele armate, e la relativa sopravvivenza di residui feudali nelle tecniche di governo, data appunto dai connotati della nobiltà del contado, mentre a Pisa e in Toscana in generale le cose si giocarono a livello prettamente cittadino16.

Nel comune tirrenico furono l’irrigidimento della vita politica comunale, improntata a un processo di “oligarchizzazione” e il divampare più violento dello scontro politico con il rispettivo formarsi di partiti a preparare il terreno ad un governo personale, estraneo alla società feudale o che comunque (è il caso dei Gherardesca) pur conservandone qualche aspetto era maggiormente legato al mondo comunale, che si voleva super partes e garante della pace cittadina. Nella pratica spesso però i governi signorili pisani si appoggiarono ad una rete di clientelismi e compromessi che si differenziavano dagli stilemi di potere popolare per il loro carattere maggiormente arbitrario e manifesto. C’era al comando un uomo solo, ma egli rendeva saldo il suo potere favorendo alcune famiglie tradizionalmente ben stanziate nel ceto dirigente, e di norma cercò di mantenere intatte le strutture decisionali del comune almeno su un livello esteriore. Non mancarono alcuni tentativi, come quello di Uguccione della Faggiola, di smarcarsi almeno leggermente dal Popolo favorendo le Arti e il ceto artigiano, ma in generale comunque le forme di governo paternalistico nei confronti dei meno abbienti furono una costante nelle Signorie pisane. Quindi, se teoricamente la signoria attuò a livello giuridico e politico un livellamento di tutti i sudditi di fronte allo stato17, nella pratica il Signore non sempre poté esercitare una

forma di potere completamente arbitrario, pena il ferimento della suscettibilità dei suoi sottoposti. Egli si muoveva sempre in equilibrio su una linea sottile che se oltrepassata suscitava lo sdegno dei cittadini, che poi aspettavano il momento giusto per scatenare la loro reazione.

Il trionfo del comune popolare di Pisa, che costituì le forme con cui si stabilizzò la repubblica pisana, si ebbe già nel 1254, culmine di un movimento che scosse le fondamenta di Pisa già nei decenni addietro.

All’inizio del XIII secolo Pisa era governata da un’èlite relativamente ristretta che controllava saldamente tutte le posizioni di potere, composta da famiglie di diversa antichità e provenienza, alcune con una certa eminenza che data da prima della nascita del comune, altre che si erano fatte spazio nei ranghi del ceto dirigente, fino all’apice rappresentato dal consolato, nel corso del secolo precedente; fra i primi si possono annoverare i Conti della Gherardesca con i suoi diversi rami, che nel ‘300 diedero vita a

16 G. Chittolini, La crisi degli ordinamenti comunali, pp. 26-28. 17 A. Ventura, La vocazione aristocratica della Signoria, p. 95,

(17)

una vera e propria dinastia signorile a Pisa di durata relativamente breve, la cui fortuna fu rappresentata da antichi e vasti possedimenti tenuti nella zona della Maremma e nell’attuale sud della provincia di Livorno. La natura eterogenea di tale gruppo di potere era compensata dalla condivisione di valori e dello stile di vita, legato all’esercizio delle armi e al comando militare. Anche il commercio marittimo nel Mediterraneo, considerando che Pisa continuava a detenere quel ruolo di piazza privilegiata per gli scambi, vitale nell’ambito dell’intermediazione tra diverse aree del bacino Mediterraneo, e che all’epoca sottintendeva aspetti di natura guerresca, era un importante strumento di coesione. Il comune pisano, per quanto riguarda l’aspetto istituzionale, aveva caratteri simili a quelli del resto della penisola negli stessi anni: si stava concludendo la transizione tra l’istituto consolare e quello podestarile. Il vertice del governo era affiancato nello svolgimento delle sue mansioni dal Senato, l’arena in cui era data espressione alle varie famiglie dell’aristocrazia consolare, e che ne divenne lo strumento per esercitare la propria preponderanza politica. Il Senato era affiancato da un ulteriore organo consiliare, il Consiglio Generale, che arrivò a comprendere verso la metà del ‘200 addirittura 400 membri. Ne facevano parte, oltre ai senatori, i rappresentanti della comunità cittadina reclutati su base geografica ed esponenti delle varie Arti, da cui spesso e volentieri provenivano le rimostranze più veementi nei confronti dell’èlite e le richieste di allargamento della base e delle influenza politica delle classi sociali in ascesa. Qui le famiglie della borghesia che stavano acquistando un peso economico tutt’altro che trascurabile fanno i primi passi nell’esperienza politica che poi li porterà ad essere gli attori protagonisti nel proscenio del governo del comune.

All’incirca alla metà del secolo ebbe inizio per Pisa il periodo più turbolento dal punto di vista istituzionale, che portò, oltre alla nascita del comune di popolo, anche a un mutamento radicale della fisionomia delle famiglie al vertice della vita politica pisana. Ciò corrisponde direttamente ai mutamenti sociali, demografici ed economici che Pisa attraversò nel corso del secolo, improntato ad una forte crescita che raggiunse il culmine proprio nella seconda metà del Duecento. Nella seconda metà del XIII secolo fino agli inizi del secolo seguente il comune tirrenico sperimentò e stabilizzò il proprio quadro politico, e vide l’ascesa di nuovi gruppi familiari che costrinsero le antiche consorterie se non alla perdita completa dell’influenza politica e della preponderanza economica quantomeno in una posizione subalterna. Il comune di popolo si dotò col passare del tempo di un sistema di amministrazione sempre più completo e centralizzato, e gli uffici che nacquero o trovarono il proprio modello definitivo in questo periodo resistettero almeno fino alla data

(18)

cruciale del 1406, anno in cui Pisa perse in maniera definitiva la propria indipendenza ai danni della propria contendente storica: Firenze. Lungo il ‘300 Pisa non attraversò trasformazioni paragonabili per portata a quelle che si verificarono nell’arco del secolo precedente. La fase di dinamismo sociale ed economico che attraversò il periodo precedente si arrestò nel XIV secolo, che si può definire come fase di assestamento. Furono metabolizzati e modificati i cambiamenti sviluppatisi precedentemente, e gli uomini che muovevano i loro passi in questo periodo lo facevano seguendo le orme lasciate dai loro avi, senza più cercare l’innovazione, soprattutto in campo economico. Conseguenza di ciò fu una diminuzione della mobilità sociale e, di riflesso di quella politica. Il ‘300 fu quindi generalmente un periodo di consolidamento delle istituzioni e del processo di costruzione statale, di evoluzione da un regime imperniato sulla concorrenzialità dei poteri a un regime statale più centralizzato e moderno. Il tutto sullo sfondo di una tensione fortissima, conseguenza degli scontri di fazione18.

Gli uomini che finirono con il monopolizzare i quadri politici pisani si possono considerare come parvenus, individui giunti recentemente ad uno status economico significativo, scalzando i nobili dalle posizioni su cui si erano attestati. Non più quindi aristocratici che traevano il proprio status da operazioni di commercio mediterraneo di grande respiro, ma elementi che facevano del commercio di terra la propria forza, pur senza disdegnare operazioni di commercio marittimo. Dalla vetrina dell’Ordine dei Mercanti commercianti di panni e setaioli, più legati alla dimensione locale degli scambi, insidiavano le gerarchie. Ma non erano solo “bottegai” coloro che assursero alla cima delle istituzioni, ma anche banchieri e prestatori, le cui attività verosimilmente risultavano scarsamente attraenti per i nobili, che così si trovarono impreparati di fronte al mutamento degli scenari economici internazionali, perdendo importanti occasioni per contrastare la concorrenza che si veniva creando. Infatti si veniva sempre più a modificare il ruolo di Pisa all’interno del mondo commerciale.

Con il tramontare dell’era dell’aggressiva espansione marittima della repubblica marinara essa, senza perdere il tradizionale ruolo di intermediaria tra le aree del Mediterraneo, si configurò come “città di servizi”19 vivace centro di scambi e di

smistamento delle merci, dove confluivano operatori commerciali provenienti da ogni dove. Nel contempo Pisa acquistava sempre di più il ruolo strategico di porto per le città dell’interno che stavano attraversando una crescita economica esponenziale. Da qui l’importanza crescente di bottegai e banchieri-cambiatori di valuta, che approfittarono

18 G. M. Varanini, Dal comune allo stato regionale, p. 694. 19 A. Poloni, Trasformazioni della società, p. 17.

(19)

delle opportunità derivanti dalla presenza straniera offrendo anche servizi come il conto corrente o il deposito. Ben presto si iniziò a variare gli investimenti, di modo che i gruppi familiari poterono agire contemporaneamente sui fronti del commercio sia di bottega sia marittimo e sull’attività bancaria. Una delle conseguenze fu anche quella di diversificare la composizione socioeconomica degli aderenti all’ordine dei mercanti dove convivevano allo stesso tempo mercanti dalle ricchezze faraoniche e più modesti bottegai “al minuto”, tutti i membri delle Arti tessili e speziali.

Ciò portò al duplice risultato di rendere necessaria una differenziazione nell’Ordo Mercatorum in virtù delle diverse esigenze che muovevano le diverse anime che lo andavano a comporre, sia di creare in seno ad esso una gerarchia egemonizzata dai membri più abbienti. Con il passare del tempo e con l’intensificarsi dei contatti personali, emerse una nuova figura di mercante, che aveva interessi spazialmente compositi, ma che gestiva i propri affari in maniera sedentaria, cosa che gli permetteva di convogliare una discreta dose di tempo ed energia nelle questioni politiche cittadine. Il diffondersi della Compagnia alla fiorentina, con una sede centrale e vari agenti fissi nei distaccamenti periferici permise quindi l’emergere di nuove figure, fra i quali si possono annoverare dei futuri giganti della politica pisana come i Gambacorta o i Dell’Agnello, economicamente rilevanti alla fine del XIII secolo, con un giro d’affari decisamente maggiore rispetto ai predecessori, nonostante il persistere delle vecchie forme di gestione finanziaria come la commenda o la società di mare. I nobili, forse per una mentalità fortemente arroccata in una Weltanschauung legata alla gloria del passato e della tradizione, continuarono ad essere estranei alle innovazioni commerciali, o vi arrivarono molto in ritardo.

Se dal punto di vista professionale la fisionomia di questi “homines novi” è abbastanza omogenea, lo stesso non si può dire della loro provenienza. Poche di queste famiglie, a differenza di quanto sostenuto dal Volpe, provengono dalle aree del contado: fra le più eminenti solo gli Alliata, originariamente medi proprietari della zona di Calcinaia, corrispondono al profilo tracciato dallo storico abruzzese di una fulminante ascesa economica che li portò nel giro di due generazioni alla preminenza politica ed economica. La maggior parte delle famiglie erano da tempo inserite nell’ ambiente cittadino, senza più alcun contatto con le località di origine al tempo della loro affermazione, e alcune di esse con una tradizione pregressa nel settore commerciale. Erano comunque tutti accomunati da un forte spirito identitario che li rendeva estranei alle attrattive della nobiltà, sebbene non fossero del tutto restii ad assumerne alcuni dei caratteri distintivi, o a legarsi ad essa

(20)

tramite matrimoni20. La loro coesione era favorita dall’integrazione nel circuito

commerciale pisano e dai rapporti continuativi che ne derivavano, la qual cosa era anche foriera di discussioni e dibattiti sulla situazione politica, sempre più fonte di insoddisfazione ai loro occhi. La loro azione politica energica denota senz’altro, oltre che ad una spiccata autocoscienza, anche una precisa strategia senza dubbio maturata negli anni, anche ma non esclusivamente nell’ambito della partecipazione agli organi consiliari.

La politica pisana fu quasi in ogni momento della storia comunale dominata da un numero ristretto di famiglie; in particolare chi ebbe accesso al ceto dirigente alla fine del XIII secolo, rimase in genere saldo al suo posto fino alla fine dell’indipendenza comunale, con alcune eccezioni date da cataclismi politici, i cui effetti peraltro furono per la maggior parte reversibili. Si può dire che la stabilizzazione dei gruppi familiari si iniziò a configurare nel 1288, dopo i tumulti che portarono alla fine della signoria di Ugolino. I vertici del popolo assunsero dopo il governo del Conte una fisionomia totalmente diversa, con soli pochi nuclei familiari che riuscirono a rimanere in sella a seguito di tale terremoto, tanto che si potrebbe parlare di vera e propria rivoluzione. Non a caso dopo la deposizione si fa iniziare il cosiddetto “Secondo Popolo” per sottolineare ulteriormente la cesura rappresentata da questa data.

Per descrivere la composizione del gruppo dirigente popolare si può adattare la dicitura “concentrica”21 un po’ per ogni periodo del comune di popolo. Da un centro di potere in

cui un numero ristretto di famiglie esercita l’egemonia politica si può poi isolare un secondo cerchio di famiglie che ricoprono ruoli chiave nell’anzianato, nell’amministrazione finanziaria e finanche militare del comune e nei Consigli. Si ha poi un ulteriore strato di famiglie a cui non venivano demandati forti responsabilità decisionali ma che erano comunque presenti negli ambienti istituzionali. Infine è identificabile un ultimo gruppo in pratica escluso dai ruoli amministrativi ma che esercita una certa pressione politica venendo coinvolti in misura minore ma pur sempre rilevante nell’Anzianato e negli organi consiliari. In aggiunta a questa èlite si possono individuare le influenze persistenti degli appartenenti al ceto dei giuristi, che alle volte rappresentarono la sanzione ufficiale della legittimità dei vari regimi e che furono comunque sempre indispensabili alla res publica per il loro know-how. Infine, i ceti artigiani riuscirono sempre ad avere una voce, pur anche fievole, nella politica pisana: la loro influenza fu mitigata e imbrigliata con efficacia ma mai completamente eliminata.

20 M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura, p. 17. 21 A. Poloni, Trasformazioni della società, p. 217.

(21)

Una situazione politica del genere, soprattutto per quanto riguarda il XIV secolo, quando un pugno di famiglie eminenti tesero a riservarsi in maniera esclusiva l’esercizio effettivo del potere provocando l’irrigidirsi dei quadri dirigenziali, potrebbe essere definita oligarchica, ma ciò non è del tutto vero. Sebbene le famiglie influenti sulla cresta dell’onda fossero sempre in numero esiguo, ciò non significa che sia mai stata sancita in maniera giuridica una differenziazione o una chiusura alla partecipazione al potere, magari facendo diventare l’èlite mercantile al potere in un certo momento ereditaria; non ci fu mai una “serrata”. Ogni famiglia teoricamente poteva aspirare a far parte del gruppo dirigente e da cui farsi spazio fino all’eccellenza. E l’evenienza pratica di un avanzamento politico si verificò e continuò a verificarsi anche lungo tutto l’arco del Trecento, nonostante un marcato restringimento delle opportunità politiche, che si tradusse in una maggiore rigidità nel reclutamento nei quadri delle maggiori cariche politiche, e della partecipazione alla vita pubblica che caratterizzò questo periodo. Per questa mobilità, che in definitiva non venne mai meno, il sistema politico dei Popolari poté godere di consensi per la maggior parte della sua sussistenza: le famiglie nei piani più bassi o fuori dai palazzi del potere accettavano il ruolo che ricoprivano e legittimavano le istituzioni nutrendo la speranza di poter modificare col tempo la propria posizione. Nella pratica però la condizione fondamentale per poter realisticamente aspirare ad una brillante carriera politica era il successo economico. Nella forma mentis dei comuni con netta preminenza del ceto mercantile l’affermazione commerciale equivaleva all’idoneità al ricoprire ruoli di matrice politica. Naturalmente oltre a ciò entravano in gioco molteplici fattori come la tradizione familiare, il carisma e la costruzione di relazioni personali, ma di norma con il raggiungere di una certa importanza economica si arrivava alla rappresentanza politica. Ma comunque per determinare in ultima istanza la buona riuscita di una carriera politica rimanevano decisive le abilità personali.

Considerando quando detto, il più ampio spettro del nucleo familiare rappresentava la base dell’impegno politico, anche in virtù dello stesso ordinamento istituzionale del comune: la varietà degli organismi comunali pretendeva che in ognuno di essi, perché il peso della famiglia fosse rilevante, si piazzasse un membro del nucleo familiare. Si è notato poi come in ogni generazione le famiglie si appoggiassero prevalentemente su un loro esponente di spicco per conservare ed accrescere il prestigio dell’intero gruppo di consanguinei; nei momenti pressoché obbligatori di vacanza di questo personaggio gli altri portavano avanti l’impegno politico per mantenere alta la visibilità del gruppo familiare22.

(22)

Nel XIV secolo insieme a questi fattori per determinare le fortune di un gruppo acquistò una nuova rilevanza l’oculatezza delle scelte politiche, a causa del verificarsi di lotte fazionali di particolare virulenza e dell’emergere nel panorama cittadino di periodi legati a governi personali. I buoni rapporti con un signore o l’adesione alla parte che si rivelava vincente equivalevano spesso al passaggio in posizioni di rilevante importanza nel gruppo dirigente.

1.2 IL RUOLO DELLA NOBILTÀ

La partecipazione della nobiltà alla vita politica durante il comune di Popolo ha rappresentato un annoso problema storiografico, tanto da diventare una vera e propria vexata quaestio. Elemento distintivo del governo di Popolo fu quello di coinvolgere nel proprio governo coloro che avessero fatto giuramento al popolo, i cosiddetti “iurati in

populo”. Dal giuramento erano esclusi formalmente gli appartenenti all’aristocrazia,

segnando così una rottura con i governi precedenti. Tale giuramento era particolarmente radicale, dato che comprendeva chiunque avesse avuto un miles tra i propri antenati. Pur senza redigere liste di milites o nobiles, a Pisa si tenne sempre presente in maniera chiara chi fossero i rappresentanti del ceto aristocratico. D’altronde questi ultimi, come del resto i popolari, custodirono sempre gelosamente le proprie peculiarità ideologiche e l’appartenenza al proprio ceto. I nobili conservarono lungo il corso del governo di popolo le proprie usanze tradizionali: essi furono sempre legati al possesso di patrimoni fondiari nel contado, alla costruzione di consorterie di fedeli a loro legati da giuramento (che spesso andavano a costituire una sorta di “città nella città”), all’esercizio della guerra e delle attività ad essa legate, e alla giustizia privata, che si mostrava con lo scatenarsi di vendette e veri e propri conflitti tra famiglie all’interno del contesto più largo del comune. In una città come Pisa, dotata di una spiccata connotazione commerciale, i nobili non disdegnarono di dedicarsi ad attività che l’aristocrazia di altre località trascurava. È il caso dell’esercizio di professioni giuridiche (la cosiddetta nobiltà di toga), e di quelle commerciali23. Non a caso, come abbiamo già accennato, nelle spedizioni commerciali marittime erano insiti aspetti bellici.

La composizione dei caratteri della nobiltà pisana è quanto mai eterogenea: si possono trovare consorterie nobiliari con vasti beni nel contado, come i Gherardesca o gli Upezzinghi, o più legate alla dimensione cittadina come i Lanfranchi, i Sismondi o i

(23)

Gualandi; casate che scelsero di legare le proprie fortune a quelle del comune come altre che optarono per un confronto aperto per mantenere intatte le proprie prerogative e le proprie giurisdizioni, magari allineandosi simbolicamente al fianco dello schieramento ideologico guelfo. L’attenzione ai privilegi e alle tradizioni che la nobiltà percepiva come fondanti della propria identità certamente creò problemi nella convivenza con gli ordinamenti comunali. Per esempio l’insistenza nello svincolarsi dalla giustizia ordinaria, dato che l’affidarsi a essa era considerato disdicevole, per perseguirne una propria era considerato a ragione particolarmente nocivo per la pace della vita cittadina, e motivo di imbarazzo per il comune, impegnato com’era a cercare un consolidamento della propria autorità sopra ai particolarismi24. Ciò contribuì a costruire l’immagine consueta del nobile violento e prepotente. D’altronde, come notato prima, la reticenza dell’aristocrazia nell’impegnarsi nelle nuove forme di commercio (pur con qualche eccezione significativa) rappresentò un impaccio non solo economico ma anche politico, visto che si alienava sterminate possibilità di costruire fruttuose relazioni interpersonali con i rampanti operatori commerciali in ascesa. Ma nonostante quanto detto il datato topos storiografico di una nobiltà che nel XIV secolo si presentava pressoché rovinata economicamente non trova che riscontri parziali nella realtà: gli studi di Cristiani e Tangheroni a questo proposito mostrano una certa vitalità finanziaria per una parte cospicua delle consorterie nobiliari25,

anche se essa da questo punto di vista non poteva competere con le ricche famiglie di popolo.

Pur mantenendosi sempre distinta dal partito popolare, l’aristocrazia non mancò di partecipare attivamente e con costanza al governo del comune, ritagliandosi mano a mano spazi rilevanti nei quadri delle istituzioni cittadine. Essi fin dall’inizio ebbero facoltà di partecipare, oltre che al tradizionale consiglio del Senato, al Consiglio della Credenza e alle commissioni dei Savi. A partire dalla fine del Duecento si arrivò a quella che si può definire una “divisione dei compiti”26: in virtù dei loro vasti interessi fondiari nel territorio

soggetto a Pisa fu garantita agli esponenti dei nobili una porzione rilevante dei compiti di amministrazione comunale nel contado, assegnando spesso loro le Capitanie del contado (l’ufficio di Castellano era invece appannaggio quasi esclusivo degli appartenenti al Popolo), nel quadro di un programma di centralizzazione del dominio comunale sul comitato. Date le loro attitudini guerresche non di rado poi vennero scelti per uffici militari. Loro prerogativa fu poi un ruolo considerevole nella composizione delle

24 E. Cristiani, Nobiltà e popolo, pp. 82-83

25 M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura, cap. I. 26 Alma Poloni, Trasformazioni della società, p. 184.

(24)

ambasciate: un nobile e un giurista erano di norma presenti fra il consueto gruppo di tre ambasciatori del comune. Ciò principalmente perché le grandi consorterie nobiliari pisane continuavano a mantenere rapporti con altre casate extracittadine in nome del comune ghibellinismo; quest’ampiezza di relazioni comportava un tessuto di rapporti e contatti che li rendeva strumenti inestimabili per questo tipo di compito. Il fatto di avere a disposizione un seguito armato di fedeli rappresentò, qualora i nobili fossero stati in buon rapporto col comune, un vantaggio per gli affari cittadini. Secondo gli statuti i contingenti armati delle consorterie dovevano agire in caso di disordini in consonanza con le Compagnie di Popolo comandate dal Capitano laddove gli Anziani lo disponessero, e dovevano servire con il loro Signore nell’esercito cittadino. Come è stato notato spesso lo stesso Capitano del Popolo poteva essere scelto tra il ceto dei milites27, segno ulteriore del legame dei nobili con l’esercizio di attività belliche. Senza spingersi a fare proprie le tesi del Cristiani relative a una sostanziale fusione della classe dei milites con il ceto dirigente popolare si può dire che la nobiltà continuò ad avere un ruolo non trascurabile nella politica del comune. Essa rivestì inoltre nel periodo preso in esame da questo lavoro incarichi che tradizionalmente le erano estranei: troviamo un rappresentante della consorteria degli Scorcialupi nel ruolo di Camerlengo28. Il divieto, in apparenza ferreo, di accedere

all’anzianato fu diverse volte bypassato.

La stessa ascesa dei Donoratico alla signoria non sarebbe stata possibile senza contatti con le famiglie popolari che potessero legittimare la loro egemonia. Per scegliere solo un esempio fra i molti possibili che mostrino come i nobili potessero ascendere ai massimi vertici del governo popolare, si noti come i Della Rocca, nonostante fossero un’antica famiglia aristocratica proveniente dalla Maremma, arrivassero a ricoprire un ruolo fondamentale nelle vicissitudini di Pisa ben dopo la fine della Signoria dei Donoratico. Non è un caso che la suddetta famiglia avesse scelto di instradarsi verso il cammino della mercatura, e non fu l’unica: i Malpigli si diedero al commercio e all’attività bancaria, e anch’essi poterono dire la loro in ambito politico, sebbene non in un ruolo di primo piano. Sembra comunque che i Della Rocca mantenessero intatta la loro natura bellicosa, continuando ad esercitare con passione l’arte della guerra: nel 1355, durante la prima discesa di Carlo IV, Ludovico della Rocca, per fare un esempio, guidò i Raspanti nei tumulti che portarono al rovesciamento dei Bergolini. Partecipò poi al rovinoso conflitto del 1362-64 contro Firenze, e lo troviamo poi impegnato a guidare le truppe pisane a San

27 E. Cristiani, Nobiltà e popolo, p. 100.

28 Troviamo attestato in questa carica un esponente di questo gruppo familiare nell’aprile del 1369: si veda

(25)

Miniato in qualità di Capitano di guerra del comune nel tempo della seconda discesa dell’imperatore. Dopo la cacciata dei Raspanti nell’aprile del 1369 si unì alle truppe imperiali nella rappresaglia contro Pisa, partecipando ai combattimenti intorno alla porta del Leone.

Alcune famiglie nobiliari comunque effettuarono un passaggio ufficiale dalla dimensione nobiliare a quella popolare. Queste consorterie, come i da Scorno (del quale segnaliamo en passant un posto importante tra i supporter del primo regime Bergolino), avevano già punti di contatto sostanziali con i populares soprattutto per quanto riguarda le attività economiche e la struttura familiare, e questa “conversione” si rivelava cruciale per portare avanti un certo tipo di impegno politico29. Le grandi casate cittadine d’altronde non avevano motivo per operare un passo del genere, in virtù della grande influenza che continuavano ad esercitare, ma anche per una questione di mentalità e di identità, che continuava a esercitare un influsso non indifferente in famiglie prestigiose come i Lanfranchi o i Gualandi. Esse continuarono con una strategia che per quanto riguarda l’ambiente pisano rimaneva una loro prerogativa: il controllo della vita ecclesiastica cittadina, in particolare per quanto concerne il Capitolo della Cattedrale30.

Aristocratici e popolari continuavano a convivere su un piano separato, con i primi relegati sostanzialmente a uno stato subalterno, ma un dialogo e una partecipazione erano sempre possibili. Ciò si può mettere in relazione con un cambio della mentalità dell’aristocrazia: il suo prestigio ora si identificava anche con il ricoprire cariche comunali. Una prova di questa separazione si ha durante la signoria di Gherardo di Donoratico: il suo casato ottenne lo status di popolari ad honorem: essi non erano dei veri e propri popolari, ma erano investiti dei privilegi e delle tutele di cui godevano gli appartenenti al Popolo; spia del fatto che il popolo continuava ad avere una forte coscienza di sé e che i nobili persistevano a porsi o ad essere posti su un piano di alterità, nonostante i continui contatti nella gestione governativa. La convivenza fra questi due poli di potere fu periodicamente contraddistinta da gravi tensioni, anche per il permanere di una forte differenziazione sociale e politica. Congiure e tumulti continuarono ad essere un modo per i nobili per promuovere un cambiamento politico, evidenziando così il loro attaccarsi a vecchi modi di intendere il contrasto politico e istituzionale. Non è un caso che nella prima metà del XIV secolo, con l’eccezione del 1347, nel quale comunque parteciparono attivamente ai tumulti, furono immancabilmente delle consorterie aristocratiche a promuovere disordini che turbarono lo status quo dell’egemonia dei Donoratico, segno aggiuntivo della frattura

29 G. Ciccaglioni, Poteri e spazi politici, pp. 177-178. 30 M. Ronzani, Fuoriusciti o figli del comune, pp. 773-827.

(26)

profonda in seno alla nobiltà che fu causata dall’ascesa di questa casata ai vertici del comune. Ma gli aristocratici di rado parteciparono alle lotte comunali costituendo un partito coeso nel perseguire i propri interessi di “classe”, bensì scegliendo di volta in volta uno degli indirizzi politici senza che essi avessero come obiettivo un rovesciamento delle istituzioni popolari in quanto tali o un miglioramento delle condizioni politiche dell’aristocrazia. In pratica lo scontro politico non assunse mai i toni di un conflitto di classe tra aristocratici e popolari.

1.3

LA FISIONOMIA ISTITUZIONALE

Il 28 Luglio del 1254, data con cui si pone l’inizio del comune popolare (con ogni probabilità dopo lunghe lotte con i tradizionali vertici del potere), appare menzionata per la prima volta la carica degli Anziani del popolo. Il collegio degli Anziani può essere descritto come la magistratura cardine del comune di Popolo pisano, il vertice della piramide del governo comunale qualora non fosse presente un signore alle redini del comando nella città turrita. Le loro facoltà erano particolarmente ampie: nominavano personalmente non soltanto i membri del Consiglio del Popolo, ma, tra gli altri, anche i Senatori e i Consiglieri della Credenza, slegati dal consiglio del popolo. Prerogativa degli Anziani era anche quella di comporre le Commissioni di Savi. Quindi ogni organo consiliare era diretta emanazione degli Anziani. Inoltre era loro compito nominare gli ambasciatori e i principali ufficiali preposti all’amministrazione cittadina: camerlenghi, soprastanti alle gabelle, doganieri e tutti gli ufficiali del contado. Infine non era raro che gli Anziani fosse concessa una balìa, cioè la facoltà di deliberare pienamente su una determinata questione in totale autonomia senza il consiglio o la ratifica degli altri organi comunali, con il previo consenso di una commissione ad hoc di 100 savi. Non sorprende quindi che l’accesso all’anzianato sia stata un’ autentica conditio sine qua non per chi avesse voluto porsi nei ranghi più alti dell’amministrazione cittadina, e che la modalità di elezione sia stata terreno di scontro nell’agone politico pisano.

Essi erano eletti su base geografica: ne venivano scelti tre per ogni quartiere, e rimanevano in carica per un bimestre. Fino al 1307 l’elezione degli Anziani non fu fissata in maniera definitiva, cosa che probabilmente portava a un sistema aperto, “consociativo”, in cui la spartizione del potere e la contrattazione incessante costituivano la cifra della vita

Riferimenti

Documenti correlati

Successivamente alla trattazione teorica e generale della materia (impatti del turismo, in particolare nelle aree naturali, e bisogno di un approccio sostenibile, possibile

Possiamo concludere: nella fase della seconda Repubblica il tema dominante, nel rapporto, tra potere politico e potere giudiziario fu la progressiva compromissione

L’evoluzione della sede centrale alla fine degli anni ’50 153 3. L’assetto in Dipartimenti e Corsi di Laurea

Libro 1-LETTERE.indb 5 03/09/13 14.57.. 766 del 30 novembre) che “… Qualora il consiglio di facoltà, …, superi il numero di cinquanta membri, può delegare determinate materie

Un cubo di uguale massa è appoggiato sul piano inclinato a fianco del cilindro, dal lato corrispondente alla pendenza crescente come in Figura 5.109.. Il cubo è libero di strisciare

La somma delle forze applicate a ciascun cilindro in direzione perpendicolare al piano

Il carretto è appoggiato su un piano inclinato di un angolo θ rispetto all’orizzontale, ed è immerso in un campo gravitazionale

Alvise Sommariva Metodi iterativi per la soluzione di sistemi lineari 4/ 7.. Quante