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2. DALLA COMUNITÀ AL LAVORO INTEGRATO

2.3 Essere professionisti oggi

2.3.1 Formazione di base, in servizio e supervisione

Il valore e la sempre maggiore necessità di processi d’integrazione professionale nel lavoro nei servizi portano a ritenere che la formazione di base e la successiva formazione-aggiornamento di servizio ne debbano tener conto: “molti degli operatori

psico-sociali […] che si avvicinano per la prima volta ai servizi pubblici territoriali […] sanno poco di ciò che accade, o delle diverse difficoltà che incontreranno nell’esercizio della professione, nel rapporto con gli utenti, ma anche nella relazione con i colleghi”.125

123Cirillo S., Cattivi genitori, Raffaello Cortina, Milano, 2005, p. 24

124Bertotti T., Bambini e famiglie in difficoltà, Carocci Faber, Roma 2012, p. 206

125Mazza R., “Formazione psico-sociale post-universitaria per l’assistente sociale”, Prospettive sociali e sanitarie, 41/ 7, 2011, p. 2

Questi percorsi non sono da considerarsi come panacea dell’integrazione (sono altrettanto importanti le condizioni istituzionali, organizzative, gestionali), ma hanno certamente un peso nel creare quella forma mentis che predispone all’integrazione. La formazione di base fornisce conoscenze e abilità, ma ha anche la responsabilità di costruire le basi per un’identità professionale chiara, solida e flessibile. In particolare, per le professioni di aiuto la chiarezza e la solidità dell’identità professionale poggiano, in gran parte, sulla consistenza dei loro fondamenti etico-scientifici, quindi su una base culturale forte che dà contenuto al corredo tecnico-metodologico. Per evitare il rischio, oggi non tanto raro, di ridurre la professionalità a solo tecnicismo o specialismo, oltre che una specifica preparazione metodologica e tecnica, è importante munirsi di una professionalità che abbia chiare le ragioni, le finalità, i principi culturali ed etici della propria identità. Infatti i processi d’integrazione sono incontri-scontri fra identità differenti e richiedono personalità forti, solide e flessibili, non rigide e chiuse, tali da produrre relazioni d’interdipendenza e non di fusione o di omologazione: “lavorare in

èquipe in un servizio pubblico non significa eliminare le differenze tra i membri che la compongono, né creare subdole omologazioni di ruoli e di funzioni. Le differenze sono per fortuna ineliminabili […]. Financhè le storie individuali, che fondendosi con i modelli teorici prescelti e le premesse mentali di ciascuno incidono non poco nelle relazioni interne e nella scelta degli interventi”126.

Quanto gli ordinamenti didattici dell’università garantiscono una formazione di questo tipo? “Quali siano le formazioni più opportune e quali le metodologie più adeguate per

muoversi tra famiglie afflitte da molteplici difficoltà, dove le sole formazioni universitarie, o training istituzionali, non sempre coprono l’ordine delle cose da fare o da risolvere”127.

Come riporta Scortegagna R.: “l’Università […] ha il compito di definire gli

ordinamenti didattici dei corsi di laurea, scegliendo quindi i contenuti teorici pratici con cui connotare i diversi profili professionali […] tali scelte non potranno prescindere dalle definizioni dei profili di cui si è appena detto, in modo da essere sempre congrue con le esigenze espresse dal sistema dei bisogni e da quello degli obiettivi della politica sociale”.128 In quest’ambito si apre quindi una dimensione prima

126Mazza R., “L'èquipe come risorsa nel lavoro dell'assistente sociale”, in Rassegna di Servizio Sociale, XXXVI, 1997, p. 38

127Mazza R., in Prospettive sociali e sanitarie,41/ 7, 2011, p. 2 op. cit.

128Scortegagna R., “Welfare, riforma universitaria e ruolo degli istituti di ricerca”, La rivista di servizio sociale, XLI, n. 2/2001, p. 87

assente nell’università italiana: l'esigenza di superare la tipica chiusura e autoreferenzialità dell’accademia. Nella programmazione dei propri percorsi formativi l'università non può prescindere dal confrontarsi con il mondo del lavoro, delle professioni, delle politiche sociali e socio-sanitarie. E’ richiesto a livello istituzionale, fra soggetti diversi che storicamente non hanno mai lavorato insieme, un processo di negoziazione (un’integrazione!).

Puntare sulla formazione per una solida identità professionale non è in contraddizione con l’esigenza, altrettanto importante, che questa allarghi gli orizzonti alla conoscenza di teorie, metodi, principi operativi di altre professioni, con le quali poi si troverà a collaborare. Non bisogna pensare ad un accumulo di una gran quantità di conoscenze in sé, quanto, invece, alla qualità formativa intesa come lo sviluppo di un atteggiamento critico e di ricerca, di disposizione a comprendere e accettare la pluralità di linguaggi, di punti di vista e la loro relatività.

Oltre a seminari, laboratori in cui sono resi visibili le interrelazioni tra discipline, ad esempio intorno a un tema o a un fenomeno complesso, anche la trattazione specifica di ogni singola disciplina può porre attenzione alle valenze di connessione, di complementarietà con altri ambiti conoscitivi.

Quest’ottica interdisciplinare, per certi versi, stravolge la logica disciplinare tradizionale e la sua realizzabilità è legata a molti fattori, non ultimi quelli della disponibilità di risorse, dell’adozione di strategie più collegiali per la costruzione dei piani didattici e di un confronto più istituzionale con il mondo del lavoro.

Rispetto invece all’acquisizione di abilità per predisporre all’integrazione, è altrettanto importante lo sviluppo di capacità di lavorare con altri (cosa che solo in parte è garantita dal bagaglio teorico-culturale). Lavorare in gruppo, imparare a discutere, ad ascoltare, a documentare un lavoro collettivo è lasciato alle scelte didattiche dei singoli responsabili della formazione. Si potrebbe pensare sia a formule didattiche attive quali esercitazioni di gruppo, discussioni collettive, ecc, sia a dare risalto alle metodologie e tecniche del lavoro per progetti (pratica oggi ampiamente in atto nei servizi) in quanto l’acquisizione di conoscenze e abilità programmatorie è esigenza diventata comune a molte professioni sociosanitarie e offre importanti strumenti all’integrazione professionale.

Più specificamente, per la formazione dell’assistente sociale è necessario superare la logica positivistica che concepisce la pratica professionale come applicazione di una teoria che definisce le regole da applicare ai problemi durante il percorso di aiuto e che identifica il lavoro del professionista nel diagnosticare il bisogno e nello scegliere quale

intervento applicare con una metodologia centrata sull’esperto: è il professionista che possiede le conoscenze necessarie alla soluzione dei problemi consegnati dai suoi interlocutori. Certamente è una concezione legata al senso comune: quando ci si rivolge a un professionista è perché non si è in grado di risolvere un problema e l’aspettativa è che quest’ultimo trovi una soluzione per noi. Stesso senso comune ha lo studente che apprende una professione sociale, egli si aspetta di avere dalla teoria delle regole chiare e precise da applicare poi nel lavoro. Per superare questo limite, occorre concepire il rapporto teoria-pratica rifacendosi al modello costruttivista per il quale la conoscenza non è esclusivamente un prodotto (dato acquisito che precede la sua traduzione in azioni dirette a modificare la realtà) bensì un processo nel quale le conoscenze utilizzate con le situazioni specifiche vengono costruite sul campo, attraverso l’interazione tra l’esperto e la rete delle persone immerse nel problema e disponibili ad affrontarlo. In questa prospettiva le conoscenze acquisite (prodotto) sono comunque utilizzate poiché ci permettono la comprensione, ma non dirigono l’azione: l’agire professionale viene costruito dentro il processo di comprensione e interpretazione e non è quindi assicurato dall’aderenza a regole precostituite. C’è quindi una stretta corrispondenza tra le dinamiche legate all’esercizio della pratica professionale nel lavoro sociale e le dinamiche legate all’apprendimento e alla formazione: lo studente deve avere la possibilità di agire sulla propria esperienza, non essere bloccato da teorie e modelli prescrittivi che tiene a mente per poi ricordarseli quando arriverà il momento di eseguire l’intervento. In questo modo, il formatore è osservatore e guida dell’azione consapevole (agency) dello studente, proprio com’è da intendersi l’aiuto sociale di sostegno e stimolo dell’agency (al meglio di ciò che è possibile) delle persone immerse nei loro problemi di vita e attraverso lo sviluppo di capacità di controllo delle loro esperienze129.

All’interno della formazione di base, il tirocinio professionale addestra anche a saper lavorare con altri, ma generalmente questo avviene in modo un po’ casuale secondo il tipo di contesto, di problemi, di caratteristiche del servizio in cui si svolge l’esperienza. Solo dall’esperienza si possono consolidare motivazioni, penetrare e riconoscere significati concernenti la professionalità, intravedere strategie e difficoltà, movimenti integrativi presenti (o assenti) all’interno o all’esterno dell’organizzazione. Affinché il tirocinio diventi davvero esperienza è tuttavia indispensabile attivare dei dispositivi che sviluppino capacità riflessiva, sia individuale sia collettiva. Il valore formativo del tirocinio raggiunge il suo fine proprio nella possibilità di appropriarsi di strumenti di 129Folgheraiter F., 2006, pp.205-209 op. cit.

lettura e di dare un'immagine concreta della complessità dei problemi e anche della realtà, meno visibile, dei contesti di lavoro.

Dare peso fin dalla formazione di base alla capacità d’integrazione fra teoria e pratica, distinguendola da processi di omologazione, o di eccessiva autoreferenzialità, o di dipendenza è una competenza che non può essere lasciata unicamente allo studente o delegata al mondo del lavoro: deve essere sostenuta da forme di accompagnamento di cui deve farsi carico l’istituzione formativa.

A tal proposito sono interessanti le riflessioni di Mazza R. (2011) sulla formazione della professione di assistente sociale in cui si prevede un “percorso di formazione

psico-sociale post universitario” mirato al processo di aiuto e counseling che permetta

un lavoro di analisi su se stessi e sulle proprie motivazioni e parallelamente addestri, fornendo strumenti più operativi, per il lavoro sociale: “Nulla garantisce che un

professionista assistente sociale possa divenire capace e competente nella gestione del caso, e privo di elementi proiettivi determinati dalle proprie esperienze, ma certamente la Scuola potrà potenziare quella base “scolastica” e quelle “predisposizioni” all’azione d’aiuto che dovrebbero animare le motivazioni professionali di chi svolge un’attività complicata e di grande responsabilità.” 130

Con l’entrata nel mondo del lavoro, la formazione-aggiornamento ha comunque grandi potenzialità di promozione e di rafforzamento dei processi integrativi nei servizi poiché è nella concretezza quotidiana che diverse professionalità s’incontrano (o scontrano). E’ fondamentale la conoscenza dell’altro professionista (dei suoi riferimenti teorico- culturali, del suo apparato tecnico-metodologico) che nei servizi spesso avviene in modo spontaneo e, generalmente, è carica d’implicazioni emotive, condizionata dalle contingenze, dai problemi legati all’assetto organizzativo e dalle esperienze derivate da contesti estranei al servizio. E’ una conoscenza, quindi, che rischia di perdere qualsiasi carattere di razionalità e realismo, risolvendosi spesso in pregiudizi, immagini stereotipate e interpretazioni arbitrarie dei comportamenti reciproci. In tali situazioni, la formazione può assumere il ruolo di terzo equidistante: dà motivazioni e strumenti per conoscersi in un altro modo sganciandosi da condizionamenti non controllabili o da giudizi non motivati. Il riferimento è a percorsi formativi che coinvolgano direttamente i partecipanti e le loro esperienze quotidiane. In questo contesto conoscersi significa 130 Mazza R., in Prospettive sociali e sanitarie,41/ 7, 2011, p. 2 op. cit.

sviluppare capacità di ascolto, di parlare in modo comprensibile, d’interrogare e d’interrogarsi. Il setting formativo aiuta a guardare un po’ più liberamente se stessi e gli altri, permettendo di analizzare le proprie rappresentazioni soggettive dell’altro e le sue implicazioni emotivo-affettive, sul senso e sui motivi di certi comportamenti e modelli d’intervento. Al contempo, il riferimento all’esperienza portata dai partecipanti garantisce l’ancoraggio agli oggetti concreti del lavoro e agli obiettivi operativi cui tutti sono chiamati. L’ esperienza stessa della formazione è crescita, sperimentazione di scambi, di negoziazioni, di atteggiamenti di ricerca e di curiosità. Lo sviluppo di questa capacità di riflessione collettiva è l’apprendimento più efficace e dimostra nei fatti come i processi integrativi sono a loro volta processi di apprendimento soprattutto se pluriprofessionale, in quanto luogo di acquisizione di modalità e strumenti per leggere e valutare i problemi con criteri interprofessionali e costruire fra professionisti e fra servizi progetti comuni.

È appurato oramai che il lavoro sul territorio e la complessità dei bisogni richiedono differenti soggetti chiamati a costruire obiettivi comuni. Questo implica necessariamente il lavoro con la rete professionale e la presa in carico di più servizi- professioni, cioè di una convergenza di competenze professionali diverse, di una multidisciplinarietà, di una multistituzionalità e di una dimensione collettiva nell’approccio alle problematiche del territorio. “E’ ormai acquisito che il lavoro nei

servizi non possa essere svolto se non dentro un gruppo di lavoro, un équipe, un team, al cui interno sia le differenze che le analogie dovranno trovare aree di comune condivisione ed accettazione”131. La costruzione di contesti collaborativi è strettamente

collegata alla necessità di integrare che non è un dato, ma richiede uno specifico impegno e prevede l’individuazione e la condivisione di obiettivi e dell’oggetto comune. Nel territorio, nella maggior parte dei casi, si tratta di costruire èquipe di lavoro temporanee sul caso in cui il filo conduttore è il comune interesse verso l'intervento: la realizzazione di percorsi di benessere per le persone. Il lavoro d’èquipe è quindi uno strumento operativo ma anche il metodo più efficace di lavoro per favorire il raggiungimento degli obiettivi comuni secondo i principi dell’unitarietà, globalità e unicità della persona. La necessità di affrontare le problematiche da diverse professionalità richiede competenza e specializzazione dello studio, dei compiti e il passaggio dalla competenza specifica alla sintesi collettiva. Il gruppo si costituisce sempre a partire da un compito che rappresenta l’aspetto razionale dell’attività mentale 131Mazza R., 2013, p. 11 op. cit.

dello stesso e, al contempo, si muovono sempre tendenze emotive molto forti che possono ostacolare il processo di sviluppo del gruppo verso il compito.132 Il lavoro

d’èquipe, inoltre, dà vita a un processo di reciproca costruzione di un patrimonio comune e diminuisce la quantità di specifico professionale di ognuno, ma ne aumenta la qualità e il livello di professionalità. In definitiva “il gruppo può funzionare in modo

autocorrettivo. Consente la comunicazione e la condivisione di ipotesi, la costruzione di percorsi terapeutici comuni, la comprensione e condivisione di strategie operative, la corresponsabilità sugli esiti, l'autoformazione. Ma anche la condivisione delle emozioni, la perdita dell'isolamento, la riflessività ed il tempo”133.

Nella realtà pratica, molto spesso, si nascondono e/o si presentano molte difficoltà soprattutto laddove esistono:

 un sistema e un’organizzazione poco comunicante tra operatori e servizi;  un contesto disomogeneo;

 una non focalizzazione da parte dell'operatore del proprio intervento su progetti unitari che definiscono e sostengono il lavoro sul territorio;

 la fatica e la complessità del caso;  conflitti e competizioni;

 “il limite reale di non avere un èquipe territoriale non attrezzata al

trasferimento del pensiero clinico e della ricerca nella prassi quotidiana dei servizi”134.

È in questi ambiti che potrebbe essere opportuno strutturare un percorso di supervisione per uno spazio “metariflessivo” che definisca un luogo ed uno spazio-tempo dedicato a pensieri ed emozioni legati all'agire professionale135, indirizzi le energie degli operatori,

mantenga il focus sulla rete e contribuisca alla costruzione di legami riducendo le distanze e i pregiudizi tra servizi o tra culture diverse di servizi. “ La supervisione

consente di lavorare con èquipe pluriprofessionali, dove i gruppi di lavoro divengono una delle più interessanti strade da percorrere per il raggiungimento di obiettivi soddisfacenti nella direzione dell’integrazione biopsicosociale, ma anche come pratica operativa per ricercare soluzioni originali e condivise”136. In questo modo la

supervisione ha come oggetto di intervento il gruppo di lavoro e, in particolare, analizza 132 Cellentani O., Manuale di Metodologia per il Servizio Sociale, Franco Angeli, Milano 1997, pp. 179- 181

133 Mazza R., 2013, p. 24 op. cit. 134Ivi p. 29

l’ “… esperienza di gruppo come condivisione mentale tra soggetti”137, il “vedere se

stessi come un tutto, come un insieme operativo […] l’emergere del sentimento del Noi”138, “il sentire il mio Io e il Noi, […], perfettamente integrati in discorsi che

fluivano gli uni negli altri (il mio pensiero scorre in quello del gruppo e quello del gruppo scorre dentro di me)”139, “… il dialogo possibile tra una mia testa-io ed una mia testa-noi”140. All’emergere, attraverso la supervisione, della dimensione gruppale,

cedendo spazio all’interazione dinamica di gruppo mediante la valorizzazione dell’apporto di più menti, l'èquipe migliora il suo funzionamento e contribuisce alla crescita del gruppo: “è il senso del noi, dell’identità gruppale, che sfuma nel gruppo i

confini individuali e consente quell’oscillazione gruppo-individuo necessaria per lo sviluppo di un pensiero gruppale”141. Si tratta di stimolare il gruppo a comunicare ed a

superare alcune inibizioni attraverso “libere associazioni” che “ … vengono valorizzate

e connesse tra loro, consentendo di costruire nuove idee più complesse, […]. Il conduttore accoglie i contenuti presenti nei racconti o nelle relazioni dei partecipanti, ma anche le comunicazioni meno consce, quelle non verbali […]. Cerca di connettere i due elementi nelle restituzioni al gruppo, fondendo riflessioni sui contenuti e su aspetti meno definiti, esplicitando ipotesi, sottoponendole alla verifica (o a falsificazione) del gruppo, stimolando retroazioni in funzione di un possibile cambiamento”142. In

definitiva la supervisione può migliorare le capacità tecniche degli operatori, ma, soprattutto, creare un “denominatore comune”, quale riferimento dentro e tra i diversi servizi in collaborazione tra loro, che superi, appunto, la “cultura del servizio” affinché il processo di aiuto sia una funzione del gruppo di lavoro-équipe e non più del solo e singolo operatore143. Per cui, concludendo, “la circolarità comunicativa valorizzante

non inibisce, ma contribuisce alla crescita del gruppo alimentando il coinvolgimento e

136Mazza R., “ La supervisione psico-sociale in équipe inter-istituzionali” in Rassegna di Servizio Sociale, 2012, pp. 61-62

137Grabbriellini G.., Il pensiero gruppale nel lavoro con il paziente, nella supervisione, nei servizi, Felici Editore, Pisa 2013, p. 6

138Neri C., “Servizi psichiatrici territoriali: qualcosa di più della discussione del caso clinico nella supervisione di gruppo?”, in Grabbriellini G., 2013, p. 55 op. cit.

139Guelfo M. “Esperire precursori di pensiero gruppale in un insieme di analisti all’interno di un istituzione convegno” in Gabbriellini G., 2013, pp. 113-114 op.cit.

140Ivi, p. 115

141Smorto G., “Noi-se stressi”, in Gabbriellini G., 2013, p. 138 op. cit. 142Ivi pp. 147-148

la sintonizzazione, favorisce nuovi interventi e consente al conduttore un miglior coordinamento del gruppo”144.

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