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Generalità sui sistemi di fitodepurazione

Nel documento LA GESTIONE DELLE ACQUE REFLUE ENOLOGICHE (pagine 75-83)

5 SISTEMI DI TRATTAMENTO NATURALI

5.3 Fitodepurazione

5.3.1 Generalità sui sistemi di fitodepurazione

5.3 Fitodepurazione

5.3.1 Generalità sui sistemi di fitodepurazione

La fitodepurazione è un processo naturale di depurazione delle acque reflue, che sfrutta i processi di autodepurazione tipici delle aree umide. In pratica gli impianti di fitodepurazione (nella letteratura tecnica internazionale vengono indicati come constructed wetlands = aree umide costruite) consistono in bacini artificiali poco profondi, generalmente riempiti di materiale granulare inerte, e vegetati con piante acquatiche (macrofite) atti a riprodurre i naturali processi auto depurativi. L’etimologia della parola (dal greco phyto = pianta) può trarre in inganno, inducendo a ritenere che siano le piante gli attori principali dei meccanismi di rimozione degli inquinanti. In realtà, le piante hanno il ruolo di favorire la creazione di microhabitat idonei alla crescita della flora microbica, vera protagonista dei processi di depurazione biologica.

I diversi sistemi di fitodepurazione possono essere classificati in funzione della tipologia di macrofite utilizzate (Brix, 1993):

- sistemi a macrofite galleggianti: vengono utilizzate piante

acquatiche che si sviluppano sulla superficie dei bacini in cui vengono immesse le acque reflue;

- sistemi a macrofite radicate sommerse: si fa ricorso ad essenze

vegetali radicate al fondo del bacino e con il fusto totalmente immerso nel liquame;

- sistemi a macrofite radicate emergenti: vengono impiegate

essenze vegetali radicate al fondo ed aventi l’apparato radicale, ed eventualmente solo parte dello stelo, immerso nelle acque reflue.

Una ulteriore classificazione dei sistemi di fitodepurazione a macrofite è quella effettuata sulla base del regime di funzionamento idraulico:

- sistemi a flusso superficiale;

- sistemi a flusso subsuperficiale.

I sistemi di fitodepurazione a flusso superficiale (FWS) trattano i liquami in bacini o canali a superficie libera su suolo permanentemente saturo. In tali sistemi possono essere utilizzate macrofite galleggianti, macrofite radicate sommerse, macrofite radicate emergenti o, in sistemi

a carattere sperimentale, anche microfite1.

Nei sistemi a flusso subsuperficiale, invece, le acque reflue scorrono attraverso un letto filtrante che costituisce il supporto per le radici delle macrofite radicate emergenti. Il livello idrico viene mantenuto sempre al di sotto della superficie del substrato nel quale si vengono a creare

1 Il sistema a microfite è costituito da stagni aerobici che presentano, in sospensione nei liquami, specie vegetali di ridotto sviluppo (unicellulari o pluricellulari),

condizioni sature e/o insature. Tali sistemi possono essere a flusso orizzontale o verticale.

Nei sistemi a flusso subsuperficiale orizzontale (H-SSF) il flusso idrico è continuo e scorre, grazie ad una leggera pendenza del fondo del letto, in senso orizzontale attraverso il medium di riempimento, nel quale si crea un ambiente prevalentemente anaerobico. Nei sistemi a flusso subsuperficiale verticale (V-SSF) le acque reflue da trattare, immesse sulla superficie del letto in modo discontinuo, percolano lentamente in senso verticale attraverso il medium di riempimento nel quale si crea un ambiente prevalentemente aerobico.

Le tipologie sopra illustrate possono essere diversamente combinate in un unico impianto, definito ibrido o multistadio, allo scopo di ottenere una riduzione delle aree superficiali necessarie al raggiungimento degli obiettivi depurativi o per migliorare alcuni processi come l’abbattimento dell’azoto e del fosforo.

Le combinazioni impiantistiche maggiormente utilizzate sono (Pucci et al., 2004):

- H-SSF + V-SSF: lo stadio a flusso sommerso orizzontale rimuove

gran parte dei solidi sospesi e del carico organico mentre lo stadio a flusso verticale effettua una rilevante ossidazione e un’efficace nitrificazione. In alcuni casi viene previsto un ricircolo dell’effluente in testa all’impianto per migliorare le percentuali di rimozione dei nitrati tramite i processi di denitrificazione che si verificano nel H-SSF;

- V-SSF + H-SSF: lo stadio a flusso sommerso orizzontale assolve

alla funzione di denitrificazione dell’effluente in uscita dal sistema verticale;

- H-SSF + V-SSF + FWS: lo stadio a flusso libero finale oltre a

completare la rimozione delle sostanze azotate, affina ulteriormente l’abbattimento della carica microbiologica.

Il trattamento naturale dei reflui di scarico di origine domestica ha origini antiche. A Roma, nel periodo imperiale, si usava scaricare la

cloaca maxima nelle paludi Pontine, con il preciso scopo di sfruttarne

il potere autodepurante. In Cina, ancora oggi, è comune l’usanza millenaria di creare stagni di lagunaggio destinati all’itticoltura, nei quali, al fine di incrementare la produzione ittica, vengono immesse periodicamente quantità opportune di liquami domestici, contenenti un’alta concentrazione di nutrienti (fosforo e azoto).

Le zone umide naturali sono caratterizzate da una estrema variabilità delle loro componenti funzionali. È quindi praticamente impossibile prevedere le conseguenze dell’apporto di acque inquinate e la traslazione dei risultati da una zona geografica all’altra. Sebbene si osservino significativi miglioramenti nella qualità delle acque reflue durante il loro scorrimento in zone umide naturali, non si possono quantificare in modo preciso le capacità di trattamento (Brix 1993). Le aree umide artificiali, all’opposto, offrono un maggior grado di controllo, permettendo una precisa valutazione della loro efficacia, in base alla natura del substrato, alle tipologie vegetali ed ai percorsi idraulici. Oltre a ciò, esse offrono vantaggi addizionali, quali ad esempio la scelta del sito di allocazione, la flessibilità nel dimensionamento e nelle geometrie, e soprattutto, il controllo dei flussi idraulici e dei tempi di ritenzione.

Le prime esperienze sul campo risalgono agli inizi degli anni cinquanta, quando fu avviata una serie di sperimentazioni al Max Planck Institute di Plon (Seidel 1955). Ci sono voluti circa vent’anni per arrivare al primo impianto di fitodepurazione in scala reale, costruito nel 1977 a Othfresen, in Germania, per il trattamento dei reflui urbani (Kickuth 1977). A partire dagli anni settanta, sono state condotte svariate ricerche

finalizzate ad ottimizzare la capacità autodepurativa delle constructed wetlands in rapporto a specifici obiettivi di qualità delle acque. Grazie ai dati ottenuti, è stato possibile individuare modelli e cinetiche di processo capaci di tener conto delle condizioni climatiche delle aree di intervento, delle diverse tipologie di refluo trattate e delle scelte impiantistiche adottate.

Attualmente, si stima che esistano in Europa alcune decine di migliaia di impianti di fitodepurazione, con una netta prevalenza di sistemi a flusso sub-superficiale orizzontale (Kadlec e Wallace, 2009). In Italia si è registrato un notevole ritardo nella diffusione delle tecniche di fitodepurazione, rispetto agli altri paesi europei, nonostante condizioni meteoclimatiche più favorevoli rispetto ai paesi nordeuropei. In ciò ha giocato un ruolo determinante la mancanza di adeguati riferimenti normativi. È infatti solo dal 1999, anno in cui lo Stato Italiano recepisce la Direttiva europea 91/271/CEE con il D.Lgs. 152/1999, che la fitodepurazione viene suggerita come trattamento secondario appropriato (sotto ai 2.000 A.E.) e come trattamento di affinamento per impianti tecnologici di grandi dimensioni.

I numerosi casi di inefficienza degli impianti di depurazione convenzionali ed i positivi risultati ottenuti a livello internazionale dai sistemi di fitodepurazione hanno prodotto, da circa trenta anni, anche in Italia, una lenta diffusione degli impianti di fitodepurazione principalmente per il trattamento delle acque reflue civili, dei reflui industriali (prevalentemente agroalimentari) e per la rimozione di nutrienti (inquinamento diffuso di origine agricola). La maggior parte degli impianti di fitodepurazione risultano localizzati nell’Italia Centrale e Settentrionale, aree in cui le autorità locali si sono mostrate maggiormente recettive all’accettazione di questi impianti già da svariati anni.

Al censimento del 2002, il sistema più utilizzato era quello a flusso sub-superficiale orizzontale, con più di 100 installazioni operative. Si

segnalano anche alcune importanti esperienze di utilizzo di zone umide seminaturali o ricostruite, in Veneto ed Emilia Romagna, impiegate prevalentemente per la rimozione di nutrienti, come trattamento dell’inquinamento diffuso di origine agricola. I risultati di tali esperienze sono stati documentati da Bendoricchio et al. (2000), Borin et al. (2001) e Bragato et al. (2002)

La maggior parte degli impianti a flusso sommerso, sia orizzontale che verticale, sono stati realizzati per il trattamento secondario di reflui domestici o civili. I sistemi ibridi, specie l’abbinamento di sistemi a flusso sommerso verticale ed orizzontale si sono dimostrati un’efficace scelta progettuale per l’abbattimento dell’azoto, fornendo eccellenti risultati in situazioni in cui venivano richieste più alte prestazioni e più spinti livelli di rimozione degli inquinanti.

L’applicazione dei sistemi di fitodepuraazione per il trattamento dei reflui enologici è iniziata nei primi anni del 1990 negli Stati Uniti seguiti, pochi anni dopo, da Francia, Italia, Germania e Spagna. Vari studi (Shepherd et al., 2001; Masi et al., 2002; Rochard et al., 2002; Grismer et al., 2003; Mulidzi, 2007; Serrano et al., 2011; De la Varga et al., 2013) hanno dimostrato l’efficienza dei sistemi di fitodepurazione nel trattamento dei reflui enologici associati alla facilità ed economicità gestionale. Alcune delle attività eseguite su tali sistemi hanno dimostrato alcuni limiti dei sistemi H-SSF e V-SSF quando costituiscono l’unico stadio di trattamento fitodepurativo o il primo stadio di un sistema multistadio a servizio di cantine con elevate produzioni di reflui particolarmente ricchi di sostanza organica.

Generalmante, il dimensionamento e la combinazione dei sistemi fitodepurativi è correlata alle dimensioni della cantina, espresse in termini di quantità di vino prodotto all’anno (hL/anno), agli specifici

obiettivi di trattamento ed al destino finale degli effluenti. Minore è la quantità di acque reflue da trattare, più semplice è di solito lo schema scelto. Attualmente, risultano operativi, nel Nord e Centro Italia, circa 100 sistemi di fitodepurazione per il trattamento dei reflui enologici e spesso, quando la produttività è inferiore a 2.000 hL di vino all’anno, lo schema di trattamento consiste in un trattamento primario con fossa settica o Imhoff, con ruolo anche di equalizzazione, seguito da un impianto di fitodepurazione a singolo stadio, nella maggior parte dei casi H-SSF o V-SSF (Masi et al., 2015).

Per le aziende vinicole di dimensioni maggiori invece le soluzioni più adottate sono sistemi di fitodepurazione multistadio o in combinazione con trattamenti convenzionali (fanghi attivi, SBR, digestione anaerobica, ecc.).

Nella sottostante tabella 5.5 vengono sintetizzate alcune delle più significative esperienze, eseguite a livello internazionale, sul trattamento fitodepurativo dei reflui enologici. Le elevate efficienze depurative rilevate in tali indagini attestano che i sistemi di fitodepurazione possono essere applicati con successo a tutte le cantine, indipendemente dalle loro capacità produttive.

Nel documento LA GESTIONE DELLE ACQUE REFLUE ENOLOGICHE (pagine 75-83)

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