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2. DALLA COMUNITÀ AL LAVORO INTEGRATO

2.3 Essere professionisti oggi

2.3.2 Professione assistente sociale

In alcuni dettati legislativi si trovano riscontri del concetto d’integrazione, come espressione del dovere dello Stato di rispondere ai complessi bisogni del cittadino valutato nella sua globalità come persona cui va assicurato uno stato di benessere bio- psico-sociale. Da qui discendono una serie di soluzioni che si traducono in norme codificate di sistemi e sottosistemi attivando processi che si concretizzano attraverso azioni e collaborazioni tra più attori istituzionali, che agiscono per obiettivi comuni, preposti al compito di garantire la soddisfazione della domanda.

Nella sua essenza l’integrazione è il valore-dovere attorno al quale i sistemi dei servizi alla persona, in particolare quello sanitario e quello sociale, costruiscono modelli organizzativi e modalità operative che si sviluppano, per un obiettivo condiviso (risposta alla domanda/bisogno in termini di qualità e di efficacia/efficienza dell’intervento), attraverso il concorso di più professioni tra loro comunicanti e interagenti.

Le professioni dell’ambito sociale e sanitario operano dentro sistemi complessi e ciò rimanda, a più livelli, ad una necessaria scomposizione attraverso cui realizzare l’integrazione di servizi, di interventi e di professioni. Esistono pluri-professionalità con pluri-appartenenze e non, istituzionali e non, che determinano prassi e forme d’integrazione diversificate e le appartenenze organizzative, con maggiori e minori poteri, agevolano o appesantiscono i processi d’integrazione. La professione dell’assistente sociale, legittimata da mandati istituzionali più ampi e complessi, costruisce e rafforza la propria identità professionale. All’interno di questo composito sistema, la professionista implementa le proprie competenze e funzioni e, in alcune realtà, consolida la sua posizione consentendole di esprimere al massimo le sue potenzialità. Infatti, la base teorica e i principi del servizio sociale professionale e della professione di assistente sociale trovano molti riferimenti nelle nuove tendenze delle politiche sociali. La professione ha proprio come scopo il superamento tra teoria e pratica attraverso l’integrazione di questi due momenti. E’ insito dell’agire professionale dell’assistente sociale il senso del connettere: istanze ed elementi diversi entrano infatti 144Mazza R., “Supervisione e lavoro di gruppo nei servizi pubblici” in Gabbriellini, 2013, p. 148 op. cit.

in tutte le fasi della propria attività, dall’osservazione all’ascolto e alla valutazione del bisogno, sia per persone singole sia per sistemi più complessi. Questa professione, quindi, riconosce e fa proprio il concetto d’integrazione sia come valore, rispetto alla qualità dell’intervento, sia verso l’utente, considerato nella sua globalità e nella sua complessità. Ha altresì la stessa necessità professionale sia nella fase di ricomposizione del progetto sia nell’utilizzazione delle risorse, siano esse individuali o dell’ambito sociale.

La professione di assistente sociale, infatti, è quella che forse più di altre interpreta il concetto d’integrazione già nella sua essenza, quando le politiche sociali e socio sanitarie nei servizi alla persona hanno adottato l’ottica d’integrazione interprofessionale riconoscendola come efficace metodologia di lavoro.

L’abilità dell’assistente sociale si esprime nella misura in cui catalizza e raccorda più lavori innescando e controllando un processo di crescita, di emancipazione, in cui gli attori sono principalmente gli stessi utenti e tutti quei soggetti, istituzionali e non, che concorrono al processo stesso.

Oggi, proprio quando il lavorare insieme in servizi multiprofessionali ha perso molto dell’iniziale carica ideologica ed ha cessato di essere una pratica naturalmente connessa al pensiero e all’agire professionale e quando altri fattori (nuovi assetti istituzionali ed organizzativi, nuove scelte economiche e gestionali, nuove spinte e nuove prerogative di affermazione delle professioni) sono intervenuti incidendo su questo modo di operare e strutturando percorsi di separazione, l’integrazione ha assunto una valenza ricca di significati, diventando impositiva e cogente.145

Non si può non riconoscere come il problema di una visione prevalentemente economicistica dei servizi sociali e sanitari e la conseguente necessità di meglio razionalizzare l’attività di programmazione degli enti (Comuni-Ausl) abbiano causato divisioni (delle risorse economiche, umane, di gestione di progetti) con ricadute sull’operatività fino al livello dei rapporti tra professionisti. E’ indicativo che proprio quando sul piano dell’organizzazione i servizi si sono trovati con unità operative monoprofessionali e gli enti si sono ripartiti nettamente le competenze, lottando strenuamente ciascuno per il proprio risparmio (sono presenti anche fattori esterni legati ad una progressiva moltiplicazione e interrelazione dei problemi e ad una complessità di problematiche sempre meno scomponibili), è tornata l’esigenza di riproporre 145Spisni L. e Manferoce D., “Dalla metafisica alla pragmatica dell’integrazione. Alcune riflessioni degli assistenti sociali”, in Diomede Canevini M. e Vecchiato T., 2002, pp. 97-103 op. cit.

l’integrazione, legando a ciò qualità ed efficacia, come modalità di affrontare il lavoro in ambito sociale e socio sanitario, sia in termini politici sia professionali. La complessità dei soggetti, sia di domanda sia di offerta, la pluralità sempre maggiore di referenti pubblici e privati, individuali e collettivi, richiedono un adeguamento delle modalità di collaborazione, di aggregazione e di integrazione.

Da questa complessità con appartenenze e differenziazioni è necessario realizzare una nuova integrazione, da parte delle professioni impegnate nei servizi alle persone, attraverso il riconoscimento e la conferma dei diversi ruoli146

La legge quadro di riordino dell’assistenza (L.328/2000) ci mette in questa ottica ed è sicuramente consona alle aspettative degli assistenti sociali (presa in carico globale delle situazioni problematiche, intervento interdisciplinare e interistituzionale, integrazione tra istituzioni diverse su programmi e progetti) nell’indicare l’integrazione anche attraverso la programmazione concertata che consente di individuare e di mantenere, lungo tutto il processo di aiuto, saldi punti di riferimento e il concorso di pluralità di professioni e di risorse in un’ottica moderna, consapevole, condivisa e partecipata. Anche le analisi economiche e sociali registrano come “i bisogni della nuova società

post moderna e globalizzata tendono ad intrecciarsi fortemente e presentano numerose forme di sovrapposizione. L’individuo o il gruppo sono la vera unità di riferimento per un set di servizi intrecciati che devono superare gli steccati sia burocratici sia ideali preesistenti” (Cnel, 1999)147 .

Può essere questa un’ottica per far crescere una cultura del sociale?

La propensione delle professioni a una sempre maggior autoreferenzialità dovrebbe essere superata e analizzata in un’ottica diversa e forse più chiara che consenta di fare emergere le competenze, in quanto le diverse professionalità impegnate a lavorare su progetti comuni vanno riconosciute nella propria specificità professionale e nelle proprie capacità. Questo riconoscimento diventa al contempo garanzia e tutela per ciascuno, ma anche maggior coinvolgimento nella responsabilizzazione e quindi premessa indispensabile alla qualità dell’intervento globale. Per cui anche gli assetti organizzativi diventano elemento cruciale circa la possibilità che premesse teoriche e d’intenti trovino nella pratica la giusta attuazione.148

146Ivi, pp. 103-105

147CNEL, Rapporto sulla coesione sociale, 1999 148Spisni L. e Manferoce D., 2002 , pp. 101-105 op. cit.

La tendenza, per alcuni versi predominante, a specializzare gli interventi rende ancora più necessario superare la frammentazione e agire in una dimensione di interdipedenza, funzione in capo all'assistente sociale, a cui spetta costruire convergenza tra i diversi punti di vista, facilitare il riconoscimento delle competenze specifiche, legittimandone la presenza e il ruolo nella rete. L'assistente sociale, in quest'ottica, deve diventare una figura stabile nel tempo, ben definita e chiara all'utente. I bisogni della famiglia, nelle sue fasi evolutive, non si possono vedere scissi per aree, categorie o settori: qualunque sia il problema emergente o il paziente designato essi sono interagenti, richiedono più competenza e più flessibilità e come tali vanno affrontati, pena il fallimento. In questo la persona potrà e dovrà sempre più intervenire con la propria partecipazione attiva e consapevole e gli assistenti sociali sanno che tutto ciò rappresenta una forte sfida, sanno che questo vuol dire anche sapersi confrontare con altre professioni e che ciò può determinare un arricchimento per tutti.

3 … E SUL TERRITORIO? LA LETTURA DI UN CASO 3.1 Premessa

In questo capitolo cercherò di fare una descrizione di ciò che accade in una realtà comunale, al di là delle teorie e delle disposizioni normative. E’ il tentativo di trarre una fotografia d’insieme, dopo anni di esperienza di lavoro in un servizio sociale territoriale, non solo per documentare l’esistente, ma anche e soprattutto per individuare a livello pratico e quotidiano le svariate e faticose prassi agite sui territori dall’assistente sociale.

L'operare professionale dell'assistente sociale si costruisce dentro un processo di comprensione che si definisce in itinere e si sviluppa insieme a tutti i soggetti che ruotano attorno al problema, non da ultimo la persona e la famiglia stessa.

Il contesto territoriale è quello di un Comune di dimensioni medio-piccole appartenente ad una zona (costituita da 11 Comuni, compreso il capoluogo di Provincia) che gestisce autonomamente le proprie funzioni di tutela dei minori attribuendo al servizio sociale (ufficio presso la Casa della Salute e costituito da quattro Assistenti Sociali di cui una con funzioni di coordinamento) tutte le attività di sostegno al minore e alla sua famiglia (con o senza decreto del tribunale). Non è presente un’èquipe multidisciplinare integrata (composta da diverse professioni e da diversi servizi) e non ci sono con i servizi della A.usl accordi di programma né protocolli d’intesa, convenzioni o linee guida, per il trattamento o la presa in carico delle persone o famiglie con bisogni multidimensionali per la tutela minorile. Come si vedrà in quello che fungerà da guida nel presente capitolo, questa èquipe può essere formata (teoricamente) intorno al caso, tuttavia l’esperienza e il confronto personale con le diverse realtà mi consentono di asserire che nel servizio pubblico dell’Azienda è frequente la tendenza a far prevalere un’ottica verticistica a discapito della territorialità. Da ciò consegue il ricorrente scontrarsi con un servizio specialistico che limita in pratica la propria azione alla mera valutazione “diagnostica” del caso anziché alla sua effettiva presa in carico. Cercherò quindi di comprendere se e come le varie figure professionali coinvolte si muovono, si relazionano, interagiscono e si integrano al fine di giungere a quella “mente collettiva”149 “che possa rispondere a problemi troppo impegnativi per un singolo […] e

avvicinarsi maggiormente alla complessità”150.

149Mazza R., Terapie Imperfette, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2016 p. 24 150Ibidem

Intorno al caso di P. si è formato un organismo complesso che ha richiesto l’integrazione di più livelli (istituzionale, gestionale e professionale). La costituzione dell'èquipe integrata è avvenuta con difficoltà a causa della molteplicità non solo numerica e professionale degli attori ma anche della loro oggettiva distanza fisico- geografica. Nel caso descritto, le competenze professionali dell'assistente sociale si sono esplicate in un processo di accompagnamento che ha permesso di bilanciare le complesse problematiche e di introdurre spazi di cambiamento. Ciò ha favorito il superamento di difficoltà apparentemente insormontabili.

In tale frangente, la professionista ha operato rivolgendo la sua attenzione al cogliere i diversi punti di vista, mantenendo sani e positivi equilibri all’interno del gruppo di lavoro, senza assumere schemi rigidi. In tal modo ha facilitato la costituzione di una competente corrispondenza tra i diversi punti di vista e le diverse posizioni professionali; prospettando così una collaborazione basata sul riconoscimento reciproco delle specifiche competenze e legittimando il ruolo e la presenza di ciascun professionista nella rete.

3.2 Il caso di P.

Il caso di P, 14 anni, è arrivato all’attenzione del Servizio Sociale comunale a seguito della richiesta (gennaio 2015) della Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, di breve e preliminare relazione socio familiare per eventuale ricorso al Tribunale per i Minorenni (d’ora in avanti indicato T.M.). Al fascicolo era allegata la denuncia dei genitori alle forze dell’ordine del 12 dicembre 2014 in cui il padre adottivo riferiva che il figlio si era allontanato da casa, la sera prima, subito dopo cena a seguito di una accesa discussione con la madre adottiva.

L’indagine ha fatto emergere la storia pregressa di P: adottato all’età di 5 anni da un Paese dell’Est Europeo dove era nato da famiglia di etnia Rom costituita da padre, madre e 8 fratelli (di cui un fratello gemello di P.). Ha vissuto per i primi 6 mesi di vita in famiglia in condizioni psico-ambientali fortemente disagiate e incuria da parte dei genitori naturali che lo avevano abbandonato in Ospedale a seguito di un problema gastrointestinale. Da quel momento P. ha trascorso la sua vita in orfanotrofio fino dell’adozione. Viene riferito che dall’inserimento in istituto il bambino non ha più ricevuto notizie da parte della famiglia d’origine. P. in istituto si era sviluppato con un ritardo psicomotorio ed aveva manifestato un reflusso gastro-esofageo, ma nel tempo si era verificata una ripresa ponderale e globale dello stato di salute fisico.

L’adozione ha avuto un apparente buon decorso: P. sembrava essersi ben integrato nella famiglia (anche allargata) con rapido apprendimento della lingua italiana e all’epoca dell’inserimento nella scuola dell’infanzia presentava una buona interazione con i pari e non manifestava problematiche comportamentali. All’inserimento nella scuola primaria sono stati segnalati, da parte degli insegnanti, problemi di “attenzione sostenuta e concentrazione” soprattutto nella letto scrittura e nella comprensione del testo, oltre ad una scarsa iniziativa all’interazione con i pari e alla preferenza di relazione con adulti. Quando è stato conosciuto P., durante i colloqui individuali è stato rilevato un vissuto di grave sofferenza e il suo desiderio di essere allontanato da casa: si sentiva arrabbiato, in casa discutevano continuamente e lui non li sopportava più, specie la madre. Aveva una opinione molto negativa dei propri genitori adottivi e dichiarava di non essersi mai sentito accettato: “riconosco la loro valenza educativa ma non affettiva e genitoriale”. Gli allontanamenti da casa e i successivi agiti autolesionistici avevano avuto lo scopo esplicito di ottenere aiuto prima e di farsi ricoverare dopo.

L’assistente sociale è venuta inoltre a conoscenza che il ragazzo era seguito privatamente da una psicoterapeuta (da circa 5 mesi) e dai contatti con la stessa sono emersi un alto rischio di suicidio e di condotte pericolose. La psicoterapeuta ha sottolineato inoltre una scarsa collaborazione dei genitori nel sostenere il lavoro di psicoterapia del figlio, evidenziando una forte conflittualità di coppia e ritenendo entrambi i genitori instabili151.

Il quadro che era emerso quindi era quello di un ragazzo che manifestava una grave insofferenza verso i genitori, accusati con rigidità e distacco con la ferma volontà di essere allontanato dalla famiglia, e di due genitori che apparivano collaboranti ma scarsamente consapevoli della condizione psichica ed emotiva del figlio.

In via d’urgenza è stato fatto valutare dalla neuro-psichiatra infantile152 B.153 dell’Ufsmia

(unità funzionale salute mentale infanzia adolescenza della zona), da cui è emerso un disturbo misto dell’umore con azioni di discontrollo e pregresso autolesionismo, con grave possibilità di auto ed etero aggressività insieme ad un atteggiamento 151A suo avviso rifiutano il figlio poiché non lo sentono proprio e ipotizza l’allontanamento di P. dal nucleo familiare per far fronte allo stato di malessere profondo e il rischio di atti violenti auto o etero aggressivi. Dubitava fortemente che sia possibile recuperare un equilibrio familiare.

152P. espone all’assistente sociale pensieri e intenzionalità nel compiere gesti auto lesivi, manifesta

ideazione suicidaria e apatia.

153B. incontra il ragazzo in tempi brevi, anche e soprattutto, a seguito della richiesta scritta, su indicazione dell’assistente sociale, (indirizzata al Servizio Sociale e al direttore dell’U.O. di neuropsichiatria) della psicoterapeuta in cui riportava fatti che richiedevano la necessità di una valutazione neuropsichiatrica.

manipolatorio, molto seduttivo e compiacente. La specialista ha notato inoltre che manifestava tratti psicotici e una profonda rabbia.

Il tema dell’identità è sembrato essere centrale in P., che avvertiva la necessità di riappropriarsi delle proprie radici e di comprendere il proprio passato.

Nel rapporto coi genitori P. alternava momenti di reciprocità ed affetto a comportamenti ostili.

La situazione era complessa e molto vulnerabile e l’assistente sociale si è sentita caricata da tutto il peso delle problematiche e delle richieste che le venivano esplicitate (desiderio impellente del ragazzo di essere allontanato dalla famiglia e disperazione dei genitori che non riuscivano a farvi fronte con costante richiesta di indicazioni). La professionista pertanto ha valutato la necessità di esprimere parere favorevole per l’apertura di un fascicolo presso il T.M. condividendo tale scelta con la neuropsichiatra e con i genitori del ragazzo.

La decisione dell’assistente sociale di indicare alla Procura il ricorso al T.M. era caratterizzata dal dubbio sull’opportunità e sull’utilità dell’apertura di un fascicolo nell’interesse del minore “tra la convinzione della necessità di un intervento esterno per

sancire il bisogno di un cambiamento ed il dubbio che questa non sia la strada giusta”154.

All’inizio di marzo 2015 l’assistente sociale ha risposto alla Procura (la quale ha fatto subito ricorso al T.M.) e a metà marzo c’è stata la prima relazione al T.M. di aggiornamento su come ci si stava muovendo.155

In quei tre mesi l’assistente sociale era preoccupata, tutte le segnalazioni e le richieste arrivavano a lei: tutti i giorni succedeva qualcosa che faceva presagire il rischio di un atto inconsulto del ragazzo con agiti nei confronti della madre e di se stesso (“non mi sorprenderei se di notte si alzasse e ammazzasse la madre”, “se continua così si trova morto”): P. era incontrollabile e imprevedibile e i genitori apparivano impotenti e in qualche modo in balia del figlio, pur ritenendo di aver le competenze genitoriali per affrontare la situazione autonomamente alternando segnalazioni allarmanti a considerazioni del comportamento del figlio come di un normale adolescente: il padre esprimeva: “la nostra famiglia ha gli anticorpi per affrontare tutto questo”.

154Bertotti T., 2012, p. 145, op. cit.

155Ricovero ospedaliero per immediata protezione del ragazzo dai suoi agiti autolesionisti volto anche a valutarne la pericolosità e quindi di un trattamento farmacologico (richiesta scritta della neuropsichiatra)

L’assistente sociale ha sentito su di sé il peso e le pressioni di tutta la situazione e anche la ricerca di un confronto con la neuropsichiatra sembrava sterile e portava solo a concludere che: “è pericoloso, malato, bisogna portarlo via da casa”. La professionista non percepiva quindi un pensiero e contestava alla neuropsichiatra di aver visto il ragazzo una sola volta basando le sue affermazioni sul raccontato senza un’analisi reale di cosa stava succedendo nel nucleo familiare. La necessità per l’assistente sociale di una riflessione e di una presa in carico congiunta che tenesse conto delle implicazioni nell’interesse di tutte le parti aumentava sempre di più.

Costante è stato invece il confronto e il supporto col gruppo monoprofessionale (le colleghe dell’ufficio) che ha vissuto e ha assistito a tutto quello che avveniva. Il dilemma del ricorso al T.M. è stato tanto dibattuto in quanto la famiglia era collaborante, chiedeva aiuto e non si intravedevano elementi di tutela (non c’era incuria, maltrattamento e/o violenza che evidenziassero una situazione di pregiudizio per il minore), ma la necessità di una vera presa in carico psicosociale di tutto il nucleo familiare. La determinazione di coinvolgere l’autorità giudiziaria è stata presa insieme al gruppo monoprofessionale, soprattutto, al fine strategico di richiedere una presa in carico da parte della Ufsmia (si sperava che la prescrizione di una valutazione psicodiagnostica del nucleo familiare da parte del TM potesse aiutare il servizio sociale ad avere un partner e una presa in carico da parte del servizio di psicologia dell’A.usl) e se fosse emersa la reale necessità di un allontanamento del minore da casa, con gli elementi che si aveva, questo non poteva essere che in una struttura sanitaria in quanto una struttura educativa non poteva rispondere a un bisogno sanitario così importante. Inoltre, l’esigenza di un intervento esterno, visto nell’autorità giudiziaria, si riteneva necessario soprattutto nell’ipotesi di un inserimento del minore in una struttura sanitaria che avrebbe comportato un intervento economico a carico dell’A.usl e quindi la necessità di una precisa prescrizione da parte del Tribunale.

3.2.1 Cornice contestuale

P. è un ragazzo adolescente adottato, di 14 anni, frequenta il 1° anno di un istituto alberghiero, la sua famiglia ha buoni strumenti economici e culturali. Non appartiene al contesto sociale tipico che si presenta al servizio sociale territoriale, ma la drammaticità della sofferenza e la disperazione presente sia nel figlio che nei genitori rivelavano un quadro complesso che richiedeva di intervenire efficacemente. Il contesto può essere considerato coatto (presa in carico a seguito di richiesta d’indagine

da parte della Procura T.M.), ma il nucleo familiare si è presentato al Servizio senza alcuna resistenza, anzi per tutti e tre i soggetti era come se, proprio nel momento in cui venivano chiamati dall’assistente sociale, non vedessero l’ora di raccontare cosa stesse succedendo nelle loro vite, come se ad un certo punto avessero acquisito consapevolezza, e quindi la capacità di uscire dalla “forma famiglia per bene” e

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