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Il vicariato imperiale su Pisa, Marquardo di Randeck e Gualtieri d

Nel documento La seconda discesa di Carlo IV a Pisa (pagine 166-200)

In questo capitolo cercheremo di chiarire come i due agenti dell’imperatore, Marquardo di Randeck e Gualtieri di Hochschlitz si inserirono e operarono, anche giuridicamente, nell’ambito del comune pisano nell’occorrenza della seconda discesa imperiale tenendo presente i loro trascorsi precedenti con la città tirrenica, e di gettare luce sulla questione del vicariato imperiale nel periodo stesso. Problemi questi che meritano una trattamento minuzioso e delicato date le implicazioni che ne derivano per il lavoro che state leggendo.

Caturegli indica che a Gualtieri di Hochschlitz venne di nuovo assegnato l’ufficio di vicario imperiale, come era stato fino a circa cinque anni prima431. Se ciò potrebbe essere ipotizzato da un punto di vista informale, intendendo che Gualtieri fungesse da cinghia di trasmissione tra il volere di Carlo e la sua esecuzione nella città pisana (sulla qual cosa c’è comunque da discutere), è però sicuramente errato dal punto di vista giuridico. Come ha fatto notare Pauler432 i due ecclesiastici ricoprirono cariche ben diverse: Marquardo era Capitano di Toscana (il titolo preciso era di “Capitaneo in tota Tuscia pro cesarea maiestate”433, ricorrente nella documentazione comunale con alcune sporadiche

modifiche434), mentre Gualtieri fu scelto dall’imperatore nella carica di Capitano della città di Pisa e del suo contado435. Lo studioso tedesco però, come abbiamo già detto, nella sua trattazione sintetica della seconda discesa imperiale non trattò accuratamente la questione, il cui approfondimento è nostro compito.

Prima di intraprendere il suo secondo viaggio verso la penisola, Carlo nominò come vicario imperiale per la città di Pisa Giovanni dell’Agnello, probabilmente dopo una lunga negoziazione che coinvolse anche Marquardo di Randeck e un congruo pagamento436.

L’imperatore quindi agì in linea con la consuetudine dei sovrani nel XIV secolo da Enrico VII in avanti, confermando e anzi legittimando nelle loro posizioni diversi signori italiani. Fino ad allora le varie signorie italiane si erano prevalentemente appoggiate sulle istituzioni comunali per dare legalità al proprio potere. L’attribuzione del titolo di vicario andava sicuramente a vantaggio del signore, che otteneva infatti di svincolare l’esercizio

431 N. Caturegli, La signoria di Giovanni dell’Agnello, p. 193. 432 R. Pauler, La signoria dell’imperatore, p. 138.

433 Ad esempio in ASP Com A 143 f. 21.

434 Si veda ad esempio la dicitura “in tota Tuscia Capitaneo generalis” presente in ASP Com A 143 f. 2. 435 ASP Com A 143 f. 25: “Capitaneo civitatis pisane eiusque comitatis fortie et districtu pro Cesaria

maiestate. Anche per Gualtieri l’intitolatura presenta qualche modifica non sostanziale tra documento e documento.

436 Pauler pone la data della nomina nella prima metà dell’agosto del 1368; La signoria dell’imperatore, p.

del potere dai condizionamenti della politica cittadina e di legittimare la sua preminenza con il richiamo alla massima carica temporale come fonte di autorità, ma anche dell’imperatore che vedeva ribadito il riconoscimento del proprio potere sul territorio sottoposto al vicariato. I signori però agivano in funzione di rappresentanti dell’impero, e non come agenti diretti delle politiche del sovrano437. Lo stesso Carlo aveva agito in maniera similare nei confronti del signore di Padova Francesco da Carrara438 quindici anni prima, e anche nella seconda discesa agì in questo modo con Guido e Luigi Gonzaga, nominati vicari imperiali di Mantova439.

Nel caso specifico del vicariato conferito a Giovanni dell’Agnello teoricamente le cose si sarebbero potute configurare in maniera del tutto diversa: il Doge, in quanto rappresentante della giurisdizione imperiale, si sarebbe ancor di più allontanato dal panorama istituzionale del comune come scenario dal quale ricavava la propria autorità, allontanandosi ancor di più dalle limitazioni che da esso conseguivano. Inoltre limitò, in maniera, come abbiamo già avuto modo di vedere, comunque labile, il potenziale destabilizzante che la discesa imperiale comportava per la stabilità del proprio potere: l’opposizione cittadina si preparava già a sfruttare l’opportunità per cacciare quello che agli occhi del diritto dell’impero era un usurpatore. Carlo dal canto suo si assicurava la collaborazione di un personaggio già conosciuto e apprezzato dai suoi associati. In più la delicata posizione in cui versava il dogato poteva garantire all’imperatore che Giovanni dell’Agnello seguisse obbedientemente le sue richieste, ottenendo ben più che un semplice riconoscimento formale della sua autorità. Il vicariato imperiale addizionalmente aveva valore solo in caso di assenza dell’imperatore dall’Italia: qualora egli fosse presente fisicamente nel luogo il titolo era spogliato di ogni valenza pratica. La nomina di Marquardo a Capitano Generale di Toscana, avvenuta prima che l’imperatore stesso mettesse piede nella regione, poneva poi il Doge in subordine a costui. Ciò aiuta a valutare il comportamento in apparenza passivo del Doge nei confronti delle iniziative del Patriarca di Aquileia illustrate nei capitoli precedenti, che lo posero in una situazione difficile. Il signore di Pisa non si poteva opporre al rappresentante dell’imperatore, suo superiore: una ribellione non lo avrebbe aiutato, esponendolo sia alle ritorsioni imperiali sia alla reazione della cittadinanza pisana. Il titolo di Vicario imperiale, con la presenza di Marquardo nell’area, non era nient’altro che un riconoscimento onorifico che non dava alcun beneficio immediato a Giovanni dell’Agnello.

437 A. Zorzi, Le signorie cittadine in Italia, pp. 88-89. 438 M. Villani, Cronica, libro IV, p. 193.

Con la caduta del Doge si aprì un problema di difficile risoluzione per l’impero e per il comune pisano: l’esautorazione del Doge, confermato da Carlo alla testa del comune pisano in veste di vicario, rappresentava un’infrazione nei confronti dell’autorità imperiale. D’altronde l’imperatore non aveva motivo di risentirsi troppo, poiché il comune di Pisa e i suoi nuovi capi avevano bisogno dell’appoggio imperiale per mantenersi saldi. A riprova di quanto detto c’è quella sorta di sanzione formale che Marquardo diede alla rivolta e alla deposizione di Giovani dell’Agnello, andandosi ad installare nel palazzo del Doge. La cacciata del Vicario non rappresentò quindi un’autentica ribellione contrò l’autorità imperiale, e l’atteggiamento di Carlo si volse verso la realpolitik accettando il fatto compiuto, anche se la perdita di un “uomo forte” a Pisa, quale avrebbe potuto essere per il sovrano (che con ogni probabilità non sapeva in dettaglio la situazione del Doge) Giovanni dell’Agnello, rappresentò senza dubbio una fonte di disturbo per la sua strategia. Come abbiamo detto, un comune pisano instabile comportò l’assenza quasi totale dell’imperatore della città, sia fisicamente che politicamente, poiché egli virò decisamente verso Lucca. Tornando alla questione, il problema che si era presentato era di natura tanto giuridica quanto pratica: quando i maggiorenti Raspanti chiesero all’imperatore che venisse reinstaurata la forma di governo antecedente al dogato, questi tentennò a causa dei patti ancora esistenti con il dell’Agnello, ancora formalmente Doge e vicario imperiale. L’impasse cessò il giorno immediatamente seguente con la rinuncia da parte dell’ormai ex signore di Pisa ai suoi titolo, e Carlo poté dare la benedizione al rinnovato ordinamento costituzionale del comune pisano.

Che ne fu quindi del vicariato imperiale? Esso passò direttamente nelle mani degli Anziani, in quanto apice della macchina governativa comunale. Già il 10 settembre, ovvero tre giorni dopo la rinuncia del Doge e due giorni dopo la loro elezione, nella documentazione essi si fregiavano del titolo di Vicari imperiali440. Sebbene non sia rimasta traccia di un diploma con cui Carlo conferì il titolo, la trasmissione della carica di vicari imperiali però non dovette avvenire automaticamente: l’imperatore, quando autorizzò l’elezione del collegio anzianale e la riforma delle tasche, sicuramente rispose affermativamente ad una precisa richiesta da parte dei rappresentanti comunali. Era infatti impossibile che essi si appropriassero dell’ufficio senza un preciso consenso imperiale. La mancanza di un dispositivo ufficiale dell’impero con cui si dava il vicariato agli Anziani può essere spiegato con un buco più che probabile nella conservazione della documentazione, oppure col fatto che la nomina fosse stata solo a voce, cosa che

rifletterebbe la sicura provvisorietà della situazione: concesso solamente in forma orale, il vicariato aveva certo un’ importanza giuridica non paragonabile rispetto alla stessa carica rilasciata con un diploma. Di notevole importanza il fatto che gli Anziani fossero investiti del vicariato solo per la città di Pisa: al contrario di quanto avvenuto nelle occasioni precedenti, quando le due città erano rette da un solo vicario, ora il comune lucchese veniva separato nell’inquadramento del territorio operato dall’imperatore. Fra le ipotesi possibili per spiegare questa decisione si può avanzare la possibilità già presente da parte dell’imperatore di liberare Lucca, oppure che egli volesse semplicemente un’amministrazione più efficace per la città da parte di un suo diretto dipendente, anche se ciò significava urtare la sensibilità dei dominatori pisani.

È utile ribadire che il vicariato imperiale, nel frangente della presenza fisica dell’imperatore e dei suoi collegati nel territorio, non aveva valenza pratica, e se a lungo termine Carlo voleva mantenere un’effettiva influenza sul comune era obbligato a prendere un provvedimento in proposito. Il sovrano agì effettivamente così in occasione della prima discesa: durante la sua permanenza in Italia conferì il vicariato imperiale su Pisa e Lucca agli Anziani pisani441 (ricordiamo che l’egemonia di Francesco Gambacorta sul comune pisano derivava non da una signoria a tutti gli effetti ma in maniera informale attraverso la carica di Soprastante alle masnade), per poi lasciare in città Marquardo di Randeck in qualità di luogotenente, conferendogli successivamente in un momento non specificabile il vicariato442, passando quindi sopra alla parola data precedentemente agli Anziani. Del resto

già mentre l’imperatore era assente da Pisa tra il febbraio e il maggio del 1355 Marquardo agì con la suddetta dignità di luogotenente dell’imperatore, mentre in contemporanea gli Anziani mantenevano il titolo di vicari imperiali443. Carlo quindi giocò quindi con sottigliezze e cavilli giuridici: inizialmente mantenne gli Anziani nelle vesti di vicari affiancandogli un suo diretto dipendente che doveva virtualmente operare in consonanza con il comune. Ma come ha credibilmente argomentato Pauler, è ipotizzabile che anche in questo caso il vicariato avesse valore effettivo durante l’assenza di Carlo dall’Italia444, con

le implicazioni di cui abbiamo già scritto. Gli Anziani mantenevano la titolatura onorifica, utile per legittimare la propria posizione in un momento di instabilità per il comune mentre

441 R. Pauler, La signoria dell’imperatore, pp. 35-37.

442 Una prima attestazione in proposito si trova il 22 novembre del 1355, quando il comune pagò una somma

di denaro per riparare il palazzo dove risiedeva il vicario imperiale: ASP Com A 123 f. 9’. Marquardo di Randeck è poi precisamente indica mento come vicario del “serenissimo principe” qualche giorno dopo in ASP Com A 123 f. 20.

443 R. Pauler, La signoria dell’imperatore, p. 49. 444 R. Pauler, La signoria dell’imperatore, p. 52.

il vero rappresentante imperiale, colui che eseguiva il volere di Carlo, era Marquardo445.

Comunque né il Patriarca di Aquileia né il nipote rivestirono l’incarico di vicario imperiale per Pisa e sarebbe fuorviante parlare di vicariato per le azioni e le competenze da costoro svolte nell’ambito del comune nell’ambito della seconda discesa. Non è comunque da escludere che in un certo momento Marquardo sia stato investito di un ufficio vicariale: una provvisione degli Anziani riguardante un pagamento arretrato dovuto dal miles Francesco Zaccio per il periodo in cui egli era podestà di San Miniato, vale a dire fino al gennaio del 1369, riporta che i balestrieri a cui egli aveva distribuito il soldo si trovavano colà per gli ordini del vicario imperiale Marquardo di Randeck446. Questa è però l’unica attestazione in tutta la documentazione del periodo a riguardo di una tale carica riguardo al Patriarca, e comunque la vaghezza del titolo usato nella disposizione non aiuta a far chiarezza su quale fosse l’area di competenza di tale titolo. Sicuramente non Pisa, in quanto è da escludere che vissero due vicariati imperiali coesistenti. Si può quindi avanzare l’ipotesi che Marquardo sia stato in un dato momento il Vicario imperiale di San Miniato, il luogo a cui si riferisce la disposizione degli Anziani, o che egli fosse stato scelto per il compito di Vicario di tutta la Toscana prima che il Cardinale Guy de Boulogne fosse stato investito definitivamente della carica.

Carlo seguì in sintesi un pattern non troppo dissimile alla sua esperienza precedente a Pisa in occasione della sua seconda discesa: gli Anziani erano sì vicari imperiali a pieno titolo, ma questa era solo un’onorificenza che aveva limitate ripercussioni pratiche sul loro governo. Ad avere l’ultima parola erano gli agenti diretti dell’impero. A differenza della precedente evenienza gli ufficiali del sovrano con cui il comune doveva fare i conti erano addirittura due, ed essi avevano competenze nettamente diverse. Prima però di analizzare in dettaglio la giurisdizione e l’operato di Marquardo di Randeck e di Gualtieri di Hochschlitz in questa occasione sono opportuni dei cenni riguardo ai loro rapporti con Pisa durante la supplenza dell’imperatore. Tra il 1355 e il 1362 essi infatti rappresentarono gli strumenti per il felice compimento del disegno di Carlo di porre Pisa sotto l’influenza diretta dell’impero, agendo in qualità di rappresentanti diretti della sua autorità e guadagnando poteri ben più che nominali.

445 Interessante notare in inciso come fra le funzioni dell’allora vescovo di Augusta ci fosse quella “ad

conservationem quietis et status civitatis Pisarum”. Non può sfuggire la rassomiglianza tra il lessico usato da Marquardo e la carica di “Conservator” di cui abbiamo già avuto modo di parlare. Che Marquardo avesse prerogative simili a quelle condotte da tale ufficiale lo si vede quando egli soffocò una ribellione il 29 marzo (R. Sardo, Cronaca di Pisa, pp. 117-118). Il prelato fu particolarmente effettivo anche in quanto poteva contare sugli uomini del seguito imperiale, sottoposti direttamente non al comune ma allo stesso Marquardo.

Sostanzialmente gli imperatori, quando sceglievano di nominare un vicario imperiale per una data località, avevano di fronte un numero limitato di scelte: potevano nominare in tale carica un forestiero avulso dal contesto cittadino, oppure potevano conferire l’ufficio a un abitante della città che occupava una posizione di predominio. Una scelta ulteriore poteva essere rappresentata da un signore di una città vicina che nutriva mire espansionistiche verso il comune di cui era stato investito vicario 447. Carlo seguì per Pisa le prime due strade, eleggendo sia elementi estranei al comune sia, in seconda battuta, il Doge Giovanni dell’Agnello. Queste scelte avevano i loro pro e contro. Abbiamo già detto come nel riconoscere come vicario un signore cittadino spesso un’ imperatore si accontentasse di veder riconosciuta solamente un attestazione di fedeltà senza però avere voce in capitolo nel governo cittadino. Nel caso di uno straniero eletto a discrezione dell’imperatore invece, questi avrebbe seguito indubbiamente le istruzioni che da questi venivano trasmesse, amministrando la città a seconda del volere del sovrano a cui era sottoposto bilanciandosi nella lotta tra le parti. Per converso se veniva scelta una personalità inadeguata l’imperatore correva il rischio di vedere un vicario poco energico senza alcuna autorità effettiva, risucchiato tra i giochi del potere del comune o che addirittura si trovava impossibilitato ad esercitare la propria carica, in particolare in città percorse da un forte sentimento anti-imperiale come Firenze.

L’imperatore boemo, a differenza del suo ben più ambizioso nonno Enrico VII, che inizialmente provò ad inserire tutta l’Italia centro-settentrionale in una rete organica di dominio inquadrata da ufficiali di sua fiducia, si giocò la carta di un suo diretto fedele nel vicariato imperiale solo in città dal particolare valore strategico e in cui si poteva aspettare un realistico tornaconto di autorità e potere a lungo termine. In Toscana questo fu il caso di Pisa e Siena. Se in quest’ultima il progetto fallì in entrambe le sue discese448, ebbe

senz’altro più fortuna nel comune tirrenico.

Gli uomini che aveva scelto per il compito seppur originari d’oltralpe avevano compiuto i loro studi nella penisola, e quindi avevano una certa conoscenza dei meccanismi e degli equilibri comunali449. Già Marquardo nella sua breve esperienza pisana (essa terminò infatti nel novembre del 1356, dopo essere stato fatto prigioniero dai Visconti, in conseguenza di una pesante sconfitta militare) ebbe modo di esercitare un certo grado di autorità in città. Egli venne inquadrato nell’organigramma delle istituzioni comunali e gli Anziani si premurarono di delimitare in maniera puntuale il suo potere, nominandolo

447 Si veda G. de Vergottini, Vicariato imperiale e signoria, pp. 613-636. 448 Si veda Donato di Neri, Cronaca Senese

Capitano ma avocandogli formalmente ogni giurisdizione su Lucca e limitando i suoi compiti nella sfera finanziaria, istituzionale e militare: lontano l’imperatore, cioè colui che aveva in pratica imposto la sua presenza, c’era bisogno di inserire coerentemente Marquardo nello scenario delle istituzioni, regolarizzando il suo ruolo. Ciò rispondeva ad una duplice esigenza: Pisa, trovandosi nelle condizioni di dover accettare l’ufficiale imperiale in città, manteneva con un’elezione a tutti gli effetti le proprie prerogative di libertà e indipendenza legittimando giuridicamente attraverso la propria volontà e i propri poteri la presenza del vescovo di Augusta. Quanto detto trova una corrispondenza anche con lo schema a suo tempo individuato da De Vergottini, secondo il quale un’accettazione senza alcun vincolo di un vicario imperiale da parte di un comune si aveva soltanto in caso della presenza fisica dell’imperatore, mentre quando quest’ultimo è assente per poter vedere riconosciuta la sua autorità il vicario doveva ricevere un’investitura anche dal comune450. Quindi anche Marquardo, essendo assente la fonte primaria da cui veniva la sua legittimità, accettava di sottoporsi al processo rendendo così più forte la sua posizione nel comune straniero. Similmente si comportarono a loro tempo suo nipote Gualtieri e il comune stesso. Così si spiega l’ambigua natura doppia delle competenze dei due ecclesiastici, al contempo ufficiali del comune, da esso stipendiati e ad esso giuridicamente legati, e al contempo agenti diretti dell’imperatore. Essi poi nelle provvigioni comunali erano menzionati sia con la qualifica “comunale” di Capitani sia con quella di Vicari imperiali, come se volessero far risaltare più una competenza sull’altra a seconda delle circostanze451.

Come si tradusse all’atto pratico questo escamotage? Tenendo presente quando detto a proposito di come gli Anziani tentassero di limitare fortemente i poteri di Marquardo, e il fatto che la tradizionale organizzazione politica del comune non era in alcun modo intaccata, si potrebbe giungere alla conclusione di Caturegli secondo il quale Marquardo altro non fosse che una figura di prestigio la cui unica funzione era quella di tenere in vita un regime raspante tramite il richiamo all’autorità imperiale452. È vero che i Raspanti

detenessero il predominio nel comune (d’altronde così era stato stabilito in pratica dopo l’abbattimento dei Gambacorta), ma ciò non significa che Marquardo fosse una marionetta nelle loro mani. Il Vicario in realtà si tuffò con vigore nella vita politica pisana, guadagnando voce in capitolo in politica estera ma anche nell’elezione degli ufficiali e

450 G. De Vergottini, Vicariato imperiale e Signoria, p. 631. 451 M. Ronzani, L’imperatore come signore della città, p. 138. 452 N. Caturegli, La signoria di Giovanni dell’Agnello, p. 9.

nelle questioni finanziarie453. La sua autorità gli alienò parte delle simpatie di cui godeva

tra la popolazione. Se i Raspanti furono soddisfatti tanto da eleggerlo alla scadenza del mandato nel febbraio del 1356 “libero singniore di Pisa et del chontado”454, ciò non fu

affatto motivo di compiacimento per il conte di Montescudaio, Paffetta, che era tra le figure più importanti e prestigiose di Pisa e che nutriva aspirazioni di governo personale. Egli congiurò per abbattere l’ecclesiastico ma l’intrigo fu scoperto ed ebbe conseguenza la

Nel documento La seconda discesa di Carlo IV a Pisa (pagine 166-200)