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3. I laghi

3.5. Lago d'Iseo

Lettere da Telgate o sia viaggio in Valcalepio, al lago d'Iseo e ne' dintorni è un'opera più breve delle precedenti, agile come il calesse che sfreccia nella prima missiva sulla strada tra Bergamo e Brescia, e poi verso la valle citata nel titolo, la cui eccessiva velocità offre a Bertolotti l'opportunità di ribadire che il suo metodo è, o sarebbe, quello del viaggio lento, dell'osservazione ravvicinata, prolungata e approfondita507. Nonostante l'invettiva contro il conducente frettoloso, la caratteristica delle prime lettere sembra essere proprio la sommarietà: cenni fugaci, descrizioni sintetiche, aggettivazione piuttosto vaga. Gli aggettivi assomigliano più spesso a giudizi di valore che a indicazioni specifiche riguardo le caratteristiche precipue del singolo versante o paesello. Sono quasi assenti le informazioni tecnico-statistiche, fatti salvi gli elenchi di località. Asciuttezza e concisione, però, conferiscono alla prosa scorrevolezza e fluidità. Torna l'unicità dell'esperienza soggettiva e l'elemento diaristico, anche nella sua componente narrativa, riacquista spazio rispetto alle aggiunte fatte al Viaggio al lago di Como o al successivo Viaggio in Savoia: gli accenni alla stanchezza, i brindisi con la brigata di ventun persone alla quale l'autore si aggrega, la presenza di pergolati e osterie, creano un'atmosfera leggera che favorisce una lettura distesa.

Le lettere non sono del tutto fittizie nella forma: compaiono saluti e cenni rivolti al

505 D. Bertolotti, Viaggio in Savoia, op. cit. Vol. 2, p. 70.

506 Ivi, p. 256.

507 Cfr. par. 2.2.

destinatario. Rispetto ad altri resoconti, più ricchi di informazioni, le digressioni appaiono più come variazioni del ritmo che come sospensioni del passo. Meno originale del solito l'inserto puramente narrativo, che ricorda per esplicita ammissione dell'autore l'Otello, riportato però come storia realmente accaduta a Grumello nel Settecento, con protagonisti il conte Vertova e la moglie Giulia nei panni del Moro di Venezia e Desdemona, mentre lo Iago della situazione è lo sgherro Gasparo Ferrabò.

Tra le costanti bertolottiane ritroviamo l'abitudine di utilizzare Napoli e Genova come termini di paragone noti per aiutare il lettore a raffigurarsi vedute o edifici meno conosciuti:

alla loggia della Certosa di san Martino, situata sulla collina del Vomero, è accomunata quella del monastero che si trova sul monte Orfano, che l'autore chiama Coccaglio come il paese limitrofo; il campanile di Palazzolo sull'Oglio, poi Torre del Popolo, che all'epoca della stesura del resoconto stava per essere ultimato, pur essendo a base circolare assomiglia secondo Bertolotti alla Lanterna, da lui chiamata qui genericamente “faro”508: probabilmente l'intenzione è quella di riportare il colpo d'occhio, l'impressione immediata che in effetti può far associare i due edifici, visto che anche quello bresciano è costruito su più ordini, come quello genovese, e presenta sulla sommità una cupola che ricorda una lampada di segnalazione.

Nella lettera VII, nell'ambito di un ampio elogio dell'Italia, che contiene un invito a conoscerla tutta, a «internarsi nelle sue provincie»509 allontanandosi dai capoluoghi, Bertolotti sembra redigere un riepilogo delle particolarità che più lo hanno colpito durante le sue peregrinazioni alpine. Dopo un elenco di «vaghezze naturali» montane, ecco la conferma dell'attenzione dell'autore verso due elementi che abbiamo visto emergere nei precedenti resoconti, l'emigrazione degli uomini e l'abbigliamento tradizionale delle donne:

E dappertutto in esse borghi, villaggi, casali, con chiese per lo più belle e spesso ornate d'insigni pitture; e dappertutto una popolazione industriosa, operosa, i cui uomini quasi per ogni dove hanno l'uso di trasmigrare temporaneamente in paesi più o meno lontani per guadagnar lavorando, e le cui donne serbano in assai luoghi fogge di vestire stranissime, antichissime, e da tutte le altre dissimili.

Al termine di questa parentesi discorsiva Bertolotti torna anche sulle sue motivazioni di viaggiatore, già espresse anni prima, all'inizio dei suoi giri fuori Milano510: «Ho scorso di tal

508 Bertolotti la chiama invece “Faro”, nome proprio, nel poemetto La Geografia Patria, ma anche “Torre della Lanterna” nelle note che il poemetto accompagnano.

509 Tutte le citazioni contenute nel presente paragrafo, tranne ove diversamente indicato, sono da riferirsi a D.

Bertolotti, Lettere da Telgate..., cit.

510 Cfr. par. 2.4.

guisa le principali valli delle Alpi Pennine, Leponzie e Retiche, senza disegno alcuno, trattovi meramente dal bisogno di far moto, dall'allettamento dell'aria purissima, e dal desiderio di ricevere poetiche e romanzesche emozioni». Parole che ci aiutano a comporre una sorta di schema progressivo in cui inserire gli obiettivi delle sue opere odeporiche: dall'assenza di disegno qui rivendicata al progetto del Viaggio ai tre laghi, così strutturato sull'esempio di Amoretti e uscito nello stesso anno di queste Lettere da Telgate, alla più ambiziosa intenzione di comporre una Descrizione dell'Alta Italia, che avrebbe dovuto comprendere, oltre ai resoconti già editi, altre opere mai pubblicate, fino all'adesione al piano governativo che lo avrebbe portato in Savoia e in Liguria. Bertolotti sembra qui tradire l'impulso a tracciare un bilancio della sua vita da traveller: non sappiamo se la sua precaria situazione personale, che lo vedeva in quel momento privo di una residenza fissa in Lombardia a causa del timore di problemi con la censura austriaca511, lo abbia fatto dubitare di potersi dedicare ancora alla sua passione per i viaggi512. Sul monte Coccaglio, dopo una descrizione della visuale offerta dal panorama in direzione dei colli bresciani e del Tirolo, l'azione retrospettiva della memoria si era fatta poco prima sguardo concreto sulle vette percorse, giungendo ad abbracciare in un giro d'orizzonte anche quelle che sarebbero state immortalate da Bertolotti negli anni a venire:

La stupenda scena di che vi ho fatto un languido abbozzo, non forma che una parte, o per meglio dire, uno de quattro lạti dell'immenso prospetto che si scopre dalla cima del monte Coccaglio. Dagli altri tre canti l'occhio va errando senza confine sopra sterminate pianure. E queste altra barriera non hanno a ponente che la grande giogaja delle Alpi, le quali dividono la Francia e l'Elvezia dall'Italia, ed a mezzogiorno che la catena degli Apennini, i quali, principiando alle Alpi marittime, corrono a partire il paese che in bellezza a tutti sta sopra.

Un altro tipo di bilancio, ancora più specifico, verrà dopo le lettere aventi come oggetto il lago d'Iseo, quando si stilerà una sorta di classifica tra le più belle vedute panoramiche.

Nonostante Bertolotti sia partito da Bergamo, transitato per Telgate, tornato a Grumello dopo la divagazione fino a Coccaglio e poi si sia dedicato brevemente alla descrizione della val Calepio, situata presso le sponde meridionali del lago, il Sebino viene trattato a partire da nord: non ci sono motivazioni narrative o logistiche per questa scelta, se non quella di immaginare poi un accenno di percorso a ritroso verso la strada del ritorno, che si concluderà a Chiuduno, non lontano da Telgate.

La parte dell'opera riservata al lago appare quasi come un inserto, un allegato in forma

511 Cfr. par. 1.4.

512 Dubbi e speranze qui esplicitamente espresse: «[...] se la salute e l'ardire non mi vengon meno, e i destini non mi si fanno più tetri, intendo di scorrerne tutte le più notevoli [valli] dalla culla del Po alla sorgente dell'Adige».

di guida che contiene informazioni oggettive, più che il racconto dell'esperienza dell'autore attraverso i luoghi rappresentati. Il lago viene suddiviso in tre prospetti, nell'ottica di una frammentazione degli itinerari che renda conto delle peculiarità dei luoghi, ma anche nel rispetto di una lunghezza standard delle missive. La descrizione della parte meridionale consta essenzialmente di alcuni cenni attorno ai borghi di Lovere e Pisogne, tra i quali vi sono notizie storiche desunte da altro autore non menzionato, e qualche riga a proposito dell'orrido di Castro, che forse in altre opere avrebbe fatto vibrare più a lungo le corde dell'autore. Il passo più letterario riguarda non già le bellezze naturali, ma una fonderia della zona:

Il momento in cui si estrae il ferro fuso, è degno di fermare ogni sguardo.

L'aspetto delle fiamme che ardono in quelle bolge, l'empito con che il metallo liquefatto sgorga per l'angusto foro apertogli a uscire, il crepito ch'esso manda al versare che fanno i secchi d'acqua sulla superficie dell'avvampante suo stagno, e la nera crosta che ivi allora si forma, e le scintille e il calore e il chiaror dell'incendio, e l'abbronzato volto de' ciclopi che armati degli acconci utensili si adoperano a frenar con umida argilla lo straboccar del metallo, tutto ciò forma uno spettacolo che rammenta l'antro di Vulcano da Virgilio sì immaginosamente descritto.

La parte centrale del Sebino presenta due aspetti contrastanti: i monti che «correndo a mezzogiorno, specialmente sul lido orientale, si fanno a poco a poco nudi, ispidi, inaccessibili, orrendi, e ricacciano indietro le acque del lago, e ne rinserrano il regno», e, sulla sponda opposta, la possibilità di godere dello spettacolo dell'alba da un punto che ricorda il Lario: «chi da Tavernola guarda il contrario lido, crede di trovarsi sul lago di Como, ed avere i colli di Griante in prospetto». Il Monte Isola è l'unico punto che spinge l'autore a comprendere per un attimo nel quadro anche sé stesso, nell'atto di sbarcare e fare il giro della roccia emersa. Quanto alla parte meridionale, la scorsa è rapida, con citazioni solo per Iseo, Predore e Sarnico.

La lettera IX conferma la caratteristica di nucleo indipendente della descrizione del lago: dopo la consueta panoramica riassuntiva, che lascia vagare lo sguardo dal Monte Isola alla Val Calepio, dalla pianura estesa fino alle rive del Po ai colli bresciani, ma anche in basso, verso il punto in cui le acque del lago d'Iseo tornano a chiamarsi Oglio, ricompare l'elemento diaristico, e con esso la brigata di amici. Ci troviamo a Credaro, in un luogo oggi noto come Castel Montecchio, su un poggio che l'autore chiama solo Montecchio poiché la villa patrizia da lui citata non era ancora stata modificata con la torre e le merlature aggiunte nel 1872513. Il

513 Cfr. il sito web della Regione Lombardia: <https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/1A060-00070/>.

bel panorama che si gode da lassù induce Bertolotti a inscenare, insieme a un giovane viaggiatore presente nella compagnia, una formidabile competizione tra le migliori vedute, da scegliersi tra quelle apprezzate nel corso delle loro precedenti uscite. Dalla gara vengono però escluse le località marittime. Il criterio adottato è ancora quello secondo il quale il panorama perfetto deve comprendere monti ed acqua, per cui vengono per prime squalificate le vedute della Toscana interna, troppo asciutte, e per la stessa ragione Monticello, in Brianza. Le rive del Reno e della Senna sono giudicate troppo austere o troppo aride. Restano in lizza «il colle di Richmond nelle vicinanze di Londra, la Rocca di Angera sul Lago Maggiore, il Promontorio di Bellagio sul Lario». Agli occhi di Bertolotti l'unica veduta che supera in bellezza quella di Montecchio in cui è immerso è Bellagio, mentre non è dato conoscere la scelta dell'interlocutore. Ulteriori stimoli però vengono offerti al lettore attraverso l'elencazione, in nota, di una nutrita serie di luoghi che potrebbero reggere il paragone con quelli citati.

Le ultime lettere mostrano un carattere accentuatamente letterario. Ancora Montecchio offre il destro: la succitata villa che vi sorge, che oggi ha l'aspetto di un castello, è costruita sulle fondamenta di quella che nel Medio Evo era in effetti una rocca; Bertolotti riprende quindi un episodio dell'epoca ivi ambientato, appreso da fonte storica ma da lui raccontato, per esplicita dichiarazione, «con istile diverso». Si tratta della vicenda di due sorelle orfane, gentildonne di Iseo, le quali, violate da due feroci condottieri di milizie che infestavano la zona, e che erano acquartierate proprio a Montecchio, innescano e guidano, «novelle Amazzoni», una spedizione punitiva composta dai cittadini di Brescia, donne comprese, fino ad arrivare a punire personalmente con la morte ciascuna il proprio aggressore.

Il lago, sempre visibile almeno in un angolo della scena, continua a fare da sfondo anche ai passaggi successivi. C'è spazio per un'ennesima vicenda di amanti infelici, due giovani nativi delle sponde del Sebino sposatisi nonostante il parere inizialmente sfavorevole delle famiglie: la conclusione è più prosaica che altrove, visto che il protagonista, dalla cui viva voce Bertolotti raccoglie la testimonianza, rimasto improvvisamente vedovo dopo essere diventato padre, supera la disperazione grazie all'incontro con un coetaneo sofferente per una malattia incurabile, circostanza che gli rammenta il valore della vita e gli consente di scacciare l'idea della morte in eremitaggio, sopravvivendo fino all'incontro con Bertolotti, il quale raccoglie la storia dalla sua viva voce.

L'ultima escursione ha come meta le alture tra i laghi d'Iseo e di Endine, porzione delle Alpi Orobiche qui definita dall'autore «monti d'Adrara» dal nome di una località vicina, e in

particolare il Monte Torrezzo514. Bertolotti si dilunga nella descrizione panoramica, che qui comprende quindi due bacini e ben tre ordini di vette:

La veduta dall'alto di questi monti è magnifica: in alcuni tratti si scorge contemporaneamente il laghetto d'Endine nella profondità occidentale, e il vitreo specchio del Lago d'Iseo nel basso ad oriente. Noi salimmo sino sul colmo detto il Torreggio, ch'è il più eminente di questi monti, ed ove si eseguirono i lavori della triangolazione. Ammirasi da quell'altezza un anfiteatro che non ha il pari. A tramontana apresi la Val Camonica fino oltre al dirupo di Breno; simile ad una conca, ella si allarga e si abbassa per lasciar libero il corso all'Oglio che serpeggiando la scorre. Mirasi di poi questo fiume versarsi nel lago ch'ei forma, ed il felice seno di Lovere si discopre in parte allo sguardo: ché se vi volgete dalla contraria parte, scernete ancora lo stesso fiume, già uscito dal Lago, scorrere in lontananza per le pianure del basso Bresciano. Ma ciò che maggiormente empie di stupore, gli è la triplice catena de' monti che formano le valli del Bergamasco, veduta da un'altezza pari ai sublimi lor gioghi; e più lungi le vette che dal lato opposto guardano la Valtellina, e più lungi ancora quelle che si collegano alle alpi de' Grigioni e del Tirolo. Vi pare di avvolgervi tra un laberinto di monti, e l'occhio erra con maraviglia dalle sommità coperte di neve perpetua, fino alla turchina superficie del lago. Dirizzando poi l'occhio a levante mezzogiorno, a ponente, le principali città della Lombardia si sollegano da lungi nel piano, ovvero si disegnano con eleganza sul declivo de' colli.

A Brugallio, infine, la visita alla villa della contessa Clarina Mosconi, in occasione della quale Bertolotti definisce la sua ospite “sorella” della poetessa Lesbia Cidonia, appartenente a un'altra generazione e scomparsa da tempo, forse in quanto entrambe intellettuali e salonnières, e cita alcune rime con cui l'autrice aveva saputo secondo lui «sollevarsi dai bassi prati dell'Arcadia». Non a caso, come fa notare Rosa Necchi515, Bertolotti sceglie di citare due opere dal soggetto odeporico: un sonetto sul passaggio delle Alpi e un passo in versi sciolti che vede la poetessa salpare da Genova verso le rive toscane. Due squarci di viaggio, tra monti ed acqua.

L'episodio spinge l'autore a rinverdire il suo amore per le rime e a chiudere il resoconto del suo viaggio con «uno di que' componimenti lirici di genere patetico, a' quali gl'Inglesi sogliono applicare il titolo di Ballata», dal titolo Il romito e la pellegrina. La protagonista, allontanatasi dalla civiltà in preda alla disperazione, confida la sua pena all'eremita in cui si imbatte: la sua esasperata ritrosìa l'ha portata a rifiutare l'innamorato Alfredo, il cui corteggiamento era approvato e sollecitato dal padre di lei, causando la partenza del giovane per lidi lontani. La notizia della morte in naufragio dello spasimante ha cagionato un

514“Torreggio” nel testo.

515 R. Necchi, op. cit., p. 380.

crepacuore al mancato suocero e la conseguente fuga dal mondo della ragazza. Quando l'eremita rivela di essere Alfredo, scampato alla furia delle onde, l'emozione schianta il cuore della pellegrina, evento che a sua volta provoca nell'uomo un dolore che lo porta alla morte: il ritorno del viaggiatore ha avuto esito tragico.