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Il paziente lavoro che nel passato veniva dedicato alla costruzione di appartenenza dei singoli alle comunità, attraverso l’integrazione dei contributi individuali che, lasciati soli, evidenziavano gli ovvi limiti, è diventato un ostacolo per l’attività solitaria dell’uomo consumatore, per il quale i legami sociali sono irrilevanti e addirittura dannosi.

La socialità è stata da sempre esperienza di condivisione, oltre che di convenienza, e, soprattutto, conferisce significato e dignità all’agire condiviso dei singoli, i quali, come afferma Émile Durkheim, grazie ad essa possono emanciparsi dalle forze inintelligenti della natura27.

Nella società dei consumi della modernità liquida, lo sciame tende a sostituire il gruppo […]. Gli sciami non sono squadre, non conoscono la divisione del lavoro. A differenza dei gruppi veri e propri non sono più dell’unità delle loro parti, sono particelle autopropellenti. […] Nello sciame non c’è scambio, né cooperazione, né complementarità, solo prossimità fisica e una generale direzione di movimento28.

27

E. Durkheim (1979), Le regole del mondo sociologico: sociologia e filosofia, Milano, Edizioni di Comunità, p. 199.

28

L’esperienza del liberismo, attraverso la deregolamentazione e la precarizzazione dei ruoli e delle relazioni, ha definitivamente messo fuori moda la comunità, intesa come sede di condivisione di conquiste realizzate congiuntamente.

Il posto di lavoro, attraverso il quale tradizionalmente si definiva lo status sociale delle persone, e tramite il quale oggi come nel passato ci si guadagna da vivere e si mantiene o si perde la dignità e il rispetto degli altri, o non è più disponibile o è precario e sempre più flessibile.

È improbabile che un posto di lavoro flessibile diventi un punto dove voler costruire un nido29.

Proseguendo nell'argomentazione, Richard Sennett afferma che il posto di lavoro, che costituiva il contesto principale in cui si formava quella solidarietà di gruppo che alimentava la democrazia, una volta precarizzato, non dispone più del tempo e delle condizioni per costruire socialità. Lo sfaldamento dei contesti di lavoro e di vita rende infatti impossibile la costruzione di comportamenti solidali rispetto ai problemi ed alle ansie comuni. Le prospettive professionali sono limitate al lavorare a progetto e, fra persone che transitano da un progetto all'altro, è indubbiamente assai difficile che si realizzi una condivisione di intenti.

La quotidianità è completamente assorbita dalla preoccupazione di riuscire a cavarsela individualmente e non c'è spazio per condividere aspirazioni e

29

R. Sennet (2001), L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo nella vita personale, Milano, Feltrinelli, p. 91.

impegno per una vita migliore per tutti. È venuto meno il terreno comune dove collegarsi per rivendicare diritti comuni e strategie solidali per realizzarli. Ciascuno è solo ed è costretto a cercare risposte individuali a contraddizioni che sono invece sistemiche, a problemi che si vivono personalmente ma che sono produzioni sociali.

La cultura liberista insiste nel millantare i vantaggi di estendere la flessibilità, i cui risultati si rivelano inevitabilmente come situazioni di ulteriore privatizzazione dei problemi, di maggiore solitudine e senso di impotenza. Quando la sicurezza esistenziale non trova più l'appoggio di fondamenta collettive, diventa inevitabile che ciascuno si concentri sulla propria sopravvivenza individuale e che individui negli altri dei concorrenti da cui difendersi.

La fuga dalla socialità indirizza inevitabilmente verso la ricerca di alternative che possano farci sentire meno indifesi e ci si illude così di trovare tale rifugio in un riconoscimento identitario: l'etnia, la religione, il territorio, il genere e un'infinità di altre appartenenze limitate ad aspetti sempre più specifici. Ne deriva una frammentazione sociale che ha prodotto, e continua a produrre, una innumerevole proliferazione di conflitti.

Si perde così il riferimento delle reali ragioni, cioè delle radici economiche del malessere sociale: la povertà crescente, la perdita della protezione sociale nelle condizioni di vita, le drammatiche disuguaglianze nella distribuzione delle risorse. L'aspirazione ad una società più giusta si è

trasformata in una miriade di conflitti per la ricerca di un riconoscimento, disconoscendo che la condizione dell'umanità è inevitabilmente caratterizzata da una comune appartenenza, da bisogni comuni e dalla solidarietà come condizione necessaria all'esistenza.

Vorrei far notare che l'identificazione è un potente fattore di stratificazione, uno di quelli che creano maggiori divisioni e differenze. A un'estremità dell'emergente gerarchia globale stanno coloro che possono comporre e decomporre le loro identità più o meno a piacimento, attingendo dall'immenso pozzo di offerte planetario. All'altra estremità stanno affollati coloro che vedono sbarrare l'accesso alle identità di loro scelta […] e che si vedono infine affibbiare il fardello di identità imposte da altri, identità che trovano offensive ma che non sono autorizzati a togliersi di dosso: identità stereotipanti, umilianti, disumanizzanti, stigmatizzanti […]30.

Ancora più in basso, rispetto a quella maggioranza dell'umanità che, come argomenta Zygmunt Bauman, non ha la possibilità di sfuggire all'identità svalorizzante attribuitale, ci sono i marginali, gli esclusi, buttati fuori dalla appartenenza sociale, accumunati in categorie che ne cancellano l'individualità: giovani che non lavorano e hanno abbandonato la scuola, ragazze madri sole, senzatetto, persone con passato o in situazione di dipendenza da sostanze o con esperienze di carcerazione. A queste persone si aggiungono i sempre più numerosi profughi da luoghi divenuti invivibili, ai quali non viene neppure riconosciuto il diritto alla presenza sul territorio

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e vengono confinati in campi, “non luoghi” separati dallo spazio di vita comune a tutti.

Mentre il capitalismo dell'epoca della modernità solida conquistava i territori del sud del mondo, convertendone gli abitanti in forza lavoro da sfruttare, il capitalismo della modernità liquida, con la sua espansione planetaria, trasforma in scarti umani le persone non più necessarie alle sue attività economiche.

È questa una delle ragioni della proliferazione dei fondamentalismi identitari che mascherano, con pretesti religiosi o territoriali, le reali ragioni della loro insorgenza.

Negli ultimi decenni ci si è dovuti doverosamente interrogare sul riemergere dei nazionalismi, cercando in particolare di capire le ragioni delle guerre nella ex Jugoslavia e degli attuali scontri armati fra Ucraina e Russia, e di comprendere i motivi dell'esplosione del fondamentalismo e del terrorismo, rivendicati come religiosi. Zygmunt Bauman sostiene che sono state utilizzate categorie concettuali vecchie e superate per interpretare fenomeni che sono invece nuovi e ancora non compresi. Si tratta di emergenze che non possiamo liquidare come rigurgiti del passato, scambiando ciò che deve essere spiegato con la spiegazione.

Secondo lo studioso, la ragione va ricercata nelle trasformazioni in corso: la globalizzazione del potere finanziario ha indebolito, e in molti casi ha ridotto al collasso, la sovranità e le risorse degli Stati che, di conseguenza,

non sono più stati in grado di garantire protezione sociale e sicurezza ai rispettivi cittadini.

Ossessionati dalla paura dell'esclusione, terrorizzati di venire ridotti al silenzio, senza la prospettiva di una vita degna di essere vissuta, ci si rifugia così nell'illusione di una appartenenza che restituisca una qualche sicurezza. Un'illusione che, per evitare che le persone riescano ad individuare le reali ragioni del disagio vissuto, viene costruita ad arte, spacciandola come opportunità di difesa nei confronti degli altri, individuati, a seconda dei contesti, come concorrenti o come nemici.

Come spiega René Girard, quando si determina una crisi sociale, i soggetti, spaventati, si raccolgono in gruppi identitari e, non avendo gli strumenti per capire le ragioni del malessere vissuto, né di conseguenza potendo agire per contrastarne le cause, tendono ad incolpare in modo indifferenziato coloro che, per qualche ragione, sembrano essere particolarmente nocivi e, sviluppando nei loro confronti un crescente risentimento, ne fanno un capro

espiatorio31.

Il risentimento è un prodotto sociale innescato nell'attualità principalmente da alcuni fattori: l'umiliazione per la dignità negata, la competizione per la realizzazione sociale, il disorientamento che segue la perdita dei riferimenti tradizionali e la paura per l'assenza di prospettive32. Così, come naufraghi

sbattuti dalle onde di cambiamenti epocali, si va alla vana ricerca di un

31

R. Girard (2001), Il capro espiatorio, Milano, Adelphi. 32

R. Sennet (1999), Usi del disordine. Identità personale e vita nella metropoli, Ancona-MIlano, Costa & Nolan, p. 112.

rifugio identitario, di qualcosa cioè che sia nostro e di nessun altro e in cui possiamo “sentirci a casa”.

Ci si illude che lo stare insieme sia più facilitato se si elimina lo sforzo di capire, di negoziare, di trovare le mediazioni necessarie al vivere con le differenze. Ne consegue che più si vive in un ambiente uniforme, in compagnia di altri che riteniamo siano come noi, più si disimpara l'arte di negoziare significati e, avendo perduto la capacità di saper vivere con le differenze, si finisce inevitabilmente prigionieri della paura degli altri, che alimenta una spirale di violenze.