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La risposta kantiana al formalismo: la logica dell’esemplarità

Capitolo 3 : La possibilità della libertà

6. La risposta kantiana al formalismo: la logica dell’esemplarità

Vorrei concludere la discussione sul formalismo, che ho descritto, in una varietà di „riguardi‟, kantiani e hegeliani, in base a una categoria della Logica, come legame estrinseco fra contenuto essenziale del fondamento e contenuto diverso del fondato, ritornando all‟esempio del deposito, dove abbiamo un evento, il venire a mia

che ciascun soggetto non sia mai solo un mezzo, ma sempre anche al tempo stesso un fine. Lo scopo ultimo (letzter Zweck, KU §83) del singolo e dell‟intero genere umano rispetto all natura è costituito dai primi due momenti; lo scopo finale (Endzweck, KU, §84), cioè l‟esistenza di esseri razionali sottoposti a leggi morali, coincide con la meta ideale rappresentata dal terzo momento.

disposizione di un deposito non dichiarato, una caso, la massima che dispone attivamente cosa farne, e la forma di una legge universale424. Il rapporto fra questi momenti costituisce l‟applicazione della massima al caso. La massima di chi non vuole dichiarare il deposito corrisponde al concetto hegeliano di proposito, che isola un aspetto della situazione data (il rapporto del deposito col mio bisogno) e lo determina secondo un fine particolare (aumentare con ogni mezzo il mio patrimonio), corrispondente al concetto hegeliano di intenzione (Absicht; FD §§119-120): sapere e volere la determinazione essenziale dell‟azione. Il riferimento all‟essenza significa che l‟intenzione, come fine o contenuto particolare di un‟azione, isola un aspetto del deposito, negandone a suo vantaggio la legalità sociale oggettiva, di cui è portatore, ma non è a sua volta isolabile, essendo parte, organica o meno, di un intero, che, sia in Kant che in Hegel, ha nome di felicità o benessere425. La situazione è un molteplice

424 Distinguo tre sensi di „caso‟ (Fall), che possano, in un sistema dell‟universale concreto, rivestire il

ruolo del particolare: a) la situazione, o insieme di circostanze che formano il particolare semplicemente empirico (l‟empiria o la certezza di fatti, piuttosto che esperienza pratica); b) il caso propriamente detto, o il particolare che incarna, ricercando la massima (l‟universale del giudizio riflettente) rilevante per la situazione, il livello trascendentale del tipo, cioè la regola del Giudizio puro pratico;c) il tipo, come particolare trascendentale, che prefigura a priori i casi reali.

425Non è l‟esempio del deposito la sede adeguata per discutere la densità dei significati kantiani e

hegeliani di felicità. Ma neanche è possibile lasciar citare un tema di passaggio. Su Kant, mi limito qui a indicare un‟articolazione di tre significati: felicità sensibile o godimento (Vergnuegen) come appagamento intensivo, estensivo e pertensivo (sintesi di intensivo ed estensivo) di tutte le inclinazioni; felicità come contentezza (Zufriedenheit) relativa allo stato della propria personalità morale; felicità come beatitudine (Seligkeit), stato di un essere perfettamente razionale o indipendenza della personalità dalla coercizione di tutti i bisogni di una natura sensibile. In generale, la felicità appare come il modo di essere di un soggetto razionale, che sente il proprio stato (Zustand) come conseguenza di un modo di pensare e di agire. Ogni interpretazione del concetto di felicità in Kant deve misurarsi con tre problemi correlati: 1) la vuotezza di contenuto dell‟ideale della felicità, che rivela la sua funzionalità politica nel negare la tesi secondo cui il fine dello Stato consiste nel provvedere alla prosperità dei suoi membri e nel rivendicare agli individui il diritto alla ricerca della felicità, 2) la presunta appartenenza della felicità alla natura sensibile del soggetto, tesi da correggere alla luce del riempimento della vuotezza dell‟ideale dell‟immaginazione (e dove lavora l‟immaginazione, come bene illustra lo scritto sull‟Inizio congetturale, istinto e sensibilità sono già „tolti‟) nel lavoro della cultura contro la natura e l‟immediata soddisfazione per ciò che abbiamo, 3) il misterioso carattere della felicità nella sintesi del sommo bene. L‟enigma sta nella ricchezza delle variazioni: se il sommo bene trascende l‟esperienza, la felicità perde il primo significato e acquista il terzo; se è immanente all‟esperienza, il sommo bene perde il suo significato noto e la felicità acquista quello di contentezza. Se il sommo bene è un oggetto dei postulati della ragione pratica, che deve realizzarsi in una vita diversa da quella mortale, non ha senso pensare a una felicità

contingente di rapporti dati, mentre la volontà di un singolo ha di mira un fine particolare che deve piegare a suo vantaggio la situazione in cui il singolo si trova. Proviamo a pensare il caso in questione, confrontandolo con la ricchezza delle riflessione pratica, uscendo dallo schema kantiano della contraddizione, come annullamento del rapporto di identità con sè del concetto di deposito. Il soggetto pratico empirico, mediante la ragione, riconosce nell‟evento contingente un caso dell‟imperativo ipotetico: „Se vuoi essere felice, devi negare di avere un deposito‟426

. Il fine universale è connesso col caso dato mediante la particolarità del carattere, espresso dall‟intenzione. Il carattere è un modo di operare coerente, che avviene secondo un principio, una massima stabile. La ragione è la facoltà dei principi e il sillogismo pratico è la forma di derivazione di una decisione da un principio, che è una conoscenza pratica.

sensibile che accompagni il progresso indefinito della virtù, e allora Kant potrebbe aver pensato al concetto di beatitudine; se il sommo bene è un ideale che deve essere esibito nella storia morale dell‟umanità, la felicità sta proprio nella cultura, come divenire storico delle disposizioni naturali, costitutive dell‟uomo, non in una conseguenza diversa dalla cultura.

Circa il concetto hegeliano di felicità, cfr. L.Fonnesu, Il concetto di „felicità‟ in Hegel, nella raccolta degli atti del convegno Fede e sapere, 1998, pp. 55-75. Osservo qui che tale concetto, come ogni concetto nel sistema di Hegel, è il movimento del suo sviluppo, che, nel caso della felicità, muove dallo spirito soggettivo (Enc. §§479-80), procede nella sfera morale dello spirito oggettivo e culmina nel godimento, produttivo di sé, dell‟Idea assoluta. Secondo la forma soggettiva, la felicità è la rappresentazione che l‟arbitrio si fa della soddisfazione universale delle inclinazioni. In quanto rappresentazione, si tratta di una composizione non organica, che giustappone i momenti del concetto della volontà in uno pseudo- sillogismo (l‟espressione è di A.Peperzak, Hegels Praktische Philosophie, 1991, p.88), il quale si realizza in un processo che ripete all‟infinito la sua contraddizione: appagarsi mediante la particolarità di impulsi dalla cui limitazione deve al contempo sempre uscire. La rappresentazione, inoltre, è un universale indeterminato perché la determinazione del contenuto sta negli impulsi, mentre l‟arbitrio vi appone la sua forma universale astratta (la capacità di appropriarsi dei contenuti della volontà naturale), proprio come il sovrano della monarchia costituzionale hegeliana appone la sua firma alle leggi del governo, mettendo il puntino sulla „ì‟ (FD §280 Z). Circa il rapporto fra felicità e benessere (Wohl), si tenga a mente la spiegazione di Hegel nella versione enciclopedica dello spirito oggettivo: il benessere è la felicità moralmente giustificata (Enc. C §505). La felicità di cui è in cerca l‟individuo, nella sua intenzione illecita, ha il significato di una insufficienza interna al diritto astratto, radicata in una sfera superiore (il diritto al benessere e la sua declinazione cattiva), che rinvia la soluzione dell‟antinomia fra diritto astratto e diritto al benessere alla sfera dell‟amministrazione della giustizia.

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Esprimere un imperativo alla seconda persona non vuol dire che il soggetto è vittima di una coazione a ripetere da parte di istanze extracoscienti, ma che è capace di distaccarsi dall‟immediatezza di un bisogno e darsi una regola, di essere a se stesso singolare e universale (giudizio reale) e farsi così condizione di possibilità di ogni datità („sono fatto così‟, „mi trovo dinanzi a questa scelta‟).

Come abbiamo già detto nella trattazione dell‟universale concreto, nel suo uso logico il principio è un giudizio formato esso stesso sillogisticamente, mediante la sussunzione della sua condizione sotto una regola universale. Ora, il carattere di una ragione pragmatica si configura mediante la sussunzione della massima particolare di un‟azione possibile sotto la condizione di un giudizio dato. La datità di questo giudizio consiste nell‟inevitabilità di assumere il motivo determinante della felicità come regola universale dell‟imperativo ipotetico della prudenza. Il sillogismo avrà, così, la forma seguente: la premessa maggiore presuppone il principio materiale dell‟amor di sè427

(che nel caso della violazione del deposito comporta una pretesa di isolamento dalla volontà della legge positiva, che lo rende amor proprio); la premessa minore, che esprime l‟intenzione di aumentare il proprio patrimonio con tutti i mezzi sicuri, è la condizione di un giudizio possibile; la conclusione è la trasformazione del giudizio possibile, espresso dal proposito, in un giudizio reale, cioè nell‟affermazione attiva della regola pragmatica nel caso dato, determinato come proprio dalla massima con cui nascondo di avere ricevuto il deposito. Il sillogismo pratico, in quanto tale, non si riferisce a casi dati, che presuppongono relativi fini (se disponi di un deposito, è presupposto che nel fine del mio uso di esso sia compresa la sua restituzione, che tiene conto del fine di chi mi ha dato il deposito) ma a giudizi che interpretano i casi alla luce di possibilità di azione, responsabili di modificare i casi dati, mettendovi dentro la legalità del nostro progetto (proposito, intenzione), la cui contingenza è esemplare rispetto al senso del progetto. Il fatto di avere un deposito non registrato da parte di chi lo affida è l‟esempio di una legalità giuridica imperfetta, che potrebbe essere corretta mediante altre istituzioni giuridiche (archivi, indagini di polizia bancaria, sanzioni etc..) ma, rispetto alla prassi, abbiamo solo un evento e una cosa, con una legalità intrinseca –

427Secondo l‟idealismo pratico, un conto è dire che la volontà, e precisamente l‟arbitrio, pone una materia

della massima, un altro è dire che la materia è il fondamento di determinazione della volontà. La materia può influire sulla volontà solo in quanto la volontà ha assunto un principio materiale di determinazione. Tale principio corrisponde all‟amor di sé e non è per sé stesso eteronomo finchè non avviene l‟inversione dell‟ordine dei moventi e l‟amor di sé si trasforma in amor proprio. Solo l‟inversione fa sì che il principio materiale divenga incondizionato. Nell‟ambito della vita etica, regolata da doveri larghi, è permesso (l‟esser-permesso è una possibilità pratica reale, delimitata dall sfera di una necessità trascendentale o assolutamente valida) assumere il principio materiale della ricerca della felicità come premessa di certi sillogismi pratici, ma la forma sistematica del carattere dell‟agente, in quanto pretenda di incarnare la logica della volontà, è un sillogismo che non può affatto presupporre il principio materiale, sebbene debba essere regolativo verso un‟esperienza pratica in cui quel principio deve avere un ruolo (dovere indiretto di essere felici).

la capacità di soddisfare un bisogno - che può essere giudicata in modi molteplici, a seconda dell‟identità dell‟agente: se sono povero e scontento di esserlo, è possibile che, confrontando la necessità dei bisogni e facendomi forte della mia rabbia contro i ricchi, io usi il deposito per togliermi dalla miseria; se sono un uomo d‟affari, lo posso reinvestire e mettere l‟utile davanti al giusto; se sono un tipo onesto, mi sentirei chiamato a restituirlo; se sono un benefattore, posso usarlo per correggere una condizione di ingiustizia sociale428 e promuovere un fondo di solidarietà. In ogni caso, il sillogismo si riferisce, mediante un principio universale, immanente all‟identità del singolo, all‟applicazione della massima al caso dato, per fare di esso il „caso della mia massima‟ (KpV A 49, il corsivo è mio). L‟attuazione della regola universale al caso della massima formulata nell‟interpretazione della regola, comporta, poi, la manifestazione del progetto soggettivo in un mondo che può decretare il fallimento o il successo dell‟azione, e condurre eventualmente a rivedere il senso dell‟identità dell‟agente.

Torniamo all‟interpretazione kantiana del deposito. Il problema sollevato dall‟esempio è se la massima possa determinare la volontà solo secondo la forma, senza presupporre la materia del volere. La legge morale è il principio secondo cui giudicare se la massima della cupidigia (Habsucht)429 – aumentare il patrimonio con tutti i mezzi sicuri430 – possa ricevere la forma di una legge pratica, che, in quanto legge, sia oggettiva, cioè universale e necessaria. La risposta di Kant è che la massima di una passione (nell‟esempio, la cupidigia), anche se è formata secondo il desiderio universale

428Kant, nota, tuttavia, fra le questioni casistiche reltive al dovere di beneficenza, che „la possibilità di

essere benefico, che dipende dai beni di fortuna, è in massima parte una conseguenza dei privilegi di cui godono certi uomini grazie al‟ingiustizia del governo la quale, introducendo una diseguaglianza nelle condizioni di benessere, rende necessaria la beneficenza fatta da altri. In un tale stato di cose, l‟assistenza che il ricco può concedere al povero merita essa ancora il nome di beneficenza in generale, di cui si va così volentieri superbi come di un merito?‟ (MC, p.323)

429 Per un approfondimento del significato della cupidigia, come passione volta a esercitare potere sugli

altri uomini attraverso l‟interesse allo scambio di beni, rinvio al §85 dell‟Antropologia da un punto di

vista pragmatico (1798). Per una discussione „appassionata‟ sul tema, solitamente trascurato, delle

passioni in Kant, si raccomanda la lettura di A.Wood, Kant‟s Ethical Thought, 1999; sulla cupidigia, in partic., cfr. pp.253,261.

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Il riferimento alla „sicurezza‟, cioè all‟impunità, serve a determinare il caso dato rispetto alla sfera dei moventi morali e distinguerlo dall sfera del diritto, in cui vale l‟indifferenza della coercizione delle leggi pubbliche a tali moventi e la possibile efficacia del movente eteronomo della paura della pena.

di felicità, non può essere elevata a legge431 pratica universale. Il principio materiale dell‟amor di sé o felicità è un universale dato dal costitutivo „essere-bisognoso‟ (cfr. KpV A 108) dell‟uomo, la cui soddisfazione è condizionata dal rapporto fra la capacità di sentire piacere e dispiacere – coscienza dell‟accordo o disaccordo della forza vitale con oggetti esterni432 che la modificano, stimolandola o deprimendola – e una facoltà di desiderare inferiore, che nella realtà è formata in modo particolare e contingente per ogni soggetto, e non può fornire leggi pratiche (specificazioni dell‟imperativo ipotetico indeterminato che prescrive di ricercare felicità), che valgano universalmente per tutti gli esseri razionali, rendendo concordi i loro fini privati. La massima della cupidigia non

431 Si tenga presente che, stando al primo capitolo dell‟Analitica della seconda Critica, sia le massime che

le leggi sono principi, cioè determinazioni universali della volontà, le prime valide soggettivamente, le seconde oggettivamente. Far valere la massima della cupidigia come principio significa, nell‟esempio del deposito, metterla alla prova come legge.

432 Le definizioni psicologiche di Kant, che sono tali in quanto astraggono dal contenuto del sentimento –

Wolff viene criticato perché distingue i piaceri in base all‟origine, sensibile o intellettuale, delle rappresentazioni- e isolano una forma, riconducendola a una facoltà del soggetto, mi paiono dominate dalla visione unilaterale per cui c‟è piacere o dispiacere di un oggetto presente ai sensi. Se l‟oggetto è dato, cosa resta alla funzione del desiderio, che deve produrre la realtà dell‟oggetto rappresentato? Non deve il desiderio, proprio in quanto è costitutivamente scontento e ricerca, anzitutto nella „rappresentazione‟, ciò di cui manca, presupporre la negazione dell‟oggetto dato? Come spiegare i piaceri per oggetti assenti? Se l‟affezione occupa tutto il campo, dove finisce l‟azione, l‟ autodeterminazione della forza del soggetto, implicata dal desiderio? Non è più appropriato concepire piacere e dispiacere, hegelianamente, come „sentimento pratico‟, che dà avvio al superamento della mancanza, avvertita nel bisogno? L‟unico modo di rendere conto del rapporto fra sentimento e desiderio consiste nel pensare a un‟autoaffezione, per cui piacere e dispiacere lasciano memoria della rappresentazione degli oggetti dell‟affezione, i quali, dopo il venir meno della loro presenza, lasciano al desiderio, accompagnato dall‟immaginazione (che riproduce o si rappresenta gli oggetti assenti), il compito di riprodurre nell‟esistenza le condizioni del piacere e impedire quelle del dispiacere. Mettendo da parte i casi-limite, come quello del masochista, per cui la relazione di piacere e dispiacere con la forza vitale è invertita, in base alla rideterminazione di essa secondo un contenuto, conscio o meno, del carattere, va detto che il lavoro dell‟immaginazione nel desiderio, se non vuole essere un eterno ritorno dell‟uguale – rappresentazione non è ripresentazione -, è in realtà, per il distacco da appagamenti istintuali, o già esperiti dal carattere empirico, e per la necessità di rispondere al mutare delle situazioni ambientali, più la produzione di un novum, capace di retroagire sul sentimento e di modificare situazioni date, che una riproduzione, del genere di quella di cui Kant parla nella triplice sintesi della deduzione A delle categorie. Nel caso di oggetti già esperiti o prefigurati, come avviene nell‟istinto, dalla nostra animalità, il sentire è il presupposto del desiderare; nel caso di oggetti o fini da produrre in assoluta spontaneità, abbiamo, nell‟ordine, il bisogno (sentire l‟assenza come privazione), il desiderare, come produzione illuminata dalla riflessione su mezzi e scopi, e infine il sentire come godimento dell‟oggetto prodotto.