2. DALLA COMUNITÀ AL LAVORO INTEGRATO
2.2 Rete e integrazione dei servizi
2.2.3 Teoria relazionale di rete ed interventi di controllo
A livello teorico gli operatori sociali si interrogano su come poter agire, sempre più e meglio, da “facilitatori di reti” tra gli enti-organizzazioni di cui fanno parte e le comunità di vita, ed ancora come “poter interagire con le relazioni vitali entro tali
ambienti, per far emergere dal basso progettazioni condivise”116. “Il lavoro sociale è
un'impresa relazionale complessa” che non si riduce a solo “prestazionismo”117 ed il
“lavoro relazionale è a sostegno di una forte reticolazione delle intelligenze e del senso
intuitivo del sociale”118. Questo comporta che l'intervento sociale non deve partire da un
evento negativo, ma da ciò che gli interlocutori degli operatori fanno in positivo. Ponendo al suo centro la relazione, la teoria relazionale di rete: “descrive il benessere
come una relazione tra l'agire di molteplici interessati ai quali si relaziona l'eventuale
116Folghereiteir F., 2006, p. 37 op.cit. 117Ibidem
professionista”119. Gli individui sono visti come agenti e l'operatore, agganciandosi alle
loro possibili azioni, sia pur deboli e bisognose di aiuto, riconosce il loro potere decisionale da cui nasce nuovo potere sociale produttore di benessere.
E’ possibile conciliare il lavoro di rete e la tutela minorile?
La teoria relazionale di rete appare in contraddizione e contrapposta alla responsabilità istituzionale della tutela minorile: come può l’assistente sociale ipotizzare la volontà coincidente con i suoi interlocutori? Le relazioni sociali con cui l’operatore si trova ad interagire non sono finalizzate al bene, sono distorte verso il male. I rapporti sociali non producono soluzioni, causano problemi: le reti e le correlazioni consolidate emergono come elementi strutturali che spingono le persone ad agire come produttori di male, piuttosto che originare comportamenti resilienti di opposizione. In queste situazioni l’assistente sociale non può collocarsi in linea con i suoi interlocutori poiché la sua finalità di professionista è incompatibile con questi: non può accettare ad esempio che un bambino venga maltrattato o violentato fisicamente o emotivamente e che i genitori, di proposito o meno, continuino a farlo o una mamma dimessa dal carcere e affidata in prova al servizio sociale continui a drogarsi o, ancora, che bande di adolescenti mettano in atto forti comportamenti di bullismo e/o devianti incuranti delle sanzioni.
Nella sua attività di controllo la responsabilità istituzionale sembrerebbe quella di bloccare e impedire: l’assistente sociale deve individuare un’azione dannosa e impedirla, legittimata dalla normativa vigente. In molti casi è necessario che questo avvenga ed è pure rilevante che in questo compito siano impegnati, assieme ai poliziotti e ai giudici, tutti gli operatori sociali: "La tutela del minore è- come si sa - un compito
che spetta indifferentemente a tutti i servizi pubblici e a tutti gli operatori, anche quelli che lavorano con gli adulti, compreso chi opera in contesti privati (comunità o studi professionali)"120.
Nello specifico si possono riconoscere all’assistente sociale tre complessive competenze che distinguono il suo agire da quello delle forze dell’ordine o del giudice: " (a) il
compito di diagnosticare il male agito e le sue conseguenze – […]; (b) il compito di «lubrificare» i provvedimenti coattivi dell’autorità giudiziaria grazie alle sue capacità di relazione interpersonale […]; (c) il compito di sradicare le cause sociali o relazionali del malessere, […]121. Sono funzioni sconnesse e faticose in quanto legate a
119Ivi, p. 38
120Mazza R., La supervisione psicosociale in èquipe interistituzionali, “Rassegna di Servizio Sociale”, 2, 2012, p. 61
rischi sociali difficili da diagnosticare (devono essere talmente evidenti o rischiano di rimanere sempre dubbi) che creano importanti sofferenze e anche le costrizioni istituzionali e gli interventi di protezione (ad esempio togliere i figli) sono spesso forti e atroci da far sembrare che nessuna capacità relazionale sia determinante. Superare queste difficoltà è possibile recuperando l’essenza del lavoro sociale, che è teso allo sviluppo di azioni buone, piuttosto che al blocco di azioni perverse: dobbiamo domandarci se esiste qualcosa da sviluppare e far crescere dentro le situazioni che vanno controllate e limitate, si tratta di cercare capacità residue su cui ricostruire nuove situazioni, in quanto “un agire si estingue quando un altro agire lo sostituisce,
auspicando che sia migliore”122. Il punto di vista relazionale ci induce a osservare bene
nelle situazioni di controllo e accertare che dentro un dato contesto di relazioni sociali, dove si collocano dolorosi e evidenti problemi, può presentarsi di tutto un pò: a fianco di comportamenti da arrestare ve ne possono essere altri che sono retti e tollerabili. Il criterio generale dell’attività di rete è quello di saper esaminare sempre il positivo del sociale considerato: l’assistente sociale deve sempre fare il possibile per guardare oltre il problema e le sue motivazioni, per intuire le condotte indirizzate verso le soluzioni. Anche nelle circostanze di grave rischio e devianza è verosimile che sia evidenziabile, nelle varie persone coinvolte, una qualche coscienza della situazione e una qualche intenzione di uscirne e spesso è anche probabile percepire delle azioni di coping già poste in atto che sono state in grado di produrre un qualche esito.
Nei contesti di tutela minorile l’assistente sociale non è solo garante che non vengano compiuti atti nocivi, è anche e principalmente garante che in quella situazione deteriorata, dannosa potenzialmente o di fatto, le abilità pro-sociali vengano individuate e, se possibile, favorite. In particolare, nelle relazioni sociali si possono rivelare intenzioni coincidenti per collaborare nel dare aiuto come, ad esempio, può essere presente in un nucleo familiare un soggetto pericoloso da controllare ed altri invece possono risultare incentivati a vigilare e ostacolare gli abusi. In certi casi più favorevoli, la persona dannosa può in qualche misura essere conscia del suo problema e disposta a prenderlo in esame per superarlo e l’eventuale misura restrittiva può allora essere un forte stimolo esterno per iniziare un processo di trasformazione da un agire cattivo a uno buono. E’ difficile equilibrare l’approccio autoritario e impositivo, tipico del controllo, e quello collaborativo e fiduciario dell’aiuto. Tutti gli interventi in questa situazione sono caratterizzati da una duplice valenza di controllo e sostegno ed è estremamente rilevante 122Ibidem
che essa venga tematizzata e governata adeguatamente nelle relazioni tra operatori e la famiglia e che questa possa comprendere il senso degli interventi di protezione. “Sul
riconoscimento di queste variabili si fonda la possibilità di costruire con il genitore un’alleanza fondata sulla condivisione dell’esistenza di un danno significativo per il bambino, che deve essere interrotto per poter sperimentare la possibilità di recuperare una relazione non dannosa”123.
Da qui l’osservazione di Bertotti T. in relazione alla funzione pedagogica del controllo e come in questo sia intrinseco un processo di cambiamento consapevole, educativo e di crescita. Rispetto la tutela minorile il controllo può essere facilmente dotato di senso e inteso come sostegno alla buona relazione e prevedere l’eventualità di condividere con i genitori la motivazione di fondo degli interventi. In quest’ottica il controllo può diventare uno strumento della relazione d’aiuto se l’assistente sociale riesce a fondare l’imposizione su una motivazione riconoscibile come interesse essenziale anche da parte dell’utente: “La leva della coazione fonda la sua forza sul desiderio del genitore di
riconquistare un ruolo significativo nella vita del figlio, e può essere utilizzata per introdurre elementi fattuali di cambiamento legati ai comportamenti. […] è efficace nella misura in cui le persone riescono a riconoscere le prescrizioni come utili e utilizzabili e se il contesto di relazione […] segue i principi della resilienza, se sostiene i processi di riflessione e rielaborazione della persona e usa il controllo come indicatore esterno per cogliere il percorso e i cambiamenti”124.