Capitolo 3 : La possibilità della libertà
4. Il formalismo della possibilità formale
Rivolgiamoci adesso a esaminare la critica di Hegel alla possibilità formale della libertà, cercando di vedere il modo in cui la categoria di fondamento permette a Hegel di comprendere la sintesi a priori pratica alla stregua di un formalismo.
Sin dallo scritto jenese sul Diritto naturale (1802), che abbozza la concezione di un assoluto sostanziale distinto in due nature, fisica ed etica, emerge con forza la critica di Hegel alla legislazione della ragione pratica. Ricapitoliamo gli argomenti che conducono al tema del formalismo. L‟assoluto è l‟unità dell‟indifferenza (l‟infinitezza) e del rapporto o identità parziale. Esso si distingue in natura fisica e natura etica a seconda che l‟elemento primario del rapporto sia la molteplicità o l‟unità. Ognuna di queste due nature è unità di libertà (indifferenza) e necessità (rapporto). Ma è anche distinzione di indifferenza e rapporto, in modo che prevalga il molteplice o l‟unità. La natura etica, rappresentata esemplarmente dalla morte in battaglia del singolo (accidente) a beneficio della conservazione del popolo (sostanza) a cui appartiene, è libera nella sua necessità e la sua libertà si determina in modo da porre come superata la necessità. Come viene riflesso l‟assoluto dal principio dell‟a priorità dell‟idealismo di Kant? Concependo l‟infinito in base al presupposto dell‟astrazione che separa l‟assolutezza del soggetto (l‟a priorità) dal molteplice empirico. Il concetto di infinito, per Hegel, non è altro che la contraddizione, l‟autonegazione del finito, come processo per cui ogni determinazione, in quanto è posta, passa nell‟opposta, da cui è determinata. La riflessione, intesa come metodo filosofico che non sottopone le limitazioni alla loro dialettica, fissa il momento empirico (la realtà) e astrae da esso la sua negazione (l‟idealità), generando la separazione della finitezza (l‟esistenza del molteplice degli
opposti) dall‟inifinito, assunto come pura unità, che in Kant ha appunto il nome di ragione pura. La riflessione consiste nella fissazione di un rapporto, o duplice relazione, di posizione e negazione parziali. Hegel interpreta le categorie qualitative di Kant alla luce della „Dottrina della scienza‟ di Fichte, in modo da far corrispondere la realtà al porsi dell‟Io, la negazione al porsi del non-Io e la limitazione al contrapporsi di Io e non-Io. La relazione positiva (l‟esistenza di unità e molteplicità) è la ragione teoretica. La relazione negativa è la ragione pratica. La riflessione, attenendosi all‟opposizione, produce l‟astrazione dei rapportati: l‟astrazione del molteplice (natura) e l‟astrazione dell‟unità (ragione). La verità, tuttavia, consiste nel vedere i determinati non come parti, ma come unità assoluta dell‟uno e del molto. Nella ragione teoretica l‟elemento preponderante è la molteplicità, il che la rende unità reale, mentre nella ragione pratica, essendo più importante l‟unità (la negazione dell‟opposizione), l‟unità è ideale. Il punto di vista della ragion pratica è l‟identità formale, che astrae dal reale (infinita non identità). In tale astrazione, l‟identità si contraddice, in quanto distingue e perciò dimostra la stessa negatività del molteplice, del non-identico, che essa nega (astrazione) per riferirsi a sé. La ragione è l‟idea formale dell‟identità del reale e dell‟ideale. La formalità significa che dell‟idea non viene considerata essenziale l‟assoluta indifferenza, ma il rapporto, che la riflessione determina come opposizione, leggibile, alla luce dell‟esplicazione delle essenzialità della riflessione nella Scienza della Logica, come una diversità che è insieme un‟unica e medesima relazione di posizione e negazione reciproche388, immanenti ai relata. Nella ragione pratica, i predicati di reale e ideale, in cui possiamo ravvisare i tratti del motivo materiale e di quello formale, sono identici rispetto al rapporto (realtà, negazione, limitazione), di cui possono ugualmente ricoprire i momenti, e tenuti separati per mezzo di „riguardi‟: in quanto l‟uomo è
388 Nella libertà pratica, abbiamo un rapporto di causalità in cui vengono posti fini razionali(pragmatici o
morali), vengono negati fini naturali dati (momento dell‟indipendenza dell‟arbitrio dalla costrizione degli impulsi) e si verifica una limitazione dei secondi ad opera dei primi (secondo l‟ideale della felicità, nella prudenza, o l‟ideale della saggezza, nella subordinazione dell‟ordine dei moventi), dei primi ad opera dei secondi ( lo sforzo dell‟intenzione morale in lotta con l‟amor proprio o la ricerca faticosa della felicità). Se l‟agente assume riguardo a sè il punto di vista naturale (che comprende, per Kant, anche il fine della felicità), i motivi materiali appaiono come realtà (oggetti dell‟arbitrio) e quelli formali come negazioni (il rispetto come annullamento della pretesa dell‟amor proprio di dare validità incondizionata ai fini soggettvi); viceversa, se egli assume il punto di vista della libertà, i motivi formali sono reali (rispettare i soggetti morali come fini in sé) e quelli materiali negativi (possibili cause eteronome).
fenomeno, le azioni si legano secondo una necessità naturale, ma in quanto è noumeno, esse dipendono da una causalità incondizionata (libertà in senso trascendentale).
Secondo Hegel, l‟espressione empirica in cui la natura etica ha trovato rappresentazione in Kant è la limitazione reciproca e il conflitto delle facoltà dell‟animo, articolato secondo i tre momenti categoriali: con la realtà vengono posti i fini della facoltà di desiderare superiore e inferiore, con la negazione viene pensata la possibilità che la facoltà inferiore si determini diversamente dalla legge, con la limitazione viene rappresentato il rapporto di dominio fra le istanze in conflitto mediante costrizione interna. La conferma di questo modello proviene dall‟esperienza che ognuno ha della possibilità per l‟io di astrarre dalla determinazione di fini naturali. La coscienza empirica convalida il punto di vista dell‟astrazione della forma perché costituisce essa stessa la dispersione dei momenti dell‟assoluto. Se ciò che eccede dal concetto dell‟unità formale della ragione pratica, dal dovere come astrazione di una legge dalla molteplicità dei fini della volontà, non gli appartiene, non si danno le condizioni sufficienti per un sistema etico, per una effettiva legislazione della ragione. Il risultato dell‟impostazione a priori è un‟astrazione: la ragione pura è ridotta a un‟unità pura, sintetica solo nell‟elevare alla sua forma il molteplice empirico dato, che dà luogo alla separazione fra forma e materia, fra arbitrio e volontà pura, fra massima e legge. La conclusione di Hegel è che la volontà pura è libera da determinatezze. Noi sappiamo che in Kant la volontà è libera da determinatezze empiriche, ma questo non è che un momento della libertà pratica. La volontà deve determinarsi per se stessa. In quanto è autonoma, la sua determinatezza è di essere fine in sé e l‟etica è il sistema dei fini della ragione pratica. L‟approfondimento dell‟affermazione hegeliana ci porta in prossimità del tema del formalismo.
Abbiamo detto che la sintesi a priori subisce, nell‟interpretazione hegeliana, una riduzione, intesa come spiegazione del complesso mediante il semplice, e la sintesi, in conseguenza della detta riduzione, è ridotta anch‟essa a sanzione dell‟autorità dell‟empiria; piuttosto che una produzione di contenuti, è un accogliere determinatezze nella forma, che dà la parvenza di dedurre mediante l‟applicazione di una legge contenuti che essa in realtà presuppone. La riduzione fa dell‟autonomia della ragione pratica un‟unità analitica: l‟identità di una funzione dell‟intelletto nell‟atto di riconoscere diverse determinazioni rappresentative date come uguali rispetto a una regola. Tale unità produce solo tautologie, nel senso che lascia la materia delle massime quella che è e dà la condizione (la regola dell‟ A=A) della sua ripetibilità. Alla domanda
„cosa è la verità?‟ il principio di contraddizione risponde fornendo il criterio formale, cioè l‟accordo dell‟intelletto con le proprie funzioni logiche. Il criterio universale del giudizio pratico, se trattato sulla scorta della logica formale, non può che astrarre dal rapporto con l‟oggetto specifico della prassi e consiste nel fatto che l‟intelletto non si contraddica nel rispondere alla domanda su cosa sia il dovere. Poniamo che il soggetto razionale sappia che il dovere è l‟accordo della legge con la massima: agisci in modo che la massima possa diventare legge universale della volontà. La domanda „cosa è dovere?‟ richiede un criterio universale della verità pratica. Questa è l‟accordo della conoscenza pratica espressa dalla legge con il suo oggetto, la determinazione della volontà espressa dalla massima, diretta a produrre la realtà dei fini che si pone soggettivamente (interiorità) e che oggettivamente, una volta realizzati, la pongono in rapporto con un mondo che integra la realtà iniziale, immediatamente presente nell‟intenzione del singolo, in una realtà culturale, che ridetermina e concretizza il significato della puntualità atemporale dell‟intenzione in una storia di effetti e nel senso dell‟esperienza pratica. Il criterio formale della verità pratica deve essere valido per tutti i casi di applicazione della legge, astraendo dal contenuto dei casi esibiti dalle massime dei soggetti incarnati. Come la logica generale enuncia il principio di contraddizione, così la ragione pratica fornisce il principio (il canone del Giudizio pratico) che la massima, universalizzata dalla legge, non deve contraddire se stessa. Ma siccome la legge, per Hegel, non è altro che un principio formale, inteso a stabilire, cioè, la forma del giudizio analitico con cui l‟‟io voglio‟ dà la sua adesione, in un tener-per-vero pratico, ai contenuti espressi dal predicato della massima, in cui viene pensata la determinazione della volontà, la legge è vuota, è la pura identità di qualsiasi contenuto con sé, l‟esplicazione analitica della sintesi presupposta nella formazione della massima. La legge è il principio di non-contraddizione389, ma questo, assunto come criterio o principio per giudicare, dimostra una assoluta astrazione da ogni materia del volere. La legge non qualifica la massima, ma viceversa, perché la qualità è data, immediatamente, dal rapporto soggettivo della legge con la materia, gli scopi dell‟agire, e, mediatamente, dal rapporto oggettivo delle determinazioni della volontà con le condizioni e gli scopi del mondo oggettivo dello spirito, che dà all‟articolazione razionale della libertà una realtà, di cui la volontà soggettiva deve appropriarsi.
Poiché la legge, essendo libera da determinatezze, non produce contenuti propri, essa si risolve nell‟identità di un contenuto (la massima) con sé ed evita la
necessità di giustificarsi, di dare una ragione del suo rapporto con la molteplicità degli altri contenuti. Dal momento che l‟unica ragione è l‟identità della massima con sé e la bontà è ridotta al principio dei giudizi analitici, il giudizio singolare (per es. questa azione è buona) si distingue dal giudizio universale (tutte le azioni sono buone) non qualitativamente, mediante un movente che spieghi la sintesi di posizione o negazione dell‟azione rispetto al predicato, costituito dall‟oggetto cui l‟azione si determina, ma quantitativamente, mediante una iterazione o sintesi dell‟omogeneo. Nel giudizio che un soggetto emette su di sé - „tutte le azioni sono buone‟ – o, in un‟altra estesnione, una comunità dà dei suoi membri- „tutti i soggetti sono buoni‟ – l‟universale è una comunanza, che viene realizzata mediante la sussunzione dei singoli sotto la regola di identità analitica, che presuppone un contenuto (scopi arbitrari o valori di una tradizione intesi come unità di senso), lo fissa (astrazione dagli altri) e lo conserva ripetendolo nel tempo. La moralità consolida la formale indifferenza delle determinatezze del rapporto degli agenti con sé e di loro col mondo. Le differenze non necessitano di essere fondate nel processo di autoproduzione di un mondo; esse semplicemente ci sono e vengono fissate: „se tu sei in questo rapporto, allora rimani in esso‟. La contraddizione della moralità è che un criterio o misura di giudizio che va bene per tutti i contenuti cessa di essere un criterio; essa scaturisce dalla contraddizione dell‟identità dell‟intelletto: porre il non essere dell‟altro (distinzione come astrazione) è togliersi da se stessa, indistinzione.
Dall‟interpretazione data deriva il fatto che Hegel equipari l‟imperativo categorico con l‟esame della non-contraddittorietà della massima, esame che Kant tratta, paradossalmente, nella Fondazione come quel canone del Giudizio pratico (G 424), che dovrebbe fornire il criterio della verità pratica, necessario per dedurre i molteplici doveri (gli imperativi) dal principio del dovere (l‟ imperativo categorico). La caratteristica della legislazione della ragione pratica è di essere opposizione di materia (momento positivo) e forma (momento negativo o astratto). L‟opposizione è la categoria della riflessione opportuna a cogliere la moralità come sforzo perché è l‟unità dell‟identità e della diversità, la relazione i cui momenti sono indifferenti390
e insieme
390 Nella indifferenza, espressa dalla categoria della diversità, che Hegel chiama „indifferenza della
differenza‟ (SdL, p.466), l‟identità e la differenza si trovano nella determinazione dell‟identità con sé; non sono un „esser-posto‟, non sono cioè mediate, determinate l‟una rispetto all‟altra, come avviene nel complesso della riflessione immanente, ma riflesse an sich, identiche con sé astraendo l‟una dall‟altra. Il modo in cui entrano in relazione è una riflessione estrinseca, cioè l‟uguaglianza e la diseguaglianza come
reciprocamente escludentisi. L‟esclusione riassume il senso dell‟opposizione perché spiega che l‟essere per sé stante dell‟identità e della diversità può aver luogo solo nell‟unica mediazione – la „riflessione negativa‟ dei momenti dell‟opposizione – per cui ciascuno degli opposti è in lui stesso un porsi da sè così come l‟esser-posto mediante l‟altro. Nello specifico della sfera pratica, la legge è indifferente alla materia accolta nella massima – momento del presupporre la determinatezza -, ma nella massima – momento del porre la determinatezza - il contenuto è unità di materia e forma come riflessione immanente alla relazione: unità negativa dell‟indifferenza, riflessione estrinseca dell‟identità (riflessione an sich) e della differenza (diversità), e dell‟esclusione, che corrisponde all‟inversione (lo scambio reciproco di determinazioni) dei momenti (il relatum esclusivo e quello escluso), in quanto ciascuno presenta un doppio lato: l‟esser-posto e l‟esser.posto come tolto o il presupporre. Secondo il lato dell‟esser-posto, ciascun relatum è posto in quanto l‟altro sussiste attivamente nel negare l‟ indipendenza del primo; secondo il lato del presupporre, ciascuno è in quanto l‟altro non è391. La contraddizione dell‟opposizione, come riflessione esclusiva, consiste
nel fatto che ciascun momento sussiste solo in quanto sussiste il suo altro, ma ciò avviene in un‟unica riflessione (negatività assoluta), in cui ciascuno è se stesso nel rendersi indipendente dal suo altro. L‟opposizione permette di vedere l‟insufficienza della diversità e la contraddizione fa vedere quella dell‟opposizione. La prima insufficienza è l‟indifferenza, la seconda è l‟esclusione. L‟opposizione è tolta in quanto la riflessione in sich e l‟essere per altro come esser-posto costituiscono la determinazione intrinseca dei lati dell‟opposizione. Ma ciascun momento, come esser- posto, si riferisce all‟intera riflessione come ad un altro, da cui esso è posto. Solo nella contraddizione si rende esplicito che la vera indipendenza spetta alla relazione, in cui ciascuna „determinazione riflessiva indipendente, nella sua stessa indipendenza, esclude da sé la propria indipendenza‟392 e realizza un‟anticipazione logica del rapporto di
modi di cui la comparazione di un intelletto esterno al pensiero immanente si serve dell‟identità e della differenza per riferirsi a cose, a sostrati rappresentativi.
391 Anche se Hegel è molto oscuro su questo punto, ritengo che la categoria di riflessione in sich indichi
sia il momento del presupporre che l‟intero processo dell‟opposizione. Ogni momento di questa relazione è un‟ immediatezza riflessa, cioè l‟esser-posto è in identità mediata con la riflessione in sich perché è il risultato (posto) di un processo o movimento di autodeterminazione (la riflessione in sich) che lo lega a sé come all‟intero.
riconoscimento delle autocoscienze, per cui ognuna vede l‟altra fare quello che essa stessa fa ed esige qualcosa dall‟altra in quanto lo fa da sé.
Analizzato lo sfondo dell‟opposizione, come unità processuale di identità esclusiva e diversità, si va definendo il formalismo come indifferenza dei riferiti. Nell‟opposizione i riferiti sono il positivo e il negativo; nella legislazione della ragione pratica sono la materia e la forma. L‟indifferenza è la contraddizione della diversità, la relazione di eguaglianza e diseguaglianza della forma con la materia, relazione priva in lei stessa di contenuto, perché i contenuti (la legge e la massima) sono estrinseci, collegati da una riflessione esterna: la scelta dell‟agente, decisa da ultimo dalla materia presupposta dalla forma. L‟uguaglianza o identità estrinseca di materia e forma sta nell‟indistinta compattezza393
di fondamento (legge) e fondato (massima), riferita a un elemento terzo, esterno alla relazione fra legge e massime, chiamato a decidere se sia la legge tautologica A=A o la massima A il fondamento della relazione in cui legge e massima stanno fra loro. La relazione formale, che non è posta dall‟unità sintetica della ragione, è decisa dall‟arbitrio, la figura che incarna l‟accidentalità nella sfera pratica. La relazione lascia indeterminato quale relatum debba essere preso come essenziale. Il formalismo toglie la sua indifferenza mediante l‟unica forma di determinazione rimasta e a cui la libertà si riduce: l‟arbitrio come possibilità di determinarmi a questa o a quella massima. Ricapitolando, la morale è contraddittoria proprio nell‟assumere il principio di non-contraddizione. La contraddittorietà del concetto di dovere è il rovesciamento della sua pretesa di determinare un contenuto – il problema di decidere quale massima è doverosa e quale no – nella fissazione dell‟astratta indeterminatezza dell‟identità formale, che esclude la differenza. Poiché i contenuti non sono posti dalla logica intellettuale seguita dalla morale, devono essere dati dalla sfera esterna dell‟esperienza, in modo che l‟autonomia della forma si risolve in una parvenza, in qualcosa il cui contenuto non è altro che la l‟assenza di un contenuto, la nullità di se stesso.
Se confrontiamo la critica hegeliana alla retorica del dovere per il dovere con la ricostruzione della sintesi a priori pratica, data nel capitolo precedente, è possibile formulare alcune obiezioni alla sufficienza con cui Hegel tratta il concetto kantiano di dovere.
La difesa di Kant, argomentata nella discussione dell‟universale concreto, dall‟accusa di formalismo si basa sulla tesi che la distinzione fra giudizi analitici e
393
Ogni determinatezza, proprio perché è semplice, si riferisce a sé ed è suscettibile di essere accolta nell‟unità analitica o regola dell‟identità.
giudizi sintetici394 non è meno importante nella seconda Critica, di cui Hegel considera il famigerato esempio del deposito come parte per il tutto, che nella prima Critica, la
394 Bisogna distinguere fra giudizi tecnico-pratici e pratico-morali. I primi sono sintetici a posteriori,
perché il legame fra il concetto del soggetto (in senso reale, l‟oggetto da produrre) e quello del predicato (in senso reale, la conoscenza della procedura che definisce la genesi dell‟oggetto) è il concetto del fine dato (dai bisogni sociali che devono dare senso alla catena dei giudizi tecnici), fine che definisce il significato dell‟oggetto come strumento. Se il concetto del soggetto è pensato, in senso ideale, come il soggetto produttivo o fondamento del giudizio, la sintesi fra il soggetto (a sua volta sintesi di intelletto e ragione, in quanto si comporta come causa finale) e causalità libera (la progettualità con cui vengono inventate le condizioni di esistenza del fine) è mediata dalla causalità secondo natura (non importa al giudizio tecnico se sia una prima o una seconda natura), cioè causalità come legge operativa di un mondo, di una totalità di individui (soggetti empirici) e relazioni mezzi-fini, in cui il soggetto ideale è collocato in modo tale da doverne riprodurre, indipendentemente dal potere formale dell‟arbitrio di dire sì o no, i nessi causali. Nel caso pratico, il soggetto ideale può significare, a un livello essenziale, la condizione normativa di possibilità del soggetto empirico; a un livello reale o incarnato, il soggetto ideale è ciò che Kant chiama l‟ideale del saggio, cioè l‟idea della saggezza considerata nel soggetto empirico; visto che, però, questi non incarna totalmente nella sua esistenza la purezza dell‟idea, può al massimo aspirare ad essere esempio di moralità per altri soggetti.
Riguardo ai giudizi pratico-morali, il legame a priori unisce, in senso reale, il soggetto incarnato con l‟azione tramite la deliberazione o, retrospettivamente, con il giudizio del Gewissen; in senso ideale, la sintesi a priori collega il concetto di causa con il predicato della causalità secondo libertà, ma in modo tale che non sussista nessun elemento mediatore, nessun fine dato che sia presupposto come terzo nella relazione, perché il soggetto che istituisce la relazione è, in effetti, rivedendo criticamente la metafora del soggetto come sostrato di relazioni, il prodursi della relazione stessa e il prolungarsi, nell‟esperienza pratica, della relazione ideale fra facoltà (intelletto e ragione) nella relazione reale fra il soggetto e gli oggetti posti autonomamente dalla sintesi: le azioni. Il soggetto ideale ha il suo eigentliche Selbst (G 458) nel „predicato‟ intelligibile o determinazione essenziale della libertà, che, osserva Kant, sintetizza in noi la causalità incondizionata della legge morale con quella condizionata dell‟arbitrio.
Nella terza Critica, Kant osserva che i giudizi tecnici non sono propriamente pratici, perché non appartengono alla prassi, intesa come autonomia della volontà, ma alla teoria, che, lungi dall‟essere una