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Funzione informativa e funzione letteraria nell'odeporica dopo l'enciclopedismo

2. La letteratura di viaggio di primo Ottocento e l'opera di Bertolotti

2.4. Funzione informativa e funzione letteraria nell'odeporica dopo l'enciclopedismo

Il viaggio stanziale, che irruppe nella tradizione con il «nomadismo interiore»283 di Sterne, fece emergere un'altra delle tensioni implicite nella definizione stessa del territorio d'azione della scrittura odeporica, e cioè quella tra realtà e finzione. Elementi fantastici, nelle opere letterarie in cui una parte importante della materia narrata era costituita da avventure compiute dai personaggi lungo il cammino, non erano mancati: basti pensare, limitandosi all'età moderna, all'Orlando Furioso o al Don Chisciotte284. Racconti di altri viaggi, quelle cronache dal Nuovo Mondo d'oltreoceano in via di esplorazione che avevano trasformato l'inaudito in plausibile per gli abitatori del Vecchio Continente, avevano d'altronde fornito agli autori il terreno di un meraviglioso “reale” su cui immaginare di muovere i propri passi. Il Voyage autour de ma chambre di de Maistre, però, privando il protagonista dal contatto col mondo esterno alle quattro mura in cui il protagonista era recluso, aveva portato a compimento il processo con cui «la letteratura sembrava decisamente emanciparsi dalla referenza esperienziale»285. L'esperienza concreta del viaggio giocava ancora le sue carte con il viaggio in Italia di Goethe, iniziato nel 1786 ma diventato Viaggio in Italia, cioè trasformatosi compiutamente in letteratura, solo nel 1829: il miglior esempio di «andirivieni fra i due piani»286, secondo Pino Fasano, che però solo nella seconda metà del XIX secolo, periodo in cui riemerse anche la tradizione del reportage realistico, sarebbe divenuto oggetto di saggi critici italiani, per far sentire la propria influenza sui viaggiatori nostrani ai primi del Novecento287.

L'attrazione che il testo odeporico subisce da parte dei due poli costituiti dalla funzione informativa e da quella letteraria crea un campo di forze che non può risolversi in favore di nessun estremo, pena il dissolversi della stessa specificità del genere, di per sé, come più volte sottolineato, così polimorfa. Si tratta di capire come questa contraddittoria cifra venga di volta in volta declinata dall'estensore della relazione. La questione del rapporto tra libera invenzione dell'autore e realtà oggettiva aveva animato il dibattito intorno al neonato genere

282 Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Milano, Mondadori, 1986, p. 129.

283 M. Bulgheroni, «Sentimental Journey», op. cit., p. XVII.

284 Cfr. P. Fasano, op. cit., p. 34.

285 Ivi, p. 37.

286 Ivi, p. 42.

287 Cfr. E. Guagnini, op. cit., p. 85.

“ibrido” per eccellenza, il romanzo storico, a cui Bertolotti si era dedicato nei primi anni Venti, addirittura assicurandosi il primato nell'utilizzo della definizione. Enzo Striano espone i termini della sfida rifacendosi ad illustri predecessori, le cui riflessioni sul tema sintetizza per noi in una nota posposta al suo romanzo Il resto di niente, le cui vicende si sviluppano durante un episodio storico che Bertolotti non si trovò a incrociare solo per pochi anni, allorché si recò a Napoli per ricevere gli insegnamenti di Juan Andrés; ossia l'ambiziosa, fragile e breve esperienza costituita dall'istituzione della Repubblica Partenopea nel 1799:

Questo è un romanzo “storico” (secondo la classificazione didascalica dei generi, in verità tutti i romanzi sono “storici”, così come tutti i romanzi sono

“sperimentali”), non una biografia, né una vita romanzata. L'autore si è quindi preso, nei confronti della storia, quelle libertà postulate da Aristotele («Lo storico espone ciò che è accaduto, il poeta ciò che può accadere, e ciò rende la poesia più significativa della Storia, in quanto espone l'universale, al contrario della storia, che s'occupa del particolare», Poetica, IX, f), dal Tasso («Chi nessuna cosa fingesse, poeta non sarebbe, ma historico», Primo discorso sull'arte poetica), dal Manzoni («Lo scrittore deve profittare della storia, senza mettersi a farle concorrenza», Lettera al Fauriel»), da altri grandi288.

La stessa linea fu perseguita da Bertolotti nella stesura di romanzi storici, novelle e tragedie, opere nelle quali al nucleo narrativo partorito dall'ingegno dell'autore, seppur sulla scia di mode e convenzioni, faceva riscontro una conoscenza piuttosto approfondita del contesto, derivante nel suo caso anche da nozioni apprese in occasione della traduzione di opere straniere o della compilazione di testi divulgativi. La dichiarazione programmatica, però, si trova nelle pagine introduttive che Bertolotti inserì nella seconda edizione del Viaggio al lago di Como, nel 1824. Così l'autore presenta il proprio testo:

E, di fatto, esso è composto di due parti che agevolmente si posson distinguere, benché legate insieme con qualche artificio. La parte descrittiva, la quale è intesa a riferire le particolarità del Lario, a ritrarne le bellezze, a farne amare il soggiorno ai natii; a chiamare gli stranieri ad ammirarne le maraviglie. La seconda parte ch'io chiamerò drammatica, la quale comprende le novelle, i racconti, gli aneddoti, le riflessioni storiche, filosofiche, critiche, poste quasi sempre in bocca d'interlocutori introdotti in forma di commedia o di romanzo. […] Altri mi hanno chiesto se i miei episodj sieno veri, oppure di mera invenzione. Risponderò che raramente sono tutti veri, e mai sono inventati del tutto289.

288 Enzo Striano, Il resto di niente, Milano, Mondadori, 2005, nota dell'autore.

289 D. Bertolotti, Viaggio al lago di Como, seconda edizione, cit., pp. 3, 9.

Precisazioni importanti e necessarie, poiché riguardano un testo redatto in prima persona in cui i due registri scelti e rivelati da Bertolotti si alternano senza soluzione di continuità. L'impressione di verosimiglianza è cercata e ottenuta proprio attraverso questa fluidità: gli episodi cui si fa riferimento, ad esempio, sono spesso raccontati da personaggi che l'autore, o il suo alter ego in altre occasioni, afferma di aver veramente incontrato nei luoghi descritti. L'intenzione, però, non è quella di ingannare la percezione del lettore, bensì quella di

«giovare e piacere»290, secondo il motto che Bertolotti, nelle righe inviate ad Angelo Brofferio a corredo delle pagine autobiografiche, afferma di avere affisso nel proprio studio, altro modo di esprimere la pratica oraziana del docere delectando o, per usare ancora un'altra formula riportata nella stessa Dichiarazione dell'autore sopra la seconda edizione, “insegnare e allettare”:

Ora, dice un autorevole critico: «Nelle opere d'insegnamento non cessar mai dal correggere; in quelle di allettamento, se hai piaciuto una volta, astienti dal riformare!». La qual opinione era troppo adescante, perch'io non prendessi ad attenermivi tosto291.

Elementi di realtà e di finzione giustapposti e concatenati in maniera variabile secondo l'arbitrio dell'autore, ma con metodo consapevole, trasparente e anche rigoroso, come dimostrano l'abbondanza e la precisione dei riferimenti geografici nel collocare l'azione narrata e il corposo apparato di note contenenti approfondimenti tecnico-scientifici e citazioni delle fonti con cui Bertolotti arricchisce le proprie relazioni. La volontà di distinguere i due approcci ritenuti complementari, senza trascurarne alcuno, avrebbe portato Bertolotti ad assegnare una struttura tripartita al Viaggio nella Liguria marittima, affinché il vero e proprio resoconto di viaggio non fosse appesantito dalla ponderosa quantità di dati statistici e notizie varie relegata nel Ragionamento preliminare e nell'Appendice. Fino all'assunzione dell'incarico governativo con cui si impegnava a stendere resoconti “ufficiali”, Bertolotti mantenne l'abitudine di intrecciare la linearità del discorso descrittivo (e il nitore delle digressioni compiute nell'ambito delle diverse discipline con cui l'oggetto della relazione lo costringeva via via a misurarsi) con le improvvise fughe nel libero territorio della creatività artistica, senza però confondere i due piani. Similmente, la necessità di gettare uno sguardo ravvicinato e prolungato sugli oggetti meritevoli incontrati lungo la via, che come si è visto Bertolotti rivendica, per esempio, quando la velocità del calesse su cui si sposta è troppo

290 A. Brofferio, op. cit., p. 217.

291 D. Bertolotti, Viaggio al lago di Como, seconda edizione, op. cit., pp. 7-8.

elevata, e che si riflette nell'intenzione di restituire un resoconto il più possibile fedele al vero, non gli impedisce di rivendicare un adeguato spazio per manifestare la propria soggettività, affiancando così la declinazione sentimentale del viaggio al più tradizionale approccio analitico:

Taluni mi hanno apposto di aver usato tinte troppo lusinghevoli per dipignere oggetti che non commuovono egualmente l'immaginativa loro. Ma è forse mia la colpa se le deliziose rive del Lario mi aprono l'animo alla dolcezza ed al riso! Ho scorso anch'io le più fiorenti contrade di Europa, e nessun luogo ha in me eccitato impressioni più vive e più care. Io scrivo ciò che sento, e non pretendo di signoreggiare il modo di sentire in altrui. Me felice se qualche volta arrivo a scuotere l'illanguidita fantasia di un lettore, od a ravvivarne gli affetti!292

«Talvolta solo all'immaginazione e alla menzogna sembrano schiudersi i palinsesti della storia»293, sentenzia Attilio Brilli, concedendo giustamente piena liceità all'approccio addirittura medianico degli autori che si affidano più all'evocazione che alla descrizione per captare il genius loci. Oggetto della riflessione è René de Chateaubriand, con cui Bertolotti aveva intavolato una polemica a proposito dell'attinenza, postulata dal visconte bretone di fede borbonica, dell'inclinazione al misfatto di Napoleone con le sue radici italiane, e che a inizio secolo aveva battuto le strade d'Italia per poi raccogliere i frammenti diaristici ed epistolari dell'esperienza nel suo Voyage en Italie del 1827. Ma le parole di Brilli potrebbero riferirsi plausibilmente al modello di relazione del viaggio neoclassico sulla quale già Sterne ironizzava a proposito di Joseph Addison, in cui talvolta il filtro letterario prevaleva sulla precisione documentaria, o anche all'approccio romantico degli spiriti erranti che tendevano a selezionare gli aspetti dell'esistente nei quali il loro gusto per il sublime e l'orrido potesse più facilmente rispecchiarsi. Per contro, Cesare de Seta, passando in rassegna gli scritti dei viaggiatori stranieri in Italia tra il XVI e il XVIII secolo, individua un rigoglioso filone di resoconti tesi all'illustrazione del “Paese reale” «che sfuma lentamente e si trasforma in ricerca al fondo della individuale emotività del viaggiatore»294, proprio negli anni

“bertolottiani”, con il Reisebilder di Heinrich Heine (1826-1831). In realtà l'inventario si chiude con il “controviaggio” di Johann Gottfried Seume, pragmatico classicista sassone il quale, oltre vent'anni prima dell'“elogio della lentezza” che apre le Lettere da Telgate, si liberò della prigione della carrozza e girò l'Italia a piedi, da nord a sud e ritorno, accompagnato solo dall'immancabile zaino colmo di libri e da quel “bastone del viaggiatore” che Bertolotti nei

292 Ibidem.

293 A. Brilli, Il viaggiatore immaginario, op. cit., p. 69.

294 C. de Seta, L'Italia nello specchio del Grand Tour, op. cit., p. 9.

Brevi ricordi utilizza anche come vero e proprio simbolo dell'attività di traveller per come lui la concepiva. E procedendo a piedi Seume, come Bertolotti, coglie l'opportunità «di attraversare campagne, piccoli centri agricoli fuori dalle vie maestre, di visitare cittadine di cui è difficile trovare traccia negli itinerari classici»295, facendosi portatore di uno sguardo di matrice illuministica che nel suo caso, grazie alla scala ridotta su cui viene applicato, nel rivelare aspetti minuti e trascurati della vita di provincia, come ad esempio i problemi della gestione del suolo e dei regimi idrogeologici, assume anche un valore civile.

Se il canone odeporico settecentesco, al quale Sterne e de Maistre opposero uno schema che vedeva, per così dire, la forma prevalere sulla sostanza e Bertolotti, almeno in prima istanza, una revisione degli itinerari, venne percepito a un certo punto come inefficace, più che a un'inadeguatezza intrinseca dello strumento, che risentì indubitabilmente della immutabilità quasi rituale di cui via via si ammantò, ciò si dovette alle nuove istanze della nascente Età Contemporanea. La definizione “operazionale” di viaggio assunta dal sociologo Mario P. Salani «è quella di uno spostamento, dotato di un senso proprio (quindi non funzionale ad altro), socialmente significativo, delle persone nello spazio»296. Nel Grand Tour si erano fusi «la peregrinatio academica e il viaggio di iniziazione dell'apprendista cavaliere»297, riproposti nel Settecento attraverso una concezione del viaggio «come osservazione regolata, come scienza dell'induzione e arte della descrizione»298: il suo significato sociale emergeva nell'omogeneità del cammino di formazione della classe dirigente europea, nella riconferma dei presupposti culturali neoclassici, nella «rifrazione culturale dinamica»299 che le conoscenze acquisite e trasmesse proiettavano sulla società di partenza. Forse possiamo considerare scricchiolii dell'edificio sempre più imponente che il viaggio istituzionalizzato aveva costruito quale luogo di immagazzinamento ed appropriazione del mondo sotto forma di dato l'introduzione della possibilità di esprimere il trasporto personale dell'autore nelle descrizioni paesaggistiche e la comparsa di motivazioni extradidattiche del travel, dal collezionismo d'arte agli atteggiamenti proto-turistici300. Poi il cambio di secolo portò un nuovo senso del viaggio, e una nuova funzione al suo racconto, che necessitava quindi di nuovi strumenti.

La referenza concreta tornò presto ad esercitare la propria forza di gravità sul tentativo della letteratura di sganciarsi dall'obbligo della conformità al reale: nella canzone di Leopardi

295 Ivi, p. 404.

296 M. P. Salani, op. cit., p. 23.

297 E. J. Leed, op. cit., p. 217.

298 Ivi, p. 221.

299 Ivi, p. 192.

300 Cfr. P. Battilani, op. cit., p. 108.

Ad Angelo Mai del 1820, in cui Cristoforo Colombo compare all'improvviso nella schiera dei poeti, infrangendo i loro leggiadri sogni con la dura materia delle proprie scoperte, l'ingresso in una nuova era viene espresso sotto metafora attraverso «il confronto tra l’apparenza di vastità che il mondo offre all’ignaro sguardo infantile e l’effetto di impicciolimento creato dall’esperienza»301: «[...] A noi ti vieta/ il vero appena è giunto,/ o caro immaginar […]». Nel percorso individuato da Pino Fasano l'aspetto letterario del viaggio, che in de Maistre aveva prevalso fino a diventare esclusivo, viene definitivamente frustrato dall'amer savoir, la consapevolezza del mondo, piccolo e ripetitivo, nell'Albatros e nel Voyage di Baudelaire, dove la cronaca del contingente, ugualmente monotona sotto qualsiasi cielo, rivela all'autore l'inefficacia del racconto odeporico e lo ricaccia nel sentimento per fuggire il quale aveva assecondato l'anelito alla partenza: la noia. La noia come propulsore ci riporta al Voyage autour de ma chambre per motivi quasi ovvi, visto che Xavier de Maistre si dedicò alla stesura del libro proprio nell'intento di sottrarsi all'inedia della reclusione. Tra le finalità dichiarate dell'opera, però, c'è anche quella di lenire la noia del lettore, oltre a quella dell'autore. In un altro passo, con ostentata disinvoltura, de Maistre arriva a compatire chi non abbia avuto la ventura di provare il tormento nella noia, evitando una proficua conversazione con sé stesso in favore della compagnia di interlocutori sciocchi. Storicamente con il termine

“noia” si erano indicati dapprima gli affanni e le pene insite nel viaggio, mentre quando una variazione d'uso del vocabolo lo aveva trasformato in sinonimo di “costrizione in una camera chiusa”, la possibilità di spostarsi era passata a diventarne l'antidoto, così come lo era la parola, il racconto – altro possibile intreccio semantico tra viaggio e letteratura302.

Ciò che qui interessa è che anche Davide Bertolotti considera la noia, come conseguenza dell'ozio, una delle motivazioni principali della sua attività di viaggiatore. A parlare, beninteso, è il suo alter ego: l'“antico militare”, autore fittizio delle lettere allo

«Spettatore» dietro il quale Bertolotti si cela per conferire carisma e credibilità al narratore delle tappe raccontate sulle pagine del giornale. La scelta di utilizzare lo strumento epistolare, invalsa in maniera sempre più frequente nel corso del Settecento, sembra in effetti la più funzionale alle esigenze che Bertolotti voleva soddisfare con i propri resoconti:

In un’epoca di forte incremento dell’attenzione all’individualità, la lettera in prima persona poteva esprimere una soggettività che – però – in quanto documento almeno apparentemente verificabile e sperimentale di una esperienza diretta, poteva avere il valore di una testimonianza oggettiva (come potrebbe essere intesa una testimonianza giudiziaria). […] La lettera poi, per una naturale costituzione,

301 P. Fasano, op. cit., p. 49.

302 P. Fasano, op. cit., pp. 29-31.

appariva come genere che rendeva possibile, nella sua fisionomia comunicativa, una certa agilità e duttilità, permettendo passaggi scorrevoli da uno ad altro tema303.

Anche il fatto di firmare le lettere con uno pseudonimo, fingendo che a muoversi sullo sfondo degli scenari realmente attraversati fosse un personaggio, un'identità fittizia, corrisponde a un uso codificato in ambito odeporico:

Dal Settecento al Novecento i viaggiatori italiani in Italia indossano “maschere di carta” molto diverse, tutte però riconducibili a una medesima tipologia: da un lato ecco la stilizzazione impersonalmente anonima (la maschera corrisponde al profilo dell'autore implicito, all'immagine cioè dell'autore che scaturisce dal complesso dell'opera), dall'altro la sceneggiatura romanzesca (personaggio e autore implicito tendono a differenziarsi). Non senza eccezioni (molti sottogeneri vincolano la libertà di definizione del personaggio, si pensi alla descrizione), i due casi segnano anche gli estremi dello sviluppo storico della caratterizzazione del protagonista, poco rilevato nel Settecento e poi sempre più “eroe”304.

Nel caso di Bertolotti, a prevalere è la modalità in cui la voce del protagonista è tendenzialmente sovrapponibile a quella dell'autore, benché il primo riferisca esperienze pregresse fittizie utili allo scopo narrativo e alla messa in atto di precise strategie comunicative. Però questa soluzione viene esplicitata in due momenti diversi e con gradazioni differenti. La serie Milano e la Lombardia nel 1818, prima vera relazione di viaggio di Bertolotti, preceduta soltanto dal breve resoconto La festa di Cinisello, venne pubblicata sullo

«Spettatore» utilizzando più di un artificio letterario. Infatti, oltre a presentare i vari capitoli, ciascuno dei quali si riferiva a una settimana di viaggio, come lettere ricevute da un anonimo ufficiale in congedo, si finse che la prima missiva fosse andata smarrita. In questo modo Bertolotti poté esordire in medias res con la seconda lettera e le informazioni sul piano dell'opera e sul suo autore furono relegate in nota, firmate genericamente da “gli Editori dello Spettatore”. Qui si spiega che il mittente ha intenzione di camminare sulle orme di scrittori di viaggio del passato, avendo però come oggetto Milano e i suoi dintorni, poiché «stanco di operare, si è appigliato al partito di osservare»305.

Un discorso ben più ampio sulle motivazioni del viaggio compare nella Sedicesima settimana, in realtà quarto capitolo delle avventure del militare in pensione che in occasione dell'uscita in volume di una buona parte di queste pagine all'interno delle Peregrinazioni, nel

303 E. Guagnini,op. cit., pp. 22-23.

304 L. Clerici, op. cit., p. XVI.

305 D. Bertolotti, Milano e la Lombardia, op. cit., p. 1.

1822, venne opportunamente collocato all'inizio del secondo volume: il primo volume infatti contiene scritti posteriori nei quali Bertolotti aveva abbandonato l'uso dello pseudonimo, quindi la spiegazione dei presupposti della partenza costituisce di fatto una presentazione del personaggio che agisce nella seconda parte dell'opera306. Questo è il punto in cui l'“antico militare” comincia a svelare le ragioni e gli scopi del giro della regione che si propone di compiere:

Euripide ha chiamato l'ozio un male giocondo. L'ozio è un male mai sempre, ma non è giocondo che per breve tratto; prolungandosi, esso genera la noja, che nel linguaggio de' Trovatori lo stesso suona che pena; la noja che, secondo Pascal, è niente meno che una delle tante miserie recate nel mondo dalla prima disobbedienza dell'uomo307.

Come abbiamo avuto occasione di ricordare in precedenza, siamo in un periodo storico in cui i letterati avvertono in maniera più pressante il cambiamento della loro condizione, che li porterà - e questo per Bertolotti fu un obiettivo dichiarato - a fare della loro arte professione, dall'otium al negotium. Così procede il discorso dell'“antico militare”:

Molti scrittori moderni hanno vantato le dolcezze del far niente; ed il Rosseau308 ne tesse una lusinghiera pittura. Ma improprio sarebbe il confondere l'ora del riposo dopo il lavoro, oppure la calma della riflessione, coll'infingardaggine permanente ed abituale. La scioperatezza, infestissimo detrimento della vita, intristisce e corrompe non meno il corpo che 1'anima. L'utilità di vivere non consiste nello spazio, ma bensì nell'uso. Gli antichi alzarono tutti un grido contro l'oziosità, che da un filosofo viene appellata sepoltura d'uom vivo309.

Il protagonista confessa però subito dopo di essere in realtà caduto vittima lui stesso

Il protagonista confessa però subito dopo di essere in realtà caduto vittima lui stesso