• Non ci sono risultati.

Flussi migratori tra analisi antropologica e processi educativi Annamaria Amitrano

Il fenomeno migratorio, con la presenza nei territori di accoglienza di realtà culturali di diverso profilo e non sempre orientate verso forme di integrazione, pone numerose questioni di compatibilità; in specie se l’insediamento migrante ha raggiunto forme di stabilità e sedentarietà, sicché i processi di coesistenza producono problemi di inserimento e di accettazione non solo per quanti sono arrivati, ma anche e soprattutto per la seconda generazione dei migrantes;

generazione spesso nata in quei territori scelti per l’approdo dai loro genitori. Del resto, è noto che quando si parla di bambini il fenomeno dell’emigrazione va sempre visionato nella sua componente “involontaria”. I bambini, infatti, non partecipano

“volontariamente” ai progetti migratori della famiglia e, di conseguenza, avvertono maggiormente i disagi che scaturiscono dalla loro condizione di “estranei” rispetto alle comunità in cui si ritrovano catapultati. Vero è che, ormai, il fenomeno è tenuto sotto costante monitoraggio e viene riconosciuto e legittimato dalla politica degli Stati ospitanti; però, è necessario incidere meglio e maggiormente in profondità, tenendo presente quella pluralità di problemi che l’incontro tra le culture genera in termini di difficoltà relazionale, linguistica e culturale. Un ruolo notevole, nell’analisi del processo di trasformazione socio-comunitaria, esito dell’incrementarsi dei flussi e dei problemi migratori legati all’infanzia, lo svolge l’Antropologia dell’Educazione che orienta sulle tematiche pedagogiche del

“fare educazione” in contesti in cui si modificano le strutture profonde del “pensare” e del “fare cultura”. Tali strutture, acquisite per tradizione nei contesti di origine, sono di fatto qui poste in discussione dalla stessa situazione dell’incontro. In una condizione in cui non si è più come si era e non si sa ancora come si sarà, tale scienza prevede a priori la necessità di costruire nuove espressioni, nuovi modelli di vita ed educativi, nuovi orientamenti di senso provenienti dal “dialogo tra le diversità” (Gobbo 1996).

Il tema della “diversità” - che l’etnostorico definisce nel suo linguaggio “compresenza necessaria” - presuppone quello della costruzione di un’identità capace di confrontarsi e riconoscersi

106 Annamaria Amitrano col diverso; ma ciò è possibile solo attraverso una forma di decostruzione, che permette di guardare alla propria cultura ma con lo sguardo rivolto alla cultura dell’Altro. L’Antropologia usa l’allocuzione “L’Altro siamo noi”, affidando al concetto di reciprocità il compito di fare argine ai pericoli, sempre in agguato in una società globale, di intolleranza, discriminazione, razzismo. Di recente, si fa riferimento anche ad uno stato emozionale di tipo empatico, considerando cioè fondamentale per l’inte(g)razione - oltre ai noti valori di ascolto, accoglienza, rispetto, stima, etc. - quello di “sentire” il vissuto degli Altri come se fosse il proprio: quasi a carpirne il segreto per costruire l’incontro in termini di apertura verso l’equilibrio di un “nuovo pensiero”. Ma la nostra società odierna, da un lato, ha la tendenza a rendere universali valori, linguaggi e beni; dall’altro, invece, tende a riservare, specificare, separare. Una sorta di schizofrenia che, mentre produce una cultura “supernazionale”, che sembra unire razze ed etnie, di fatto, all’interno del gruppo nazionale, continua ad escludere e privilegiare, sulla base di presunte superiorità ora linguistiche, ora etniche, ora religiose (Callari Galli 1993).

Ne consegue la necessità di andare verso la transculturalità, cioè a dire verso la possibilità di accedere a forme di trasversali-tà dei saperi, condizione che permette alle culture di porsi dina-micamente in essere oltre i loro stessi limiti strutturali e tradizionali.

Ma la transculturalità lede il principio di identità? È bene precisare, a questo punto, come la cultura dell’Occidente, rico-noscendo il concetto di Identità come vincolo e come matrice della sua stessa superiorità, abbia in realtà ostacolato logica-mente ed ontologicalogica-mente il riconoscimento dell’Altro, propo-nendosi spesso in dimensione etnocentrica.

L’antropologia, a soluzione di questo annoso problema, ha posto l’approccio funzionalistico-relativistico perché esso per-mette, di fatto, una visione duplice della cultura, ovvero il suo essere universale e locale allo stesso tempo. M. J. Herskovits, nella elaborazione di questa teoria di cui egli è il massimo esponente, metteva non a caso in luce come ogni gruppo avesse una propria cultura uguale alle altre per il fatto di essere tutte

Flussi migratori tra analisi antropologica e processi educativi 107 costituite dall’aspetto sociale, politico, economico, artistico, religioso, etc. (universalismo), precisando nel contempo come questi elementi si sviluppino nei vari contesti in dimensione

“singolare” assumendo cioè caratteri specifici negli usi, costu-mi, tradizioni.

Peraltro, Herskovits stesso già segnala la difficoltà di vincere tale pregiudizio, in quanto il processo inculturativo e i processi educativi formano una società/comunità conforme alla singola-rità dei modelli in essi praticati.

Per evitare un tale limite, insito nel processo educativo, un altro antropologo relativista, C. Kluckhann, offrirà alla prassi educativa una nuova visione, con un processo pedagogico più flessibile e un rapporto docente-allievo non più basato sulla conseguente conformità delle scelte comportamentali, bensì sulla libera crescita della personalità individuale; con l’invito agli insegnanti ad ampliare le loro conoscenze sui valori e le istituzioni di altre culture. Del resto già ai tempi del Funzional-Relativismo (più o meno gli anni ’30 del XX secolo), le scienze sociali operativamente registravano, in specie in America, le modificazioni complessive delle società per effetto dei flussi migratori (Harrison 2000).

Ora, nell’ottica di una analisi antropologica che rimanda all’excursus su taluni interventi che hanno indotto con la loro modernità ad aprire il dialogo e la comprensione delle altre cul-ture, piace qui indubbiamente ricordare Giuseppe Cocchiara che si fa portavoce già in tempi lontani - egli muore nel 1965 - del cosiddetto Umanesimo integrale.

Cocchiara parte dal Primitivo e dal mondo etnologico, cioè dal contesto di quelle culture visibilmente percepite non solo come diverse nella loro evidenza, ma considerate inferiori, per dimostrare, attraverso il mito del buon selvaggio, come il mon-do occidentale abbia, in realtà, molto ricevuto dal monmon-do etno-logico, vuoi in termini di rinnovamento culturale e ideale, vuoi in termini di rottura dall’esclusivismo culturale (Amitrano Sa-varese 1988). L’idea di Cocchiara è di un Eterno selvaggio, ca-tegoria dello Spirito che ci pervade, in contesto emozionale, sicché ci permette di sentire il mondo dei primitivi sul piano

108 Annamaria Amitrano dell’essere oltre che sul piano dell’esistere (Cocchiara 1971).

Egli esclude, infatti, a priori ogni forma di marginalità per lo

“straniero”; intuizione straordinaria, se si pensa che l’antropologia contemporanea che corteggia le neuroscienze, è giunta alla conclusione che tutti gli uomini sono uguali, perché hanno uguali meccanismi neurologici di elaborazione delle in-formazioni; mentre la loro diversità consiste nel diverso modo di elaborare le informazioni provenienti dall’ambiente sociale.

È bene precisare, a questo punto, che se il rispetto dell’Altro, il sentire lo Straniero in termini di reciprocità già muta il modo di pensare e di agire degli individui, che si confrontano nella loro identità/diversità, sarà in realtà il “dialogo tra i molti” a generare le “nuove frontiere” dell’agire e del pensare, offrendo alla società complessa la potenzialità di riorganizzare, nella sua dinamicità, le sue stratificazioni e le sue mobilità interne ed esterne. Allora, bisogna chiedersi se il migrante, che nella di-mensione dell’approdo perde i codici, gli usi, i costumi della sua terra madre, dovrà cercare una “nuova madre terra” o, piut-tosto, dovrà sviluppare un’identità dinamica che possa permet-tergli, nel contempo, di accettare le differenze della cultura ospitante, senza perdere gli aspetti tipici della propria individua-lità etnica. La risposta è, ovviamente, in questa ultima prospet-tiva tendendo ad un concertato equilibrio tra quel “bisogno della tradizione” che conserva valore alle culture locali e alla memo-ria storica, e la necessità di acquisire le opportune compatibilità con le nuove reti di relazioni che si presentano nel nuovo conte-sto; onde poter costruire nuovi sistemi di riferimento cognitivi e normativi, anche in ambiente estraneo. In sintesi, i processi educativi che si generano nell’incontro tra le culture devono, quindi, mirare alla formazione di una identità dinamica (Di Ma-ria, Lavanco, Novara 2002).

La ricerca antropologica in educazione introduce, dunque, a seguito dell’emergenza immigrazione, e a seguito della conse-guente attenzione ai problemi della multiculturalità, intercultu-ralità e transcultuintercultu-ralità presenti nella società complessa, tutto un bagaglio di questioni teoriche e pratiche su una serie di unità di analisi, quali l’istituzione scuola, la classe, il curricolo, la

rela-Flussi migratori tra analisi antropologica e processi educativi 109 zione tra educazione e comunità; in specie se si considera che la scuola, agenzia primaria, nei suoi processi educativi, può river-berare la sua influenza su situazioni di ben più ampio raggio.

Ad esempio, va da sé che mantenere o ridurre la diversità cultu-rale, oppure favorire o impedire il successo scolastico può in-fluenzare la mobilità verticale dei diversi gruppi sociali ed etni-ci nel contesto delle soetni-cietà accoglienti, e condizionare la logica delle cosiddette “pari opportunità”. In altri termini, la relazione tra temi antropologici e questioni educative genera fattori situa-zionali e strutturali che non si limitano alla necessità di elabora-re linguaggio, elabora-relazioni, atteggiamenti, metodi e strumenti in ambito scolastico ma rilanciano prospettive ben più ampie in cui ritrovare un nuovo equilibrio tra le componenti di tutto il Sistema/Comunità (Callari Galli 1996). E così, nonostante le inevitabili criticità dovute in genere al cambiamento e poste in essere nello specifico da una dimensione pedagogico-didattica tradizionale, che svolge un forte processo inculturativo, nel con-testo di un apparato fortemente normativo. Si pensi esemplar-mente a tutte le conseguenze dovute alla cosiddetta “paura del diverso”, che in ambito sociale genera un atteggiamento difen-sivo e di chiusura, e che in ambito scolastico si traduce in un forte momento corporativo.

In pratica, accade che a fronte di una politica scolastica e di un insegnamento non necessariamente condivisi, i gruppi socio-culturali di matrice etnica, anziché interagire tra loro e muoversi verso una auspicabile nascita di una identità dinamica e/o plu-rima, si frazionano. Ciò introduce, oltre alla constatazione del fallimento delle politiche miranti alle forme di integrazione, un disordine sociale di tipo istituzionale al di fuori dei contesti normativi. Il riferimento va esemplarmente al fenomeno delle scuole coraniche, oppure al fenomeno di uno “scontro” possibi-le tra scuola pubblica e scuola privata. Quest’ultima certamente più tradizionalista rispetto alla precedente, quindi baluardo di un assetto sociale più conservativo ed esclusivistico. Di certo, un’educazione scolastica che continua a veicolare i valori di una cultura dominante contro l’incidenza delle culture etniche e so-ciali non può che generare conflitto. E se l’orientamento della

110 Annamaria Amitrano scuola continuerà a favorire il mantenimento dei valori della classe media dominante, con un processo volto principalmente verso la riproduzione della propria cultura, essa contrasterà ine-vitabilmente con le altre componenti del sistema sociale, oggi inequivocabilmente aperto verso nuove procedure. Basti pensa-re allo stratagemma della omologazione con cui i giovani mi-grantes “nascondono” la loro diversità nell’ambito della classe, per agevolare il loro inserimento; un atteggiamento che, di fatto, non supera il conflitto, perché i codici di diversità (modo di fa-re, di atteggiarsi, di vestifa-re, etc., e principalmente l’uso del lin-guaggio di origine) continuano a prodursi in dimensione extra-scolastica, attraverso l’educazione familiare che conserva le procedure della cultura originaria; oppure si pensi alla forte configurazione dei “gruppi dei pari” che segnala quella che or-mai, in ambito urbano, si presenta come la “società del cantone di strada”, dove nelle società accoglienti si riconfermano i gruppi di identificazione su base etnico-sociale, cementandosi così insieme la marginalità sociale e quella culturale (Amitrano 1997).

In questa situazione, appare inevitabile la nascita di una nuova scuola, che deve operare per un rinnovamento del siste-ma, vuoi scolastico, vuoi socio-economico-culturale della Co-munità in divenire. Si deve, cioè, pensare ad una scuola del fu-turo che possa centrare gli obiettivi che la nostra società plurali-stica multietnica, multiculturale-transculturale predispone nella

“modernità”; obiettivi che sono inequivocabilmente quelli di conoscere l’Altro, trovando le vie per l’interazione comunicati-va, trovare le vie per determinare l’inserimento, ricercare nuove forme di appartenenza e di riconoscimento.

Non a caso, gli studi più recenti di Antropologia dell’Educazione confermano che l’impatto di discontinuità nel processo di scolarizzazione è fortemente condizionante, anche, per l’ambito extra scuola. La deprivazione culturale, in altri termini, genera complessivamente risposte inadeguate alle aspettative culturali che si propongono al momento del contatto.

Perseverare senza alcuna flessibilità in forme di rigidità norma-tiva, riproporre i modelli differenziali che nei programmi e nella prassi dell’insegnamento vengono percepiti come ostacolo,

ri-Flussi migratori tra analisi antropologica e processi educativi 111 schiano di far credere ai “diversi” che l’apprendimento scolasti-co pubbliscolasti-co ed istituzionale sia una vera e propria minaccia per la identità originaria. Tanto più che, nelle società accoglienti, spesso mancano per i migrantes quelle pari opportunità che ras-serenano il contesto sociale e validano l’educazione scolastica ricevuta (Gobbo 2000).

Allora, in conclusione, è bene valutare che, senza program-mazione, senza opportuna legislazione, senza una visione com-plessiva delle dinamiche che le società e le culture pongono in essere, non solo non sarà possibile migliorare le condizioni di accoglienza, inserimento, confronto, dialogo, rinnovamento, ma si determineranno condizioni alternative, in cui ogni gruppo etnico-marginale organizzerà il proprio bisogno di avanzamento sociale. Le difficoltà, in altri termini, indurranno a trovare altre strade per riuscire nella vita, vuoi a livello individuale, vuoi a livello collettivo. Scelte non sempre legali: il riferimento va alle forme di prostituzione e alle forme malavitose, che spesso ac-compagnano i flussi migratori; oppure, va alle forme di rivolta e di ribellione che investono la seconda generazione di migrantes in bilico tra deficit identitario e disagio sociale. Si pensi alle bidonvilles o alle banlieu, quali segnali di un malessere sociale e culturale che dimostrano l’incapacità del mondo occidentale a metabolizzare le innovazioni prodotte dalle migrazioni e dagli incontri tra culture; quasi che la vecchia Europa, nonostante che la “pensilina” rappresentata dall’Italia sia sempre e continua-mente affollata, non sappia come operare razionalcontinua-mente e coe-rentemente a fronte di un fenomeno che solo la volontà e la ina-deguatezza risolutiva non vuole affrontare nei giusti termini.

Incapacità davvero colpevole dal momento che il futuro spinge oltre gli schemi di una tradizione di autodifesa, talvolta davvero provincialistica. Ne è prova politico-sociale il sistema italiano, ancora oggi del tutto inadeguato rispetto ad un mondo globale, nel flusso delle sue continue e costanti migrazioni e con la sua teorizzazione di una identità ormai davvero planetaria (Amitrano 2008).

Consultazioni elettroniche, democrazia deliberativa e migranti