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Giovanni dell’Agnello e Pisa dalla fine del dogato alla partenza di Carlo

Nel documento La seconda discesa di Carlo IV a Pisa (pagine 142-166)

In questo capitolo verrà trattato una questione riguardante i fatti di Pisa nell’occorrenza della seconda discesa imperiale, la cui importanza è stata grandemente sottovalutata negli studi storiografici che via via si sono succeduti sull’argomento: il persistere di una marcata influenza nello svolgimento della vita politica del comune da parte di Giovanni dell’Agnello dopo l’abbandono forzato della sua carica. Prima di addentrarci nella trattazione di questo problema storico sarà opportuno dedicare una certa attenzione ai caratteri del suo dogato. Le peculiarità di questa esperienza storica sui generis per la realtà pisana sono state per prime (e si può dire in maniera quasi esclusiva) affrontate dal già citato lavoro di Natale Caturegli, che risente però di quell’impostazione storiografica di derivazione volpiana i cui tratti salienti sono stati come abbiamo visto progressivamente messi in discussione con il passare degli anni. Dopo molti decenni un primo organico tentativo di riconsiderare sotto una nuova ottica l’esperienza signorile del dogato è stato compiuto da un saggio breve ma denso di spunti di Alma Poloni, meritevole di essere approfondito in un lavoro di più ampio respiro sull’argomento.

Giovanni dell’Agnello proveniva da una famiglia trasferitasi in città dal contado (più precisamente dalla Marittima) in un periodo non ben definito tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo323. Impegnata in attività mercantili, essa entrò a far parte del panorama politico del comune di popolo alla fine del XIII secolo. Per Giovanni, figlio di Cello, si può intuire una carriera fedelmente all’insegna della parte raspante: dopo i primi anzianati nel periodo del giovane Conte Ranieri, si eclissa dalla politica nel periodo della preminenza del duumvirato di Francesco Gambacorta e Cecco Alliata, per poi ricomparire nei quadri amministrativi del comune dopo la loro caduta. Per quanto riguarda le attività commerciali dei dell’Agnello è particolarmente significativa una delibera degli Anziani: nel 1358 Giovanni viene riportata la notizia di una ruberia da lui subita di 72 balle di lana compiuto ai danni di una sua galea da parte dei fiorentini a Talamone, su cui doveva fare luce l’allora Conservatore del buono e pacifico stato, Rosello di Arezzo324. Egli era dunque impegnato nel commercio della lana a largo raggio risultando al contempo come facente parte della classe armatoriale . Il vecchio indirizzo storiografico pretendeva di isolare l’uno dall’altro

323 N. Caturegli, La signoria di Giovanni dell’Agnello, p. 57. 324 ASP Com A 128 f. 104.

questi due ceti, impegnato in una politica di tutela della propria industria e antifiorentino l’uno, e necessariamente favorevole ai fiorentini e quindi Bergolino l’altro. Giovanni quindi apparteneva a quel profilo di mercante internazionale che ancora nella seconda metà del XIV secolo continuava a ricoprire una certa importanza nel panorama commerciale pisano. L’episodio summenzionato, che si inserisce nella disputa commerciale con Firenze per l’uso di Porto Pisano, potrebbe anche aver contribuito ad alimentare l’avversione che Giovanni dell’Agnello nutriva nei confronti del comune gigliato. Ulteriori conferme della vocazione ai traffici internazionali vengono dai contatti che la famiglia aveva intrapreso con la Tunisia325, con la Sardegna326, e che lo stesso Giovanni manteneva nel mezzogiorno327 e a Genova328.

Proprio il cenno alla città tirrenica ci permette di ricollegarci al percorso politico del nostro uomo: proprio a Genova egli compì per conto del comune la prima di tante ambasciate (Napoli, ma anche la stessa Firenze), entrando in contatto con il Doge Simone Boccanegra; un incontro che colpì profondamente il mercante pisano. All’attività in delicati uffici di politica estera si aggiunse anche quella che si può identificare come una grande ascesa nelle gerarchie politiche compiuta nel giro di pochi anni, che andò di pari passo con una certa vitalità economica. Già nel 1357 aveva raggiunto una disponibilità economica e una visibilità tale da permettergli di costruirsi un “pulcherrimum

edificium”329 che doveva riflettere l’avvenuto cambiamento di status sociale e le sue vaste

ambizioni politiche. Ambizioni che vengono ribadite con i suoi contributi generosi a varie prestanze, in una delle quali fu colui che si sottopose all’esborso più ingente, nella misura di 200 fiorini330. Si può ben dire che questa larghezza non fosse priva di secondi fini, visto che una mossa del genere era destinata a dargli un’inestimabile “pubblicità” tra i suoi pari. A questo proposito Caturegli segnalò anche le sue ricche elemosine agli ospedali cittadini, rendendolo ben visto al popolo minuto331. Dal punto di vista amministrativo, sebbene rientrasse per la prima volta nel collegio anzianale nel 1359, egli fu comunque un assiduo partecipante nelle commissioni dei savi.

Un passo chiave nella sua scalata al potere fu la sua elezione, coadiuvato da un altro “pezzo grosso”, Masino Aiutamicristo, nella carica di soprastante alle masnade a cavallo, sull’importanza della quale abbiamo già discusso ampiamente. Meno visibili in ottica

325 M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura, p. 148. 326 M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura, p. 116. 327 M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura, p. 95. 328 M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura, p. 100 329 ASP Com A 126 f. 12’.

330 ASP Com A 128 f. 56.

ufficiale ma di uguale importanza sono i cenni documentari che vedono Giovanni dell’Agnello a stretto contatto con il vicario imperiale Gualtieri di Hochschlitz. In particolare il 18 novembre del 1361 è attestato al fianco di quest’ultimo, insieme ad altri insigni rappresentanti dei Raspanti come il citato Masino Aiutamicristo e Bartolomeo Scarso (a cui si aggiunge Colo Alliata, personaggio appartenente ad una famiglia d’indirizzo politico trasversale per eccellenza), nel suggerire agli Anziani una spesa di 100 fiorini e 59 soldi per “fatti segreti e necessari per il comune di Pisa”332. Ai fini del presente

capitolo è utile riportare come Giovanni dell’Agnello facesse parte di un “cerchio magico” in cui era incluso il gotha dei Raspanti, che operava a stretto contatto con il vicario imperiale, e da costui accuratamente selezionato.

Sono opportune quindi delle considerazioni che facciano il punto su quanto detto. Giovanni dell’Agnello appare impegnato attivamente nella promozione della sua persona a più livelli. Dapprima quello simbolico, nell’edificazione di un palazzo sfarzoso (spia anche della sua inclinazione al lusso) che mostrasse alla sua cittadinanza il suo prestigio e il suo potere economico. A questo proposito anche la sua generosità nei confronti sia del comune sia degli strati più svantaggiati della popolazione mirano alla creazione di un’immagine pubblica di un individuo attento e sensibile alle plurime esigenze della città, e che non esita a sciogliere i cordoni della borsa per migliorare le condizioni dell’ambiente in cui vive: quello che oggi si direbbe un filantropo insomma. Non possiamo sapere quanto genuino fosse il suo interesse per queste faccende, ma ciò che è indubbio è il suo ritorno in termini di popolarità che aiutò senza dubbio la sua ascesa ai vertici.

Nello stesso tempo Giovanni non si risparmiò dall’operare in maniera più pratica per il comune allo scopo di favorire le sue aspirazioni. Il suo successo economico lo rendeva un candidato serio per una brillante carriera politica all’interno della fazione di cui è stato dimostrato fosse uno strenuo sostenitore. La sua carriera commerciale presumeva una fitta rete di relazioni extracittadine, che lo resero una scelta naturale per le ambasciate del comune. Queste dovettero confermare le buone credenziali che il dell’Agnello vantava, e gli aprirono le porte per l’accesso ai quadri dirigenziali del comune, nel quale scalò in tempo relativamente breve i ranghi delle gerarchie del partito, entrando in rapporti strettissimi con Gualtieri di Hochschlitz, il quale esercitava poteri che non è azzardato definire signorili all’interno del comune. In sostanza il concorso tra quelle che dovevano essere innegabili capacità politiche insieme ad una spiccata propensione all’avanzamento

332 ASP Com A 135 f. 10’.

individuale, portato avanti anche con una consapevole strategia di promozione della propria immagine delinea il ritratto credibile del futuro Doge.

Dopo la partenza del Vicario imperiale e la rovinosa guerra con Firenze del 1362-64, nell’ambito del quale era da negoziare urgentemente una pace, la classe dirigente del comune decise di cooptare un elemento al suo interno per conferirgli poteri eccezionali, secondo un refrain ormai consueto lungo la storia del basso medioevo pisano. Senza soffermarci troppo sulle circostanze della sua elezione, ci limiteremo a far notare come Giovanni dell’Agnello rappresentasse una scelta abbastanza logica alla luce anche di nuove considerazioni, soprattutto per quanto riguarda la rivalutazione della funzione di Gualtieri di Hochschlitz nell’organismo politico comunale. Come vedremo in dettaglio più avanti333

il ruolo del vicario imperiale (e del suo predecessore Marquardo di Randeck) infatti non fu affatto quello di “stampella” di un debole regime raspante che ne aveva bisogno per mantenersi al potere fornendo però all’ecclesiastico tedesco nient’altro che una labile autorità334, bensì, come ha fatto notare Pauler335, fu quello di un amministratore energico che ricoprì a tutti gli effetti una posizione di tipo signorile. Se si vedono le cose da questo punto di vista, tenendo presente quanto detto sulle strette relazioni intercorse tra Giovanni dell’Agnello e Gualtieri, appare probabile che uno dei fattori che concorse alla decisione dei maggiorenti Raspanti fu quello di cercare tra le sue file uno degli elementi che più si poneva in continuità con la precedente esperienza del vicariato imperiale, interrottasi alla vigilia dello sfortunato conflitto: non solo per la generale positività con cui si ricordavano i trascorsi dell’ecclesiastico tedesco, ma una scelta del genere era conveniente anche in vista di un eventuale elezione di un nuovo rappresentante dell’impero, o di un ritorno dello stesso Carlo, che avrebbero senz’altro visto con favore il governo di quello che appariva come un leale sostenitore della compagine politica imperiale e dei suoi rappresentanti. Se comunque il ritorno dell’imperatore o di un suo luogotenente non fosse apparso verosimile ai pisani, la presenza di Giovanni dell’Agnello al governo avrebbe garantito il beneplacito e il supporto della potenza che risiedeva al di là delle Alpi. La persona era poi dotata di popolarità ed aveva già dato prova di eccellenti capacità politiche, e la sua vicinanza politica a Milano (nel quale aveva compiuto più di un’ambasciata), anche se non si vuole avvalorare la tesi ventilata da Caturegli secondo il quale l’ascesa di Giovanni fosse

333 Passim, pp. 157-161.

334 Per la valutazione data da Caturegli riguardo al periodo del vicariato imperiale si veda La signoria di

Giovanni dell’Agnello, pp. 3-41.

avvenuta con il concorso di Bernabò Visconti336, perché sarebbe risultata gradita in

funzione antifiorentina: principalmente per questi motivi egli sarebbe stato posto a capo del governo pisano.

Se però i Raspanti che lo avevano elevato a Doge credevano di trovare in lui un personaggio in grado di dare equilibrio alla loro parte, di garantire ad essa un’ampia partecipazione agli spazi politici del comune in grado elevato o anche di porsi in continuità con l’esperienza vicariale appena trascorsa, dovettero rimanere non poco delusi. Anche se non è questa la sede per un giudizio organico sul governo dogale, che meriterebbe una nuova, radicale rilettura, si daranno comunque alcuni cenni per contestualizzare gli accadimenti successivi e per cercare di rispondere ad alcuni quesiti: perché all’arrivo di Carlo fosse presente una forte opposizione al signore di Pisa e perché egli continuasse una volta caduto ad esercitare un forte influsso sulla politica pisana.

Il nuovo Doge si rivelò un uomo dotato di una precisa visione politica che mal si amalgamava con la dicotomia fazionale che monopolizzava lo scenario politico pisano, né tantomeno si dimostrò una personalità debole e incline ai compromessi o alla moderazione. Già il titolo che scelse per sé, quello di Doge, fu una novità assoluta nella storia pisana, mutuato dai suoi contatti con la realtà genovese di Simone Boccanegra, che aveva avuto modo di toccare con mano nei suoi precedenti viaggi ufficiali. Il nuovo signore di Pisa si dotò di un apparato simbolico volto ad esaltare i caratteri maiestatici e sacrali della sua carica, mutuati anche dall’impressione suscitata dalla magniloquente rappresentazione dell’autorità imperiale compiuta da Carlo IV nel suo primo soggiorno337. Questa sorta di

culto della personalità non era destinato a rimanere una patina esteriore ma si tradusse anche all’atto pratico in un nuovo atteggiamento politico all’insegna dell’arbitrarietà del potere personale, più simile ai regimi di stampo signorile che già da decenni l’Italia settentrionale aveva sperimentato. I tratti decisamente autoritari del governo dogale si ponevano in netta rottura con le precedenti esperienze signorili succedutesi a Pisa dalla fine del XIII secolo, che si erano inserite più o meno fluidamente nel tessuto istituzionale del comune di popolo. La nuova esperienza signorile del dogato invece tento di porsi in una posizione del tutto nuova nei confronti del panorama politico del comune rodato già da decadi.

Particolarmente significativo a questo proposito fu il trattamento a cui il Doge sottopose la magistratura degli Anziani, che, eccettuato Uguccione della Faggiola (che però

336 N. Caturegli, La signoria di Giovanni dell’Agnello, pp. 65-66. Egli scrive poi a p. 98 che il dogato

“risultava in realtà da un accordo segreto stretto da Giovanni dell’Agnello con Bernabò e Giovanni Acuto”.

proveniva da un contesto estraneo a Pisa), nessuno dei precedenti signori pisani si azzardò a rivoluzionare. Giovanni dell’Agnello invece operò in profondità nell’istituzione simbolo e vertice del comune popolare, limitandone in maniera decisiva l’autonomia: egli si riservò il diritto di eleggere personalmente i magistrati, imponendogli di giurare fedeltà alla sua persona, privando così l’ufficio di qualsivoglia libertà anche formale e trasformandolo in pratica in un suo strumento esecutivo. Pare che anche le cariche comunali fossero diventate suo appannaggio: molti uffici infatti, pur mantenendo la tradizionale estrazione a sorte, nella formula di elezione erano concessi per mandato del Doge e solo in subordine dagli Anziani, mentre alcuni erano assegnati per balia da Giovanni dell’Agnello in totale autonomia338.

Il Doge operava insomma sostanzialmente privo di qualsivoglia vincolo, senza la copertura degli statuti comunali, con balia e arbitrio illimitati, approntando anche un cambiamento del lessico politico: come ha notato Poloni il tono delle sue provvigioni rappresentava un’ulteriore novità, con l’introduzione di verbi dispositivi come “providit,

statuit, decrevit” nei confronti di singoli individui che potevano saltare la complicata trafila

nei consigli cittadini che una petizione avrebbe attraversato per consuetudine, accentuando i caratteri personali del suo governo339. In sostanza Giovanni dell’Agnello si poneva come

un monarca assoluto e non fu un caso che per definire la sua autorità l’anonimo pisano abbia usato il verbo “regnare”340, con tanto di costruzione di un carattere di magnanimità

nei confronti dei più poveri e dei più deboli tipico dell’istituzione monarchica, posto poi in effetto con la concessione graziosa di privilegi ed esenzioni, cosa che dovette donargli un certo supporto tra il popolo minuto.

Un’altra novità introdotta da Giovanni dell’Agnello fu l’istituzione della casa dei Conti, una consorteria artificiale, che ricevette lo status nobiliare da parte di Bernabò Visconti prima e dallo stesso Carlo IV poi. In essa erano riunite quelli che all’epoca della sua creazione dovevano essere i gruppi familiari (in maggioranza ma non tutti Raspanti) dei suoi sostenitori più vicini. Questa iniziativa è stata interpretata come un tentativo di chiusura di stampo oligarchico341 delle istituzioni comunali: all’interno dei Conti si sarebbero dovuti scegliere i futuri amministratori di Pisa, ma in definitiva questa iniziativa rimase priva di conseguenze pratiche, se non quella ipotetica di stuzzicare la vanità dei suoi associati. In linea con il suo indirizzo di stampo signorile fu invece la sua

338 ASP Com A 141 ff. 146-152.

339 A. Poloni, Il trono del doge, pp. 324-326. 340 Cronica di Pisa, p. 303.

equidistanza tra le fazioni pisane, che si esplicò nei giorni immediatamente successivi alla sua elezione attraverso misure di riconciliazione con i Bergolini, che vennero richiamati in città, e che vennero successivamente coinvolti nel governo della città ricoprendo anche alcune cariche prestigiose342.

La sua politica super partes contribuì ad irritare coloro che avevano contribuito alla sua elezione, che avevano già motivo di risentirsi a causa delle promesse che non aveva mantenuto. Secondo il cronista anonimo infatti aveva promesso i posti più importanti nell’amministrazione a coloro che avevano appoggiato la sua ascesa ai vertici, ma ciò venne poi disatteso: ad esempio garantì a Bindaccio Benetti la carica di Vicario e Rettore di Lucca, ma alla fine diede l’incarico al nipote Gherardo, mentre al defraudato andò la carica poco più che cerimoniale di Vicedoge343. Forse più avanti col tempo Bindaccio perse la carica, visto che Sercambi testimonia che al tempo dell’arrivo in Italia di Carlo il Vicedoge era un altro nipote di Giovanni, Lemmo344. Il nepotismo del Doge aveva lo scopo ben preciso di rendere il governo pisano un affare familiare tanto che nell’agosto del 1366 provvide a dinastizzare la carica di Doge facendo eleggere come successori i giovani figli Gualtieri ed Acuto345. I grandi gruppi familiari della borghesia non furono gli unici ad avere motivo di risentimento verso i metodi di governo di Giovanni dell’Agnello. Egli infatti non si fece scrupolo di usare il clero per i suoi fini: la Chiesa cittadina fu sottoposta a tassazione, cosa molto inusuale per Pisa, tanto che una volta esautorato essa chiese un risarcimento ai nuovi capi del comune346. Conferme aggiuntive di questo atteggiamento

verso le istituzioni religiose vengono da alcuni cenni nella documentazione: nel febbraio del 1369 il monastero di San Vito ottenne dal comune 25 fiorini per danni subiti ad opera del Doge347. Nel settembre dell’anno precedente invece gli Anziani imposero a Piero Rau, ufficiale del “proventum” di Lucca, di esentare il clericato di Lucca come era stato fatto prima che venisse istituito il dogato348.

Vi erano altri motivi di dissenso in seno al ceto delle grandi famiglie dirigenti: la pompa (il Doge si circondava di un corteggio di costosi “provisionati” armati che lo accompagnavano in ogni sua uscita), l’amore per il lusso e gli atteggiamenti sfarzosi non doveva essere ben visto da quelli che un tempo erano suoi pari; inoltre tale sfoggio di

342 Caturegli ricorda l’elezione di Albizzo Lanfranchi a podestà di Pisa: La signoria di Giovanni dell’Agnello,

p. 88.

343 Cronica di Pisa, p. 207.

344 G. Sercambi, Le croniche, p. 150. Bindaccio Benetti comunque rimase in carica almeno fino al 1366

quando in ASP Com A è menzionato come “viceduci”.

345 R. Sardo, Cronaca di Pisa, pp. 163-165. 346 Donato di Neri, Cronaca senese, p. 632. 347 ASP Com A 143 f. 71.

magnificenza, che non era solo un vezzo di una persona amante della ricchezza e degli “status-symbol”, ma era anche strumentale alla dignità di cui voleva ammantata la sua autorità, comportava costi non indifferenti per il comune che oltretutto era già costretto a pagare pesanti indennità di guerra a Firenze. All’atto pratico il governo fortemente autoritario del Doge aveva tolto ai tradizionali gruppi familiari Raspanti quasi del tutto ogni partecipazione pratica alla gestione del potere, rendendo quindi priva di ogni significato anche l’inclusione di elementi bergolini nell’amministrazione comunale. A ciò si aggiunse anche una certa tendenza all’abuso di potere e alla violenza, che non deve essere comunque sopravvalutato: i cenni a questo proposito nell’anonimo pisano e in Sercambi potrebbero essere frutto di quella rivalutazione in senso fortemente negativo dell’esperienza dogale che trovò riscontro anche nel linguaggio ufficiale della documentazione del comune, nel quale si dava risalto ai caratteri autoritari e di illegittimità del potere di Giovanni dell’Agnello349. Dire che il Doge avesse scelto una forma di

governo fortemente autocratica non significa avvalorare l’annoso topos storiografico che oppone in maniera ferrea la libertà del comune alla tirannia della signoria350. L’esperienza

Nel documento La seconda discesa di Carlo IV a Pisa (pagine 142-166)