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L'assistente sociale nella complessità. il pensiero e la prassi professionale attraverso l'osservazione e le riflessioni su di un caso.

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UNIVERSITÀ DI PISA

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in Politiche Sociali

TESI DI LAUREA

L’ASSISTENTE SOCIALE NELLA COMPLESSITÀ

IL PENSIERO E LA PRASSI PROFESSIONALE ATTRAVERSO L’OSSERVAZIONE E LE RIFLESSIONI SU DI UN CASO

RELATORE

Prof. Roberto MAZZA

Candidato Domenica MORABITO

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RIASSUNTO ANALITICO

Questo lavoro si è posto l’obiettivo di focalizzare l’attenzione sulla professione dell’assistente sociale, sulle sue responsabilità deontologiche e giuridiche, sulla sua formazione, sulla sua attività nel territorio e sui delicati rapporti con le figure professionali con cui essa interagisce al fine di offrire spunti di riflessione che consentano di ripensarne e rafforzarne il ruolo e l’identità professionale allo scopo di offrirle un concreto supporto nell’affrontare le complesse sfide che fanno parte del proprio lavoro e rispondere in modo adeguato alle molteplici aspettative che, a più livelli, si nutrono nei suoi confronti.

Nella prima parte del lavoro vengono visti, in una prospettiva storica-legislativa, i processi che hanno determinato l’attuale realtà del servizio sociale.

Nella seconda vengono esaminati la comunità e il territorio quali ambiti in cui si manifestano i bisogni sociali, socio-assistenziali e socio-sanitari, evidenziando l’esigenza di costruire il sistema integrato di servizi attraverso la messa in rete di tutte le risorse (istituzionali e non) e l’importanza del gruppo quale unità di base e strumento indispensabile per garantire che si realizzino interventi cooperanti e unitari.

Nella terza parte, attraverso l’osservazione dello svolgersi di un caso, si cerca di descrivere, al di là delle teorie e delle idealizzazioni, quello che succede in una realtà territoriale.

Dall’analisi condotta emergono con chiarezza:

- l’intreccio di problemi sociali, personali, familiari e individuali, di sofferenza e smarrimento che coinvolge emotivamente i professionisti coinvolti e li fa sentire spiazzati di fronte a categorie conoscitive e categorie operative sconosciute e non sperimentate;

- una pluralità di interazioni, di contatti, di sovrapposizioni e l’avvicendarsi di una pluralità d’interventi spesso sparsi e non collegati;

- la solitudine dell’assistente sociale, ma anche la consapevolezza del suo ruolo di collante all’interno della complessità, in quanto a lei, è richiesta la capacità professionale di costruire relazioni al fine di sopperire e superare la frammentazione della multidisciplinarietà delle diverse pratiche d’intervento e, da ultimo e non per ultimo, far sentire all’utente se stesso e la propria narrazione presente nella testa di qualcuno.

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INDICE

RIASSUNTO ANALITICO...1

INTRODUZIONE... 5

1. STORIA E NORMATIVA DEL DIRITTO ALL’ASSISTENZA SOCIALE 1.1. Alcuni cenni sulle origini del Servizio Sociale ...9

1.2. L’assistenza sociale in Italia dalla nascita ai primi del 90 ...10

1.3. Il periodo fascista e il sistema assistenziale...15

1.4. La Repubblica: la Costituzione e i diritti sociali ...16

1.5. Il ventennio delle riforme: gli anni ’60-’70 ...19

1.6. La transizione: gli anni ’80-’90 ... 24

1.7. Gli anni 2000: la svolta del sistema italiano di welfar ... 27

1.8. Scenari attuali e l’assistente sociale nel sistema ... 32

2. DALLA COMUNITÀ AL LAVORO INTEGRATO 2.1 Comunità, uguaglianza sociale e welfare... 38

2.2 Rete e integrazione dei servizi... 43

2.2.1 Lavoro di/in rete... 43

2.2.2 Lavorare insieme... 51

2.2.3 Teoria relazionale di rete ed interventi di controllo... 55

2.3 Essere professionisti oggi... 58

2.3.1 Formazione di base, in servizio e supervisione... 58

2.3.2 Professione assistente sociale... 66

3. …E SUL TERRITORIO? LA LETTURA DI UN CASO 3.1 Premessa... 70 3.2 Il caso di P...71 3.2.1 Cornice contestuale... 74 3.2.2 Il gruppo di lavoro... 78 4. CONCLUSIONI... 97 BIBLIOGRAFIA... 102

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INTRODUZIONE

Nella lunga storia del genere umano (ed anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare e ad improvvisare con più efficacia.

C. R. Darwin Mettersi insieme è un inizio, rimanere insieme è un progresso, lavorare insieme un successo.

H. Ford

Molto di quanto le persone fanno sul lavoro dipende dalla loro capacità di fare appello a una rete di colleghi: la necessità di svolgere compiti diversi può implicare l’esigenza di rivolgersi a membri diversi della rete.

D. Goleman

Come professionista del servizio sociale ho sempre lavorato in un Ente Locale e, dal mio osservatorio, ho avuto modo di assistere ai travagli ed alle vicende della Pubblica amministrazione e delle sue varie articolazioni periferiche.

Il seguire in prima persona l’evolversi ed il rinnovamento dei processi di tutela della salute dei cittadini e delle politiche sociali, nonché il personale coinvolgimento in compiti produttivi sempre più complessi, mi hanno consentito di vivere quotidianamente i frequenti assestamenti organizzativi imposti da scelte politiche ed amministrative, una ridefinizione continua del Welfare, anche alla luce dell’introduzione di principi di economicità, efficienza ed efficacia degli interventi attuati dalla pubblica amministrazione che si sono incastrati con i mutamenti sociali. Nonostante abbia acquisito la consapevolezza della presenza di carenze e di criticità in molti servizi, credo sia non benefico e non serva aggregarsi al coro delle lamentele nei confronti di un sistema che va, invece, riconosciuto, affrontato, fatto proprio ed agito dall’interno. Si impone, pertanto, un atteggiamento elaborativo improntato sulla riflessione non solo e non necessariamente con un pensiero forte, cioè capace di dare soluzioni certe e chiare, ma anche con un pensiero incerto che esplori ed analizzi i diversi punti di vista non soltanto con razionalità e vigore, ma anche cercando di percorrere strade non codificate mettendosi in discussione anche sul proprio procedere.

Molti attuali contesti territoriali sono caratterizzati dalla presenza di servizi (pubblici, privati convenzionati e privati) che tra di loro non comunicano; in particolare il servizio sociale all’interno del sistema pubblico, presente in tutte le realtà anche se con modelli operativi e organizzativi diversi, spesso è isolato all’interno di questa complessità e va a scontrarsi con la complessità del disagio e della sofferenza. L’assistente sociale è la prima protagonista immersa in questo caos organizzato, frammentato sia tra i livelli

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istituzionali sia nella relazione tra professionisti, a cui afferiscono responsabilità professionali, deontologiche, penali, nonché implicazioni personali. Considerato che tutto il lavoro dell’assistente sociale si scontra con la complessità, il suo ruolo e le sue funzioni devono evolversi per consentirle di essere all’altezza delle sfide a cui giornalmente è chiamata a rispondere (e lo stesso vale, se si vuole settorializzare, o come più si usa dire attualmente specializzare la professione, e quindi lavorare per aree di intervento), anche alla luce dell’emergere di nuovi mandati, che la mettono davanti ad una responsabilità professionale legata alla consapevolezza che nel momento in cui dà l’avvio a dei percorsi colga l’esigenza di uno scambio di saperi composto dalla pluralità dei diversi punti di vista. Al servizio sociale molte istanze di aiuto arrivano a seguito di rabbia, frustrazioni e malesseri di fronte alla carenza di risposte. Ciò richiede all’assistente sociale - che vive nella realtà pratica dei servizi e sul terreno quotidiano dei bisogni – lo sforzo di mettersi in gioco con passione e sicurezza del suo agire, assumere una visione globale con un atteggiamento critico che le permetta di imparare dagli errori e sviluppare modalità operative ancorate alle problematiche, superare la rassegnazione e il vittimismo, adattarsi alla complessità e promuoverne contestualmente il cambiamento.

La multi problematicità caratterizza pertanto le persone che arrivano al servizio sociale: sono persone e famiglie smarrite e scioccate dagli eventi che cercano un posto dove essere aiutate. Ne consegue che la realtà dei servizi territoriali ci mette di fronte ed è caratterizzata da situazioni gravissime e drammatiche e la frammentazione e l’inadeguatezza organizzativa spesso presente nei servizi non riesce sempre a dare risposte efficaci. Oggettivamente si rilevano eccessivi carichi di lavoro in quanto il numero delle persone in difficoltà e soprattutto le situazioni cosiddette di tutela minorile aumenta di giorno in giorno. Questo dato, rapportato alla carenza di personale e di risorse (problema ormai presente e costante in tutti i servizi pubblici), amplifica ulteriormente le difficoltà dei professionisti con il rischio che finiscano per ritirarsi operando solo in funzione del formale-burocratico. D’altra parte, proprio come in un circolo vizioso, le difficoltà e le richieste d’intervento aumentano. All’interno di questo complesso sistema l’assistente sociale esplica la propria professionalità e allo stato delle cose le è richiesta sempre più la capacità di guardare con occhi aperti - e cioè con buoni concetti nella testa - la composita realtà e costruire relazioni professionali e contesti di presa in carico altamente complessi con azioni di tessitura dei vari interventi sfilacciati dentro cui emergono malesseri e disagi, costruendo pezzo per pezzo il processo di aiuto,

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con tante volontà sparse e intenzioni divergenti che con tanta pazienza un po’ alla volta vanno al proprio posto nel senso che alla fine ci si può accontentare e accettare ciò che si è prodotto. E’ un lavoro impegnativo di messa in rete che si realizza con la formazione di un gruppo dotato di diverse competenze e che richiede professionalità, apertura e coraggio, ma è sempre più necessario fare lo sforzo e comprendere che solo così si può sopperire e superare la frammentazione della multidisciplinarietà e interistituzionalità delle diverse pratiche d’intervento che non possono più essere il prodotto di misure settoriali. Ancora oggi questa è un’ottica di lavoro che rappresenta, molto spesso, una sfida alla cultura istituzionale e all’operatività dei servizi, ma è una strada possibile da praticare, una scommessa da portare avanti e di cui farsi promotori. La gestione di progetti personalizzati, appropriati ed efficaci richiede la connessione di servizi e operatori, quando poi, si tratta di situazioni complesse caratterizzate da una molteplicità di fattori (presenza di più persone-utenti nello stesso nucleo familiare, molteplicità di aree di bisogni da indagare, di risposte da garantire, di opportunità da mettere in rete, diverse istituzioni e organizzazioni, chiamate in causa per competenza) l’integrazione diventa ancora più necessaria e rilevante. Al di fuori di una strategia comune si rischia di realizzare una sommatoria di competenze istituzionali, di organizzazioni settoriali, di professionalità specifiche che operano per quanto di competenza e non per progetti personalizzati, unitari e integrati. Già nel 1994 Sanicola L. scriveva: “lo stato attuale dei servizi rende sempre più evidente la necessità di

individuare modalità di integrazione tra servizi pubblici e agenzie pubbliche e private e

di sviluppare, tra i nodi di queste potenziali reti, relazioni non competitive ma complementari, in grado di offrire risposte diversificate ai bisogni della comunità”1. Il processo di aiuto, quindi, richiede una metodologia integrata che orienti l’intervento ancora prima del contenuto o dell’obiettivo.

Purtroppo, talvolta, nel lavoro sociale è ancora insita la percezione che si tratti dell’erogazione di una prestazione, di una psicoterapia o di provvedimenti assunti con azioni solitarie tali da determinare l’effetto buono, ma in realtà queste si sommano e si confondono all’interno di un sistema variegato di azioni che, se scollegate, falliscono con tutto ciò che ne consegue. Ancora più spesso si sente la rassegnazione delle assistenti sociali di fronte alla realtà dei servizi, di frequente incompleta e carente rispetto alla complessità, che si traduce nel colpevolizzare la carenza o l’assenza (risorse, modalità di lavoro e organizzative, istituzionali) a volte proprio per giustificare l’immobilismo o scelte non

1Francescato D., Tomai M.,Psicologia di comunità e mondi del lavoro. Sanità, pubblica amministrazione, azienda e privato sociale, Carocci Editore, Roma, 2005, p. 46

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pensate fatte solo in funzione al tutelarsi di fronte alle responsabilità loro attribuite. Certo l’assistente sociale incontra nel suo campo di azione situazioni di dolore, di fatica e di ambiguità che la mettono a dura prova, soprattutto se è sola, e che possono talvolta disorientarla o peggio demotivarla con forti ripercussioni sull’attività, la produttività e l’agire professionale nonché sotto l’aspetto personale. Non è retorica dire che di fronte a tutto ciò emerge sempre più la necessità del lavorare in èquipe, anche come luogo di pensiero in cui si possa dialogare, condividere ipotesi, costruire alleanze e uno spazio di sostegno, e che all’interno di questa deve giocarsi il ruolo del professionista assistente sociale con la funzione di facilitare il dialogo tra le diverse competenze presenti. Tutti gli operatori sono chiamati ad adattarsi ai mutamenti sociali e culturali in corso con il compito di aiuto verso i processi di cambiamento e l’intervento professionale si incastra con tutti gli altri fattori presenti: il professionista assistente sociale può diventare quella base sicura che manca, che tiene le fila ed è il referente di tutti.

Stante queste brevi considerazioni, cercherò di incentrare questo lavoro su una comprensione analitica della realtà pratica dei servizi, in particolare del servizio sociale, insieme alle azioni dell’assistente sociale, con l’impegno di teorizzare per entrare nella realtà e fissare elementi di metodo a partire dalla pratica, cioè attraverso la visione dello svolgersi di un caso per entrare nel vivo della realtà sociale non tanto per essere manipolata dagli operatori professionali, quanto potenziata nel suo corso. Pensando, inoltre, che è poco utile prefigurarsi un riassetto, una riorganizzazione, un reinquadrare, un tagliare o un decidere senza aver riflettuto sulle esperienze compiute e sui processi avvenuti, non solo e non tanto come passato, ma come dato presente nella sua complessità che ci ha portato all’attuale realtà, multiforme e frammentata, di una molteplicità di operatori con le più varie competenze e appartenenze, animati da diversi interessi e obiettivi. Mi torna alla mente una frase di Franca Olivetti Manoukian: “La mia riflessione sullo stato attuale dei servizi

territoriali, sanitari e sociali, prende le mosse da qualche considerazione sul passato”2, e quindi, questo lavoro inizierà ripercorrendo alcuni passaggi ed evoluzioni normative di momenti storici che ci permetteranno di comprendere e individuare elementi strutturali ed orientamenti ideologici e politici che sono alla base del sistema sociale, dell’assetto organizzativo e dei problemi di oggi.

2Olivetti Manoukian F., Stato dei servizi, un’analisi psicosociale dei servizi sociosanitari, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 11

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1 STORIA E NORMATIVA DEL DIRITTO ALL’ASSISTENZA SOCIALE 1.1 Alcuni cenni sulle origini del Servizio Sociale

La nascita del servizio sociale in Europa si può far coincidere con quella del Clarity Organization Societes (C.O.S.), che avvenne nel 1869 a Londra come naturale evoluzione del volontariato religioso (Friendly Reformers) e dei social reformers. Octavia Hill, volontaria presso questa organizzazione, fornirà le fondamenta etiche e concettuali del Servizio Sociale tanto che già, verso la fine del XIX secolo, verranno organizzati i primi corsi di formazione sia nel Nord Europa sia negli Stati Uniti d’America, ma soltanto nel 1928 si terrà a Parigi la prima conferenza internazionale di Servizio Sociale che permise, grazie al coordinamento di Renè Sand, la diffusione a livello internazionale del concetto di promozione sociale. Da tale conferenza presero vita i primi organismi associativi internazionali come l'International Council of Social Welfare (I.C.S.W.) o l'International Association of School Workers (I.A.S.S.W.) divenuto nel 1956 International Federation of Social Workers (I.F.S.W.)3.

Mary Richmond con la pubblicazione delle opere “Social Diagnosis” del 1917 e “What is Social Caseworker? An Introductory Description” del 19224 strutturò la base della

deontologia professionale attraverso un metodo basato sul casework: in modo scientifico determinò come dare aiuto istituendo una scuola professionale con relativo addestramento per le operatrici sociali: indagò sulle possibili cause sociali del disagio e con quali mezzi intervenire per cercare di eliminarle5 .

In realtà l’assistenza sociale nacque con il sorgere degli Stati Moderni ed evolse nel tempo sia dal punto di vista concettuale sia in riferimento alle caratteristiche del servizio offerto, vincolato ai cambiamenti socio-economici di ogni singolo Stato: “ i costi per

uno stato sociale vanno messi in rapporto ai benefici che a tempo debito potranno manifestarsi[…] e caratteristica di ogni attività d’investimento è che i costi precedano i benefici e che le spese del Welfare possano essere considerate spese d’investimento”6.

3Sand R. (avec Ada Cornil-Sand), 1928, “Conférence Interrnationaledu service social”, in Sand R., 1931, Le service social à traverce le monde. Assistance, prévoyance, hygièn. Paris, Librarie A. Colin

4Bortoli B., I giganti del lavoro sociale. Grandi donne (e grandi uomini) nella storia del welfare, 1526-1939, Erickson, 2006, p. 185

5Ibidem

6Barca L., Franzini M., “La cittadinanza difficile, diritti e welfare”, in Mari A. (a cura di ), La programmazione sociale, valori metodi e contenuti, Maggioli Editore, Sant’Arcangelo di Romagna, 2012, p. 25

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Nella tabella sotto riportata sono sinteticamente illustrati i tre passaggi evolutivi del concetto di assistenza, ma sarà solo dopo la seconda guerra mondiale che assisteremo ad un fondamentale mutamento: da una politica che investe solo alcune fasce o ceti della popolazione si passerà ad una politica per i cittadini.

concetti Caratteristiche

beneficenza

 Privata,volontaria, facoltativa, discrezionale, caritativa  Non determina diritti e doveri

 Non derivante dal diritto

 Motivazioni religiose e filantropiche assistenza

 Pubblica

 Diritto potenziale che dipende dai mezzi finanziari disponibili

 Legittimata dallo Stato con le leggi  Motivazioni di controllo

previdenza

 Pubblica

 Configura diritti oggettivi

 Legittimazione statale e finanziamento contributivo  Motivazioni di regolazione del mercato del lavoro

Tab. 1.1 Evoluzione dei concetti7

Le varie crisi economiche hanno influito (ed influenzano ancora) la costruzione di uno Stato Sociale poiché la carenza di risorse economiche porta a “tagliare” le spese a fini sociali bloccandone lo sviluppo normativo ed organizzativo.

1.2 L’assistenza sociale in Italia dalla nascita ai primi del ‘900

Lo Stato sociale prese le mosse dalla lotta alle povertà e dalla conseguente variazione delle politiche dello Stato che si fece carico del Sistema Assistenziale, prerogativa, sino ad allora, dei vari Enti Religiosi Cattolici (Opere Pie). Infatti gli Stati, coerenti con l'impostazione liberale e le dottrine liberiste, limitavano le loro funzioni alla regolamentazione del mercato, alla politica monetaria, all'esercizio della difesa dei confini ed alle attività di controllo e repressione sociale.

Lo Stato considerava la povertà secondo l'ottica dell'ordine pubblico e le malattie venivano considerate un problema naturalmente connesso con la miseria e non un problema di interesse collettivo. La progressiva democratizzazione degli Stati e la sensibilizzazione di larga parte del mondo benestante spinse ad una rivisitazione del 7Ivi, p. 24

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sistema secondo un'ottica ben differente. Larga influenza ebbe anche la consapevolezza che nel ciclo produttivo occorreva avere persone in salute e sufficientemente preparate da saper svolgere, con un minimo di competenza, le mansioni via via sempre più specialistiche sebbene, occorre dirlo, il livello di specializzazione non era ancora riservato a larghe masse, ma le industrie cominciavano a sentire il bisogno di operai specializzati.

L'urbanizzazione, assieme alla crescente capacità del sistema produttivo, portava masse di uomini e donne, via via sempre più grandi, ad entrare in contatto fra di loro ed a socializzare oltre che nelle proprie pene anche nelle proprie aspirazioni. Cresceva così una consapevolezza di bisogni che diventava fatto collettivo e motore propulsore di future, anche se ancora indefinite, rivendicazioni di tipo sociale.

Dopo la Rivoluzione francese le varie elaborazioni si trasformarono in progetti politici, per cui la povertà, che nel Medioevo era considerata “colpa” o “vergogna”, cominciò a essere trattata come una contingenza del singolo, quasi come a voler riconoscere le sue radici sociali e, dunque, la responsabilità anche dello Stato: si avviò così il processo che vedeva il superamento delle pratiche di istituzionalizzazione e iniziò a delinearsi la convinzione che arginare la povertà e porre rimedio al bisogno, soprattutto nella rimozione delle cause, fosse compito delle Istituzioni. Questo significava che i poveri sani sarebbero stati inseriti nel lavoro e gli inabili avrebbero avuto cure mediche e assistenza da praticare al loro domicilio. Lo stesso sviluppo delle conoscenze scientifiche favorì una maggiore attenzione e sensibilità alle caratteristiche dell’individuo e al suo ambiente di vita contribuendo così al riconoscimento di un diritto soggettivo.

In Italia ancora durante la metà del XIX secolo era diffusa l’abitudine di internare i poveri negli ospizi di mendicità e ciò non aveva provocato, per lo scarso sviluppo manifatturiero ed industriale, gli stessi problemi di ordine pubblico che invece erano sorti in Francia e in Inghilterra, e quindi, anche dal punto di vista sociale, le strutture continuavano a rimanere quelle del periodo precedente. La situazione dell’Italia subito dopo l’Unità non era delle migliori, le varie carestie e la miseria rendevano la situazione molto difficile: “il paese reale è un paese malato”8. Le leggi della produzione e del

8Lo certificava il clinico medico Carlo Maggiorani prendendo la parola al Senato il 12 marzo 1873: “La tisi, la scrofola, la rachitide tengono il campo più di prima, la pellagra va estendendo i suoi confini, la malaria ammorba gran parte della penisola”. Cosmacini G., “Teoria e pratica della sanità pubblica nella storia dell’Italia unita”, in Grieco A., Bertazzi P.A., Per una storiografia italiana della prevenzione occupazionale ed ambientale, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 36

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profitto rendevano disastrose le condizioni sociali dei lavoratori: donne e bambini anche piccolissimi erano sottoposti a un grande sfruttamento in fabbrica e nei latifondi, dilagavano tra le masse popolari il triplice flagello (malaria, pellagra e tubercolosi), anch'esse provocate e aggravate dalla rivoluzione industriale e dal costante processo di urbanizzazione9.

Inizialmente né lo Stato, né gli imprenditori permisero ai lavoratori di interessarsi ai problemi che riguardavano la loro salute nei luoghi di lavoro e di vita, ma l'elevata mortalità infantile, il rischio di carestie ed epidemie generalizzate comportavano per lo Stato un aumento dei costi anche per la beneficenza e il controllo ai poveri e ai malati10.

Lentamente, verso la fine del XIX secolo si cominciò a tollerare in Italia la formazione delle prime associazioni11 di mutuo soccorso, o mutue.12

Nel 1862 fu approvata “La grande legge” (legge 753 del 3 agosto 1862) sugli istituti di carità e beneficenza per soccorrere in tutto o in parte le classi meno agiate in stato di sanità o di malattia: furono imposti alcuni vincoli statali nelle Amministrazioni delle Opere Pie. Il dibattito su questa legge fu molto acceso e provocò un lungo periodo di stallo, superato recependo le norme statuite dall’ordinamento piemontese del 1859 (legge 3778). In questo modo venivano accolte le istanze della Chiesa la quale propendeva per una carità gratuita e volontaria difendendo, così, la sua disponibilità di beni ed opere assistenziali. Lo Stato non poteva, quindi, intervenire per stabilire dei 9Cosmacini G., Storia della medicina e della sanità in Italia, Laterza, Roma-Bari, 1987

10“Le prime assicurazioni sociali italiane videro la luce durante il regime liberale, nel quarantennio 1880-1920” Ferrera M., Modelli di solidarietà, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 201

11“Le cause più rilevanti che hanno determinato lo sviluppo del fenomeno associativo vanno colte nel processo di industrializzazione e di urbanizzazione e nell’instaurarsi di regimi democratici. Un tempo la comunità, la chiesa, la famiglia patriarcale erano in grado di soddisfare esigenze fondamentali, quali quelle della sicurezza personale, del controllo della realtà circostante, dell’autoespressione, dell’azione collettiva per raggiungere determinate mete. Le trasformazioni sociali, in particolare la rivoluzione industriale, hanno ridotto notevolmente la capacità di queste strutture tradizionali a far fronte a questa serie di esigenze e, pertanto, sono sorte nuove strutture, in particolare quelle associative, in grado di appagare bisogni sia di tipo strumentale che di tipo espressivo”Cesare V., “Associazionismo volontario”, Bobbio N., Matteucci N., Pasquino G. (a cura di) Dizionario di Politica, Utet, Torino, p. 53

12“Le società di mutuo soccorso furono organizzazioni create con il fine di mutua assistenza tra gli operai. Furono la prima forma di organizzazione operaia e nacquero in seguito allo sviluppo industriale e alla formazione di un vasto proletariato. Sorte nel XVIII secolo, conobbero un notevole sviluppo nel secolo successivo soprattutto in Gran Bretagna e in Francia. In Italia la loro creazione avvenne specialmente dopo l’Unità nazionale. Molte di esse si posero anche obiettivi politici, ma altre rimasero sotto il patrocinio e la guida paternalista di alcuni liberali. Dal Congresso nazionale, tenuto a Roma nel 1871, furono le società di indirizzo democratico mazziniano a prevalere su quelle di indirizzo moderato. Frutto di tale egemonia fu un ampliamento dei compiti che le società di mutuo soccorso si posero allargandoli ai campi dell’istruzione, dell’attività sindacale, della legislazione sociale. Con la nascita di più adeguati organismi associativi, come le Camere del lavoro, le società di Mutuo soccorso furono ridimensionate nei loro compiti. Ulteriori funzioni furono ad esse sottratte con l’assunzione da parte dello Stato di compiti di previdenza e di assistenza”, De Bernardi A., Guarracino S. ( a cura di) Dizionario di storia, Mondadori, Milano, 1993, p. 1177

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criteri o degli standards validi per tutto il territorio.13Il governo italiano, pertanto, non

solo non si impegnava finanziariamente, ma neanche a dar vita a diritti positivi e azionabili, e i benefici per i cittadini restavano del tutto discrezionali e transitori.14

A partire dalla legge di unificazione amministrativa del Regno (legge 2248 del 1865) si consolidò un ordinamento destinato a strutturare per lungo tempo le attività assistenziali svolte localmente:

 le Province si occuparono del mantenimento e della cura dei “mentecatti”, ovvero dei malati psichici, dei minori illegittimi e di tutta la categoria degli invalidi sensoriali;

 I Comuni dovettero occuparsi di sostenere le spese dell’ospedalizzazione e dell’assistenza medica per i malati poveri, oltre che dell’assistenza agli orfani e ai minori in stato di abbandono;

 le Congregazioni di Carità (che la legge piemontese Legge 3778/1859 aveva istituito in ogni comune) ebbero il compito di amministrare le Opere pie, provvedendo a garantire assistenza a specifiche categorie di poveri e di inabili15.

Se “La grande legge” sulla regolamentazione delle Opere Pie non ebbe grandi effetti pratici, rappresentò comunque un momento di notevole impatto psicologico e di svolta nella concezione dello Stato poiché segnò l'ingresso nella dottrina dello Stato della cosiddetta questione sociale16: così, anche in Italia, come nel resto dell'Europa, presero

corpo le grandi riforme da cui nacque l'Europa moderna.

Con la nascita dello Stato Unitario si resero indispensabili riforme politiche e sociali e, nel 1887 quando divenne Presidente del Consiglio Francesco Crispi, abile e 13“Va peraltro detto che la decisione di conservare gli equilibri esistenti non obbediva a logiche di scambio occulto. Con un provvedimento di inusitata generosità, in un settore – quello dell’assistenza – tradizionalmente sottoposto al più geloso controllo delle istituzioni ecclesiastiche, il governo italiano riaffermava nel modo più credibile la propria volontà di riprendere la strada interrotta delle trattative per dare soluzione negoziale alla “questione romana”, in un orizzonte cavuriano di “libera Chiesa in libero Stato” Romanelli R., L’Italia liberale, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 99

14Cherubini A., Dottrine e metodi assistenziali dal 1789 al 1848. Italia, Francia, Inghilterra, Giuffrè, Milano, 1958

15Cosmacini G.,“Sanità”,in Bongiovanni B., Tranfaglia N. (a cura), Dizionario storico dell'Italia unita, Roma-Bari, 1996, pp. 792-803

16“Nel nuovo scenario tale nozione viene utilizzata non più a difesa di interessi e di sistemi di valori che si sentono messi in discussione e di vecchi ceti dominanti, bensì a favore della classe operaia in quanto classe oppressa. Ciò non avviene però attraverso un rifiuto globale del modo capitalistico di produzione, quanto del modo in cui si ridistribuisce il reddito prodotto. Tale concezione viene espressa , sul piano della teoria economica e sociale, dai socialisti ricardiani, un termine col quale viene designato quel gruppo di autori che in Inghilterra, tra il 1820 e il 1830, rivendicarono il diritto dei lavoratori al valore dell’intero prodotto”. Bartocci E., “Alle origini del welfare state”, in Bartocci E., Campelli E., Ciccarone G., Ciocia A., Collicelli C., Cotesta V., Piccolo A. (a cura di) Il Welfare state italiano, I Centauri, Roma, 1995, p. 13

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spregiudicato politico, vennero realizzate alcune importanti riforme dell'amministrazione pubblica. La legge n. 6972 del 1890 (la così detta legge Crispi) rappresentò il primo tentativo di riforma unitaria del sistema assistenziale italiano. Le Opere Pie divennero, almeno nominalmente, Istituzioni Pubbliche di beneficenza (IPAB), ossia enti pubblici tenuti non solo a dar soccorso ai poveri, ma anche a promuoverne l’integrazione sociale e morale: l'art. 1 di tale legge, infatti, prevede “...a)

di prestare assistenza ai poveri, tanto in stato di sanità quanto di malattia; b) di procurarne l’educazione, l’istruzione, l’avviamento a qualche professione, arte o mestiere, od in qualsiasi altro modo il miglioramento morale ed economico...”. Questa

legge non si limitò a definire l’ordinamento delle istituzioni di beneficenza, ma dettò la disciplina, in alcuni casi in modo anche molto puntiglioso, di tutto il sistema sociale e sanitario del tempo. Con la legge Crispi in sostanza fu avviata la costituzione dello “stato etico” in cui si perseguivano finalità di sviluppo sociale ed economico dei cittadini. In questo modo si cercò di raggruppare tutta l’assistenza in un unico sistema controllato dagli organi dello Stato senza che quest’ultimo si assumesse alcun obbligo a livello socio-assistenziale. Sempre all'art. 1 la legge Crispi prevedeva, infatti, che qualsiasi tipo d’iniziativa in campo sociale dovesse essere pubblica, indipendentemente dalle origini di tali istituzioni: “Sono istituzioni di beneficenza soggette alla presente

legge le opere pie ed ogni altro ente morale”. Si voleva così assoggettare sotto il

controllo statale queste realtà, detentrici d’ingenti patrimoni, pur garantendone l’autonomia statutaria, nel rispetto dei loro fondatori. Il controllo pubblico su queste istituzioni si realizzò anche attraverso la partecipazione della società civile al loro governo. Al loro interno questi enti videro riconosciuta la più ampia autonomia gestionale, al riparo delle temute interferenze statali e con la possibilità di affiancare alle attività tradizionali nuove funzioni; in compenso lo Stato ottenne di poter utilizzare i beni di tali istituzioni, e, quindi, la possibilità di finanziare la tesoreria mediante il reinvestimento in titoli pubblici di parte del patrimonio dei nuovi enti. Con la legge Crispi si istituì altresì il domicilio di soccorso, che vincolava il diritto alle prestazioni assistenziali alla residenza continuativa, per almeno cinque anni nello stesso comune. Anche a livello sanitario e igienico l’Italia crispina trovò nuove regole giuridiche e soprattutto notevoli miglioramenti17. Ad eccezione di alcuni provvedimenti di tutela

17Lege 5849 del 1888 “Per la tutela dell'igiene e della sanità pubblica”, Legge Pagliani: i problemi igienistici venivano affidati ad un sistema di sanità pubblica; veniva inoltre istituita un’autorità sanitaria locale, identificata a livello comunale nel sindaco, e a quello provinciale nel prefetto (art. 1 e 2)

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degli impiegati civili e militari dello stato, già presenti prima dell’unificazione, dobbiamo aspettare ancora la fine del secolo per avere l’estensione di tutele sul versante previdenziale, in quanto al momento restava ancora fermo un sistema basato sulla mutualità 18.

1.3 Il periodo fascista ed il sistema assistenziale

Durante il ventennio fascista restò operante la Legge Crispi (che sarà in vigore, come legge sull’assistenza, fin quasi ai nostri giorni) e la produzione legislativa interessò soprattutto il campo delle assicurazioni e previdenziale.

Sotto il profilo istituzionale, le maggiori innovazioni del periodo fascista riguardarono soprattutto la tutela della malattia, della famiglia e maternità e il settore assistenziale: si verificò infatti una vera e propria proliferazione di casse mutue a livello categoriale, aziendale e locale19.

Per quanto riguarda l’assistenza, il fascismo aumentò in modo massiccio l’intervento dello stato, attraverso gli ECA (Enti Comunali di Assistenza) e di altre opere a carattere assistenziale come l’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia) o l’Opera Balilla, senza, però, ostacolare l’attività della Chiesa (anche in base al concordato tra Chiesa Cattolica e Stato del 1929: Patti lateranensi, 11 febbraio 1929) in questo stesso settore, ma anzi agevolandone le manovre soprattutto nei confronti di alcune categorie di indigenti o di minorati.20

18“La legge del 1886 sul riconoscimento giuridico delle società operaie di mutuo soccorso, insieme ai progetti e alle norme per un’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e alla prativa legislazione sulle fabbriche, vengono indicati dal governo come i capisaldi della nuova politica sociale. Per il mutualismo già nel 1870 la commissione consultiva degli istituti di previdenza e lavoro, sotto la guida di Luzzatti, si era preoccupata di studiare e proporre norme di riconoscimento giuridico. Dopo tanti progetti falliti a riguardo fu solo accettato che venisse concesso in base a semplice registrazione delle società presso i municipi. Nel 1886 infine la legge fu emanata ma i vantaggi non valgono a farne accettare i propositi, in compenso le società registrate beneficiano di certe esenzioni fiscali, del gratuito patrocinio e hanno facoltà di possedere beni mobili e immobili; al 1891 la maggior parte delle casse mutue non avevano richiesto il riconoscimento giuridico. Tutto questo non ha giovato alle finalità mutualistiche di queste casse” Cherubini A., 1958, pp. 64-66 op. cit.

19“Scartata l’idea di un'unica assicurazione obbligatoria contro la malattia, il regime si limitò nel 1928 ad introdurre l’obbligo assicurativo contro la tubercolosi e l’obbligo per tutti i contratti di lavoro di contenere norme per la tutela della salute dei lavoratori” Ferrera M., 1993, p. 35 op. cit.

20I dati quantitativi disponibili confermano il carattere nettamente espansivo della politica sociale fascista dopoil 1927. La spesa per la sicurezza sociale ammontava a 3,9% della spesa statale nel 1922, a 5,5% nel 1927 e a 14,4% nel 1941. Il grado di copertura dell’assicurazione contro la disoccupazione passò dal 12% al 19% della forza lavoro tra il 1920 e il 1925, per salire al 37% nel 1940; nel caso della copertura delle malattie l’estensione fu ancora più marcata, portandosi da circa il 6% del 1920-1925 al 47% del 1940. Da Flora P. e Alber J., “Sviluppo del Welfare State e processi di modernizzazione e democratizzazione nell'Europa occidentale”, in Flora P e Heidenheimer A. J., Lo sviluppo del Welfare State in Europa ed in America, Il Mulino, Bologna, 1983

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L’espansione della tutela sociale fu perseguita anche attraverso una ricca normativa, mentre a livello istituzionale l’amministrazione venne centralizzata in tre grandi enti: l’INPS (Istituto Nazionale Previdenza Sociale) che gestiva l’assicurazione per la vecchiaia, invalidità, disoccupazione, assegni familiari e tubercolosi, l’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) per gli infortuni e le malattie professionali e, infine, l’INAM (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie) per le malattie e la maternità21.

L’attività assistenziale venne utilizzata come strumento da un lato di controllo sociale e dall’altro di propaganda al Regime. Nacque, per opera di Paolina Tarugi, pioniera del Servizio Sociale in Italia22, la prima scuola di servizio sociale (Roma, 1928): ad essa va

riconosciuto il merito di averne sostenuto l’origine, pur con i limiti e le impostazioni del tempo23. E così le Assistenti Sociali furono collocate presso le OMNI, le Aziende, il

Tribunale dei Minori (istituito nel 1934 con R.D.L. 1404), ed Enti Pubblici e Assicurativi: “La legislazione […] è costituita dal complesso di norme giuridiche che

riguardano l’assistenza ed il servizio sociale: protezione per la maternità ed infanzia, assicurazioni contro gli infortuni, assicurazione contro la vecchiaia, l’invalidità, la malattia, la disoccupazione involontaria, la mutualità scolastica, il collocamento dei disoccupati, l’istituzione di assistenza e previdenza, Opera Nazionale Dopolavoro, scuole secondarie di avviamento professionale”24.

1.4 La Repubblica: la Costituzione e i diritti sociali

Nel 1948 si arrivò al varo della Costituzione: l’ispirazione unitaria si tradusse in particolare negli art. 2 e 3 della Legge Costituzionale, in cui è più volte riportato l’aggettivo sociale. Con essa la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art.2). Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di 21Ivi

22Fiorentino E., “Note sul problema del personale tecnico per l’assistenza”, Assistenza d'oggi, 1954, 4, pp. 56-61

23Benvenuti P., Gristina D., La donna ed il Servizio Sociale, Franco Angeli, Milano, 1998, pp. 90-91 24Lama E., “Recensione su Fantini O., Corso completo di legislazione sociale e del lavoro interna e comparata”, Bibliografia fascista, Perugia, Regia Università, 1930,7, pp. 610-611

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ordine economico e sociale, che, limitando, di fatto, la libertà e l'eguaglianza dei

cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art.3). Considerata la composizione dell’Assemblea e le problematiche del momento storico, non era possibile che essa svolgesse una funzione legislativa, al di là della formulazione della Carta Costituzionale. Ciò non permise l’introduzione immediata delle riforme sociali radicali che sarebbero state necessarie in quanto il blocco sociale dominante non era pronto ad accettarle. Queste ultime vennero emanate solo nell’arco del trentennio successivo25.

Il testo della Costituzione, tuttavia, dette ampio spazio alle tematiche sociali, modificando la filosofia della legislazione sociale precedente: la beneficenza privata e religiosa non sarebbero state più lo strumento esclusivo per combattere la malattia e la miseria e lo Stato si incaricava dell’assistenza per tutti i cittadini: “Ogni cittadino

inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili e i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato.” (art. 38).

La Costituzione considera l’assistenza sociale per chi non è in condizioni di lavorare un diritto, non più un’erogazione liberale delle organizzazioni benefiche riconosciute dallo Stato, come prevedeva la legge Crispi (vigente lo Statuto Albertino). Così anche la salute (non solo l’assistenza in malattia) diventa “fondamentale diritto dell'individuo e

interesse della collettività”, per cui lo Stato “garantisce cure gratuite agli indigenti”

(art. 32). Quest’articolo porrà le basi per l’attuazione del diritto alla salute inteso non solo come diritto alle cure, ma anche come prevenzione e riabilitazione: la riforma sanitaria (L 833/1978) sarà resa possibile dopo la nascita delle Regioni, avvenuta nel 1970 (con le elezioni dei Consigli Regionali, 7 giugno 1970, che stileranno e approveranno i relativi statuti), e con il DPR 616/1977, che attribuirà loro una serie di funzioni amministrative decentrate. La Repubblica, inoltre, grazie alla nuova Costituzione, agevola “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della

famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti

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necessari a tale scopo” (art.31). Questo ha voluto dire la conferma degli Enti Nazionali

già esistenti ( l’ONMI e le varie IPAB) e reso possibile una serie di altri interventi, promossi anni più tardi, in Servizi diffusi sul territorio a livello locale26.

Il concetto di sociale che emerge dalla Costituzione è a un livello orizzontale e paritario rispetto alla dimensione politica ed economica, che interagisce con le condizioni personali del cittadino. Si rifà quindi ai concetti moderni della sociologia, per cui i sottosistemi s’integrano a diversi livelli di complessità e funzionalità. La solidarietà politica, economica e sociale diventa “dovere inderogabile” (art. 2) della Repubblica e lo Stato s’impegna a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” (art. 3) che impediscono lo sviluppo della persona e la sua partecipazione alla vita sociale.

La cultura unitaria della ricostruzione, oltre a favorire il fiorire delle attività produttive e intellettuali, sostenne la crescita delle professioni del sociale funzionali al processo di ricostruzione del Paese: l’UNRRA27 e l’AAI28 sono esempi che investirono anche sulla

formazione delle assistenti sociali, finanziando in parte nuove scuole con orientamenti ispirati a modelli metodologici americani e molte diplomate trovarono impiego negli organismi di promozione, sviluppo e assistenza, istituiti proprio per la ricostruzione29.

26“A livello di governo, la competenza assistenziale era distribuita tra svariati ministeri (da 16 a 18, a seconda della formazione in carica) ognuno dei quali era responsabile di una specifica categoria di bisognosi (invalidi civili, ex combattenti, profughi, rimpatriati etc etc). Attribuzioni di maggiore rilievo, oltre che al ripristinato dicastero del lavoro e della previdenza sociale, erano poi affidate al ministero dell’Interno – a conferma dei tradizionali legami tra assistenza e funzioni d’ordine – mentre specifici compiti di vigilanza erano assegnati alla presidenza del consiglio dei ministri. A livello periferico le province mantenevano le tradizionali competenze della tutela dei minori illegittimi, dei malati psichiatrici e dei disabili sensoriali, mentre ai comuni spettava il mantenimento degli inabili al lavoro e tra i compiti facoltativi la tutela della prima infanzia e degli anziani. I comuni maggiori o più sensibili avevano anche sviluppato significative capacità di intervento a fronte di un’ampia gamma di patologie sociali, ma è anche vero che i “casi sociali” più gravi erano ancora trattati privilegiando risposte di carattere istituzionale, attingendo per lo più alla cospicua offerta di strutture beneficenziali pubbliche e private a carattere meramente residenziale.” Ivi, pp. 185-187

27United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Amministrazione delle Nazioni Unite per l'assistenza e la ri-abilitazione) organizzazione internazionale costituita dalle Nazioni Unite per l'assistenza economica e civile alle popolazioni delle Nazioni Unite, danneggiate dalla guerra.

28Amministrazione Aiuti Internazionali, ufficio istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’amministrazione dei fondi dell’ONU.

29“L’apertura delle prime cinque scuole di servizio sociale in varie città d’Italia, nel 1945, fu all’inizio un fatto del tutto privato, sostenuto talvolta da alcuni organismi privati preesistenti come ad esempio l’ONARMO (Opera Nazionale di Assistenza Religiosa e Morale degli Operai), e, per lunghi anni quasi del tutto ignorato dalle istituzioni pubbliche allora preposte a rispondere ai problemi sociali. Fin dall’inizio le scuole si qualificarono come scuole teoriche-pratiche, nel senso che l’insegnamento impartito comprendeva, oltre che una didattica attiva, anche una formazione sul campo. La non conoscenza da parte del tessuto sociale e istituzionale italiano degli assistenti sociali costrinse le scuole a funzionare come promotrici di iniziative per farsi conoscere per far conoscere i propri allievi ed inserirli come professionisti. I primi assistenti sociali trovarono impiego in organismi diversi, aventi finalità di promozione, sviluppo o assistenza. Ricordiamo tra i più significativi i centri sociali dell’UNRRA-CASAS, istituiti per favorire la ricostruzione degli alloggi e dotare il paese di strutture e agevolare la vita comunitaria che avrebbe accresciuto il senso di appartenenza degli abitanti per rimuovere i vari problemi individuali che ostacolavano la convivenza; oppure “i focolari di semilibertà”,

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Il sistema politico non promosse subito le riforme del welfare-state necessarie per far fronte ai problemi umani, familiari e sociali (generati dal rapido sviluppo economico e dall’arretratezza ereditata in alcune aree del paese) che vennero scaricati nel sistema assistenziale: i principi sociali della Costituzione sembrano, in quel periodo, tenuti in disparte e vengono ancora impiegati i vecchi strumenti dell’assistenza sociale e sanitaria prebellica.

1.5 Il ventennio delle riforme: gli anni ’60-’70

Nel 1963, con l’ingresso dei ministri socialisti nel governo:

 ebbe luogo la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la luce entrò progressivamente in tutte le case (e con essa la televisione);

 venne varata la scuola dell’obbligo, furono creati i centri medico-psico-pedagogici e vennero abrogate le classi differenziali;

 fu prevista la giusta-causa per i licenziamenti e istituita la pensione sociale;  fu resa possibile l’adozione speciale;

 venne varata la riforma ospedaliera che costituì un primo passo verso la razionalizzazione del sistema sanitario e la creazione di una rete statale di cura. La politica sociale di quegli anni ebbe degli slanci importanti e si iniziò a sperare nella possibilità che riforme importanti riuscissero a risolvere i problemi gravissimi lasciati dalla guerra e dalle distruzioni. Una prospettiva rosea, questa, favorita dalla grande espansione economica che aveva già risolto alcuni gravi problemi e trasformato l'Italia sotto il vento del miracolo economico. Una crescita economica così tumultuosa produsse anche tensioni inevitabili. Da qui lo squilibrio in termini socio-economici tra il triangolo industriale (Torino-Milano-Genova) e le altre parti d'Italia, in particolare il Sud, che rimase fortemente sottosviluppato: iniziarono i contrasti tra il settore agricolo, che continuava ad essere arretrato, e l'industria, che si sviluppava rapidamente in modo folgorante.

Il fallimento dell'esperimento di programmazione e di riformismo del Centro-Sinistra ebbe una riprova nei movimenti del '68, in quanto le nuove generazioni trovarono a vivere in un Paese più moderno che, nonostante la prosperità economica che offriva, presentava ancora un’arretratezza dal punto di vista della coscienza civile, delle istituiti presso il Ministero di Grazia e Giustizia, per i ragazzi delinquenti o traviati al fine di ricostruire un ambiente familiare ed educativo, in contrasto con la pratica dell’istituzionalizzazione dei minori presso le case circondariali o di rieducazione”, Neve E., Il servizio sociale, Carocci Faber, Roma, 2000, p. 76

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abitudini e degli stili di vita. Il '68, infatti, fu una rivolta soprattutto civile, l'espressione di nuovi bisogni collettivi, di nuove solidarietà e di nuovi rapporti familiari che destarono l'attenzione della politica30.

Se dagli intenti ci si sposta sulle realizzazioni pratiche, è evidente che queste ultime furono alquanto modeste rispetto alle premesse; infatti le riforme più importanti operate dal centro sinistra vennero realizzate soprattutto nel settore scolastico ed educativo con l’istituzione (nel 1962) della scuola media unica e (nel 1968) della scuola materna statale31. In ambito puramente assistenziale non sortì alcun effetto la pressione per lo

scioglimento di alcuni enti nazionali (ONMI e IPAB), anzi proseguì il flusso di finanziamenti verso questi enti che raggiunsero il loro massimo sviluppo proprio negli anni ’70. Non ebbe più fortuna il progetto di dar vita ad un servizio sanitario che si occupasse della prevenzione: infatti, nonostante l’istituzione di un apposito ministero, il sistema sanitario italiano restò “un’organizzazione privatistica su base assicurativa” in cui tutto l’intervento dello Stato si esplicava attraverso enti mutualistici concepiti come “istituzioni intermediarie di natura burocratica, chiamate a coprire i costi di un

servizio affidato a medici privati, istituzioni ospedaliere autonome e industrie farmaceutiche”32. In questo quadro, importante fu l’intervento del ministro della sanità

Mariotti che, con la legge 132 del 1968, trasformò le IPAB ospedaliere in Enti di diritto pubblico a carattere territoriale, affidate a consigli di amministrazione nominati dagli Enti locali e sottoposti al vincolo del pareggio del bilancio.

Gli anni ’60 furono caratterizzati da un assetto dell’assistenza sociale e sanitaria pubblica che si contraddistingueva per un forte accentramento degli interventi realizzati da Enti nazionali, che operavano attraverso la categorizzazione di molteplici tipi di bisogno e di utenti, e al contempo per una importante frammentazione delle strutture e delle prestazioni. Gli interventi di tipo sanitario erano di competenza di organismi centrali dello Stato, delle Provincie, dei Comuni, dei grandi istituti pubblici parastatali e di un gran numero di organizzazioni che operavano sia a livello nazionale, sia locale. Questo sistema interveniva in un’ottica di riparazione (dopo la manifestazione e l’accertamento del bisogno), in quanto la legislazione di quel periodo non presentava provvedimenti organici di riassetto della materia, ma proponeva molte leggi settoriali 30Ascoli U., Il sistema italiano di welfare, Laterza, Bari, 1984

31L'Italia diventa, tra i paesi della CEE, “quella che ha un sistema scolastico più aperto”. Contemporaneamente si avvia il processo di deprofessionalizzazione delle scuole secondarie, dapprima con la liberalizzazione parziale degli accessi universitari (1961) e, quindi, con l’apertura totale delle iscrizioni alle università (1969). Ivi, p. 34

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relative all’aspetto istituzionale e finanziario dei vari enti e delle varie categorie di assistiti. Agli operatori sociali e sanitari erano richiesti, nella loro attività concreta, interventi e competenze strettamente limitate alla presenza di ben definite e catalogate condizioni di disagio dell’individuo. Erano quindi presenti separazioni e settorializzazioni delle prestazioni sociali e sanitarie senza alcun momento di ricomposizione, con il risultato di svolgere attività inefficaci a fronte dei molteplici bisogni dell’individuo.

È proprio in quegli anni e in quel contesto che si svilupparono alcune idee innovative che sono state riferimenti importanti per l’avvio di nuove posizioni e movimenti ideologici sulle questioni dell’assistenza e della sanità. È presente la ricerca verso una dimensione e la realizzazione di una società più equa e più umana, una comunità nel senso di aggregato sociale in cui sono significativi i rapporti primari e non più esclusivamente connotati dallo scambio di merci e dalla forza lavoro. Stavano maturando gli interessi per il lavoro di gruppo come momento di apprendimento della democrazia, del cambiamento individuale e sociale, dell’autodeterminazione e la partecipazione.33

Gli anni ’70 furono, invece, caratterizzati da un’intensa produzione giuridica e istituzionale dei servizi sociali e sanitari relativi ai due aspetti fondamentali per l’attuazione delle attività: l’intervento pubblico su alcuni problemi di salute individuale e di vita familiare e l’individuazione di nuovi soggetti istituzionali erogatori di servizi alla persona.

Le riforme coinvolsero anche l'amministrazione del Paese con l'istituzione delle Regioni a statuto ordinario, avvenuta nel 1970. Da più parti dell’area di centro e di sinistra venne la proposta di riformare l’intero sistema sanitario ed assistenziale, attraverso la costruzione di servizi sul territorio per tutti i cittadini, che avrebbero dovuto sostituire le miriadi di enti di assistenza, previdenza e beneficenza esistenti, ormai fallimentari anche economicamente. Nello stesso anno nacque lo statuto dei lavoratori e le prime donne accessero in Magistratura (malgrado la legge 66, “Ammissione della donna ai pubblici

uffici ed alle professioni” fosse del 1963). L’anno dopo videro la luce le norme che

individuavano gli ultimi invalidi non compresi fino ad allora nelle categorie assistite: gli invalidi civili, che godranno della relativa pensione senza bisogno di versamenti contributivi. Riguardo alla famiglia, la legislazione degli Anni Settanta fu fortemente innovativa: del 1970 è la legge 898 sul divorzio (seguì quattro anni dopo il referendum 33Olivetti Mannoukian F., 1988, op. cit.

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popolare che segnerà uno spartiacque nella cultura del paese), del 1971 sono le leggi 1204 sull’astensione obbligatoria in maternità e 1044 sugli asili nido, nel 1975 vengono approvate le leggi 151 di riforma del diritto di famiglia (che sancisce la parità fra coniugi, tutela la vedova e i figli, e istituisce la comunione dei beni) e 405 e 899 rispettivamente sulla nascita dei Consultori familiari e lo scioglimento dell’ONMI . Il 13 maggio 1978 fu varata la legge 180 (abolizione dei manicomi, costruzione di servizi territoriali d’igiene mentale, trattamento sanitario obbligatorio secondo regole restrittive) in linea con il c. 2 dell’art. 32 della Legge Costituzionale e, il 22 maggio, la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Tra il 1971 e il 1978, quindi, con forza e con diverse angolature politiche, venne rappresentata e segnalata la situazione esistente evidenziando le sue incoerenze e facendo avanzare ipotesi di modifiche strutturali nel sistema di assistenza sociale e sanitaria. Dominarono alcune idee centrali e fondamentali che ci permettono di capire, collocare e valutare gli orientamenti attuali. Il primo principio fu il diritto di ogni cittadino di avere prestazioni sanitarie e assistenziali gratuite per consentirgli un’esistenza dignitosa. Questo comportò un intervento attivo dello Stato e degli Enti locali in un’ottica sempre più di prevenzione e di modifica delle condizioni di vita attraverso il superamento di un sistema approntato sul rimedio e sul tamponamento: i servizi devono essere pubblici in quanto devono garantire che siano veramente rivolti a tutti e siano rispondenti ai bisogni della comunità locale. L’implicazione di questo cambiamento portò con sé l’idea e l’esigenza che i servizi pubblici fossero orientati alla promozione sociale e alla partecipazione dei cittadini alla vita della comunità locale. La loro realizzazione ebbe dunque un’importante valenza politica e venne conseguita attraverso processi di programmazione decentrati e partecipati: in particolare la partecipazione attiva, responsabile e consapevole dei cittadini e degli utenti portò al superamento della concezione di destinatari passivi d’interventi pensati e decisi altrove34.

Anche il concetto d’integrazione tra servizi sociali e sanitari iniziò a farsi strada: la malattia venne considerata un fatto sociale e la sua gestione richiese un intervento globale che si rivolgesse alla persona con i suoi bisogni unitari. Da qui nacquero progetti-obbiettivi per garantire un’attività inter-relazionale tra i settori sanitario e sociale: l’assistente sociale entrò nelle istituzioni sanitarie e questo implicò, come scrisse Terranova: “una maturazione dialettica, che si realizza nella erogazione dei 34Ivi

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servizi, nella loro gestione unificata, per finalità unificanti”35. Questo modo di

affrontare i problemi di salute e di assistenza e di realizzare interventi si coagulò in un più ampio progetto di rinnovamento della società italiana: più umana e più rispettosa dei diritti, fondata su una più ampia e paritetica distribuzione del potere e sulla presa di parola da parte di chi non l’aveva.

Nel dicembre del 1978 si ebbe l'ultima radicale riforma sociale, frutto della stagione della solidarietà nazionale: venne varata la Riforma Sanitaria (in discussione dal primo dopoguerra), che estese le prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione a tutti i cittadini, creando servizi territoriali diffusi e potenzialmente omogenei su tutto il territorio nazionale: “diede un’identità precisa alla sanità pubblica”36.

Con la riforma sanitaria, per la prima volta, la salute divenne ufficialmente uno stato di benessere, quindi, formalmente e in via di enunciazione, un problema collettivo e non privato-individuale: un diritto di tutti, un problema di prevenzione più che di riparazione.

Gli anni Settanta furono “il decennio delle larghe intese cattolico-comuniste e la

riforma sanitaria approvata nel 1978, allo zenit della solidarietà nazionale, fu una di queste”37. S’istituì una struttura organizzativa presentata come la più adeguata a

realizzare gli obiettivi di tutela della salute del cittadino in uno stato democratico: a fronte della pluralità, dell’eterogeneità, delle diseguaglianze. La legge presentava un riassetto che garantiva pienezza, equidistribuzione e ordine esprimendo la volontà dello Stato di gestire la salute come bene assoluto dei cittadini, che dava impulso all’uniformità non per reprimere, ma per sviluppare.

Il principio del coinvolgimento attivo della popolazione è presente già nel 1° articolo, dove si dice che “l’attuazione del servizio sanitario nazionale compete allo Stato, alle

Regioni e agli Enti Locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini” ed è

ulteriormente rinforzato negli artt. 11, 13, 15 che fissano nell’ambito di Regioni, Comuni e Unità Sanitarie Locali l’attività di programmazione con “la più ampia

partecipazione” dei diversi attori sociali presenti nel territorio nonché degli utenti

direttamente interessati alla realizzazione dei singoli servizi.

Eravamo di fronte alla nascita di un’organizzazione territoriale di servizi per la tutela della salute in cui avevano forte peso le istanze sociali e istituzionali: “questa nuova 35Ivi, p. 25

36Cazzola G., Lo stato sociale tra crisi e riforme: il caso Italia, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 156 37Ivi, p. 268

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organizzazione non è solo determinata da necessità tecniche ma anche e piuttosto da credenze socialmente condivise che sono impregnate di idealità, che propongono modi non empiricamente verificati di raggiungere gli obiettivi organizzativi, che esprimono modelli di divisione del lavoro sociale e professionale e strategie di distribuzione del potere”38: infatti, alla base del nuovo sistema organizzativo si vollero realizzare servizi

sociosanitari integrati e, come esito di decisioni partecipate, la programmazione, la collegialità e interdisciplinarietà.

Vennero esplicitamente sanciti l'uguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio, la partecipazione dei cittadini, il collegamento e il coordinamento con gli organi, centri, istituzioni e servizi che svolgono nel settore sociale attività incidenti sullo stato di salute individuale e sociale. Il metodo è quello della programmazione degli interventi da parte dello Stato e delle Regioni.

Già il decentramento amministrativo, attuato con il DPR 616 del 1977, aveva comportato il trasferimento alle Regioni della potestà legislativa e assegnato alle stesse, tra le altre, le funzioni concernenti l’assistenza sanitaria ed ospedaliera e i servizi sociali: “con la riforma sanitaria il caso italiano è entrato nel novero di quelli che

abbiamo definito welfare state occupazionali misti in quanto caratterizzati, appunto, da un mix di schemi categoriali e schemi nazionali”39.

Ebbe così inizio il superamento dell’assistenza come beneficenza per dichiarare i diritti sociali delle persone, senza nessuna esclusione, e si indicò il Comune quale soggetto istituzionale titolare della competenza in materia sociale, superando così la dispersione delle funzioni sociali.

1.6 La transizione: gli anni ’80-’90

Già all’inizio dei primi anni '80 emersero le prime proposte di legge tese a rivedere lo Stato Sociale, ma solo nel 1997 la Commissione Parlamentare dette avvio alla “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi

sociali” (legge Turco-Signorino). Tale legge fu approvata, in via definitiva dal Senato,

nell’autunno del 2000. Fino ad allora l’assistenza pubblica in Italia, con il triste primato d’investimenti del solo 5,7% del PIL (che poneva lo Stato italiano in coda rispetto agli altri Paesi europei), si reggeva sulle IPAB (ricovero di minori, handicappati e anziani, gestione di scuole materne, di mense e altre iniziative a favore dei poveri) che furono, 38Olivetti Mannoukian F., 1988, p. 37 op. cit.

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poi, sostituite o meglio trasformate, all’interno della rete di servizi presenti sul territorio, in ASP (Assistenza di Servizi alla Persona)40.

Il processo normativo dei primi anni '90 rafforzò e promosse nuovi diritti dei cittadini:  trasparenza (legge 241/90);

 partecipazione (legge 142/90);  volontariato (legge 266/91);  cooperative (legge 381/91).

Tutto ciò diede l'avvio, parallelamente, all'accentramento decisionale e a una ri-centralizzazione dei servizi sanitari (legge 81/93 sull'elezione diretta dei sindaci; decreti legislativi 502/92 e 517/93 sui dirigenti A.usl e sul riordino della disciplina in materia sanitaria) determinando anche un mutamento nell'ampiezza del territorio di riferimento (diminuzione delle A.usl e dei distretti). Questo comportò diverse attribuzioni di competenze ad A.usl, Distretti e Comuni con ricadute sulla qualità dei servizi dando origine a disorientamento e a situazioni di conflittualità41.

Nell’ambito della riforma autonomista della pubblica amministrazione, si assistette all’Ordinamento delle Autonomie Locali (legge 142/90) che:

a) consente ai Comuni ed alle Province di esercitare un ruolo primario nel promuovere il diritto di assistenza;

b) modifica il concetto di servizio pubblico locale come l’insieme dei “ servizi che

abbiano ad oggetto la produzione di beni e servizi rivolti a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle Comunità Locali”42;

c) prevede varie forme di gestione dei servizi locali attraverso S.p.a. con prevalente denaro pubblico, gestione in economia, concessione a terzi, forme di collaborazione intercomunale (unione, consorzi, unione di comuni attraverso un accordo programmatico).

Con tale provvedimento si cercò da un lato di favorire, per il benessere sociale, una collaborazione tra pubblico e privato e, dall’altro, di indirizzare gli Enti Locali a gestire l’azienda utilizzando un modello di tipo privatistico. Il processo avviato portò all’emanazione della prima legge Bassanini (59/97) che, attraverso il principio di

40Jorio E., Diritto della Sanità e dell’Assistenza Sociale, Maggioli Editore, Sant’Angelo di Romagna, 2013

41Zini M. T., Miodini S., Il gruppo. Uno strumento di intervento nel sociale, Carocci, Roma, 2000 42Jorio E., 2013, p. 192 op. cit.

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