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Genova e il Mediterraneo occidentale

Per affrontare questo tema non si può non partire dalla citazione di al-cune definizioni di Fernand Braudel, per il quale il Mediterraneo non è un mare, ma una successione di pianure liquide, comunicanti per mezzo di porte più o meno larghe, sottolineando inoltre, con particolare riferimento all’Italia, come in esse «la mer est le prolongement des terroirs». La storia del Mediterraneo non è separabile dal mondo terrestre che l’avvolge: io ag-giungerei che l’affermazione può anche essere ribaltata.

Sono questi spazi limitati, definiti sempre dallo stesso Autore narrow seas che, con proprie, speciali, caratteristiche, hanno sempre rivestito una notevole importanza sociale ed economica, in quanto, grazie alle rotte ma-rittime che li congiungono, e all’alternarsi del predominio diversificato dei vari centri portuali, hanno favorito lo sviluppo di grandi commerci e di scambi di culture differenti.

In questo panorama, i Genovesi risultano ben consapevoli della propria posizione geografica: e quando parlo di ‘Genovesi’ la denominazione ha come riferimento tutti gli abitanti della Repubblica; uno Stato composito, unitario, ma non certo amalgamato e coeso politicamente, anche se gli interessi enomici degli abitanti nei confronti del mondo esterno sono in larga parte co-incidenti, nonostante l’incombente presenza della città Dominante.

La vocazione marittima internazionale della Repubblica con lo scalo principale e quelli delle due Riviere, è evidente fin dai tempi più antichi, e si relaziona alle difficoltà economiche del territorio e della popolazione, cui è necessario assicurare regolari rifornimenti delle derrate fondamentali, indi-spensabili anche per mantenere la pace sociale; occorre inoltre procurare materie prime per le importanti manifatture, da cui dipendono salari e red-dito per la manodopera ampiamente disponibile.

Il presidio delle proprie coste mediterranee è costante, al punto che tutte le navi sono obbligate a sostare prioritariamente ed a scaricare le proprie

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* Presentato al Convegno Internazionale della Società degli Storici dell’economia su L’economia italiana nel contesto mediterraneo in Età moderna e contemporanea, Università de-gli Studi di Bari ‘Aldo Moro’, 12-13 novembre 2015.

canzie nella città capitale; solo successivamente, soddisfatti i diversificati si-stemi di tassazione, queste possono raggiungere i porti minori o, per via di terra, i centri padani, nei confronti dei quali la Liguria rappresenta l’unico var-co aperto verso il mare. Il cabotaggio è, quindi, una var-componente di notevole peso, indispensabile per la precarietà e la quasi inesistenza di comunicazioni lungo le coste terrestri: all’inizio del Cinquecento i vettori impiegati in questo settore rappresentano il 10-15% della portata complessiva delle navi maggiori, su una flotta che ammonta a circa quindicimila tonnellate di stazza, cifra pros-sima a quella della marina veneta e superiore a quella della marina ragusea la cui esplosione si sarebbe verificata solo successivamente. I Genovesi, inoltre, svolgono una parte cospicua dei propri trasporti per conto terzi, anticipando in questa direzione la successiva specializzazione olandese.

Proprio per queste caratteristiche di internazionalità, la Repubblica è molto attenta allo specifico controllo del mare prospiciente la propria costa:

esso viene indicato come «Mare nostrum» o ancora più spesso come «Mare Ligusticum», ma in una accezione molto particolare, come risulta nelle mappe nautiche: esso comprende ampiamente l’alto bacino tirrenico, tra le isole di Capraia, l’Elba e la Corsica settentrionale, con una espansione occi-dentale che arriva fino a Marsiglia.

Le allegorie e i miti che, nel tempo, hanno voluto rappresentare Genova ed il progressivo espandersi del suo prestigio nell’ampio specchio del Mediter-raneo, partendo da una stretta striscia di terra compresa fra montagna e acqua salata, sono una testimonianza di questa precisa realtà economica, anche se talora in forma un po’ iperbolica. Una delle raffigurazioni più famose, quella del Ripa, nel 1603, rappresenta, ad esempio, la Liguria come una «Donna ma-gra (ossuta verrà aggiunto in epoca successiva), di aspetto virile e feroce, sopra di un scoglio ... haverà una veste succinta con ricamo d’oro …» e in testa un elmo. Magra, cioè con riferimento al territorio sterile che deve essere di sti-molo agli abitanti nel cercare diverse opportunità di guadagno, mentre la veste aurea tende a denotare le ricchezze che questa popolazione riesce ad acquisire in tempi diversi. Certo più significativa ai nostri fini è senz’altro la seconda parte della descrizione, in cui si aggiunge «Terrà la destra mano aperta, in me-zo della quale vi sarà depinto un occhio ... e appresso al lato destro vi sarà un timone …»; cioè da una parte l’industria «con la quale supplisce al manca-mento naturale del paese, nel procacciarsi in varie arti tutte le cose che fanno al ben vivere. Ma queste arti sono soprattutto il maneggio della navigazione, che con singolare maestria si esercita». Unica concessione all’agricoltura, la palma nella mano sinistra, simbolo anche dell’azione e dell’attenzione del

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dato (pensiamo alle guerre con i Saraceni, su cui torneremo); secondo alcuni l’occhio è il simbolo del genovese che posa lo sguardo su tutto quanto gli è edificato intorno, lontano e vicino, ma specialmente verso il mare, rispetto alla vicina linea della montagna.

Liguria da RIPA 1603, p. 249: https://archive.org/details/iconologiaouerod00ripa/pa-ge/249/mode/1up

Altre raffigurazioni allegoriche, coeve e successive, peraltro numerose, sono molto più ‘trionfanti’ nella loro iconografia: particolarmente famosa è quella della Liguria trionfante sui mari e nel mondo finanziario, con molti orpelli; un’altra ancora prende già in considerazione i due emisferi, il mun-dus antiquus e quello novus, di cui si inizia ad avere coscienza; un’altra anco-ra, cronologicamente successiva, fa riferimento alla crisi seicentesca, ed al Genio Ligure risvegliato, nel momento in cui è ampio il dibattito politico interno alla Repubblica sulla necessità o meno di ridare vigore all’attività marittima nel Mediterraneo occidentale. Nessuna riassume , però, come la prima, nei singoli particolari, i problemi della Repubblica, la cui configura-zione fisica porta a considerare l’acqua come uno spazio complementare ri-spetto al territorio, e quasi un fattore di produzione aggiuntivo.

Rimanendo ancora brevemente sui concetti generali volevo più tecni-camente specificare, nel rapporto tra Genova e il mare, il significato di una espressione riportata ampiamente dalla storiografia, cioè il detto Genuensis ergo mercator, per sottolineare come non si tratti di un semplice luogo comu-ne divenuto tradizionale. Non esiste, infatti a Genova (come in altri Comu-ni italiaComu-ni) una corporazione di mercatores, con normativa e giurisdizione autonoma, ma il commercio permea tutta la società, anche se tradizional-mente sono per la maggior parte nobili coloro che ad esso si dedicano: per questa ragione, ad esempio, è sempre molto difficile trovare, tra gli aristo-cratici cui sono riservate, soggetti disponibili ad assumere cariche pubbliche, considerate onerose e di troppo lungo periodo, come ad esempio l’appar-tenenza al Senato, che finiscono per distogliere da lucrosi affari.

La definizione sopra riportata rappresenta, in realtà, qualcosa di uffi-ciale: essa appartiene, infatti, ad una sentenza emessa dalla Rota civile, nella quale si fa presente come a Genova tutti (ricchi, poveri, nobili, plebei, don-ne, uomini pubblici e privati cittadini) non lascino le loro risorse finanziarie infruttifere: per questo spetta loro di diritto, anche in giudizio, la qualifica di mercante, senza la necessità di alcuna testimonianza probatoria.

Da un punto di vista urbanistico Genova è una città congestionata dai traffici di merci e dallo spostamento, anche a lungo raggio, di persone. Si di-ce «ed erano levantini, greci, catalani, napoletani, veneti, schiavoni, turchi, tunisini …», ai quali si univano le ciurme delle navi inglesi, olandesi, bret-toni, per fare alcuni esempi; condizionata quindi nello sviluppo verticale della sua edilizia dalla mancanza di aree edificabili.

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Real grandezza della serenissima Repubblica di Genova da DE GONGORA 1669.

Il Genio Ligure risvegliato da VENEROSO 1650.

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Anche in funzione delle crociate, la prima espansione mediterranea della Repubblica è verso Oriente: già nel corso del XII secolo la costa siro-palestinese è raggiunta da un flusso crescente di uomini e di merci. I Geno-vesi emigrano dapprima per limitati periodi di tempo; poi, sempre più spes-so, con l’obiettivo di fermarsi in pianta stabile (almeno con una rappresen-tanza della famiglia) e di ritagliarsi un ruolo all’interno della giovane società d’Oltremare. Pochi i porti e non sempre rispondenti in modo efficiente alle esigenze dei mercati: Acri, Tiro, Beirut, Tripoli, Laodicea. Dal punto di vi-sta commerciale è senz’altro l’Egitto che attira i maggiori interessi, con il grande porto di Alessandria, terminale di una serie di importanti piste caro-vaniere. Inseritasi poi all’interno del Mar Nero, Genova riesce a costituire in Oriente quasi un impero, un vero e proprio ‘sistema portuale’, come è stato definito, ampio e integrato, proiettando lo scalo della capitale in una visione quasi tolemaica. In realtà i porti orientali sono insieme empori e presidi commerciali, senza alcuna mirata espansione territoriale: Pera, Caffa, Chio costituiscono il fondamento della cosiddetta ‘Romània genovese’.

Una volta perso definitivamente questo predominio, in conseguenza della conquista turca, (senza le lunghe guerre che invece sosterrà Venezia nel vano tentativo di salvare i propri possedimenti nell’Egeo), Genova si lancia con successo verso l’Occidente per cercare di creare un «secondo impero», con caratteristiche in buona parte nuove; un «impero del denaro», prima di tutto, grazie alle esigenze della Corona di Spagna. Parallelamente si cercano di sfruttare le nuove opportunità commerciali offerte dal versante marittimo occidentale, dalle Baleari all’Andalusia, fino alle coste nordafrica-ne, ma anche da regioni limitrofe come la Provenza e la Borgogna.

Si afferma progressivamente la linea che vede i Genovesi sempre più

‘padroni’ del Mediterraneo occidentale, combattendo, appunto, e mercan-teggiando, controllando parte delle isole, tenendo testa ai Pisani ed alle mo-narchie di Francia e di Aragona; avvalendosi, come in passato, dell’intesa di grandi gruppi familiari e mantenendo efficiente la ben nota «Repubblica internazionale del danaro». Sarebbe erroneo, tuttavia, ritenere questo fe-nomeno come esclusivamente finanziario, in quanto è in realtà il risultato di una attività economica plurisettoriale, realizzando un certo equilibrio anche tra armamento, commercio e manifatture.

«Mercanti e rentiers», non si spingono però con entusiasmo verso il nuovo continente; ai nuovi interessi economici fanno riscontro gli adegua-menti tecnici: alle «galee di mercato» si sostituiscono le «caracche» adatte

al trasporto di merci più pesanti; si modernizzano, ma anche si ridimensio-nano le infrastrutture portuali; ci si attrezza ad affrontare i nuovi concor-renti ormai presenti nell’area occidentale del Mediterraneo.

I brillanti risultati nuovamente conseguiti, sia in campo finanziario che commerciale, mettono, peraltro, in rilievo quella che è stata definita da Giorgio Doria la «diaspora dei Genovesi»: l’attività di un numero ristretto di imprenditori residenti a Genova, operanti come capifila nei confronti di una costellazione di imprese sparse per il mondo (in Spagna in particolare, ma anche nelle Fiandre), con i cui titolari sussistono collegamenti societari, affinità parentali, solidarietà di casta; un sistema di aziende economicamente integrate presenti sulla scacchiera internazionale. Ancora una volta il grup-po familiare si dimostra come il nucleo di origine della prima forma associa-tiva, con la formulazione di precise analisi dei singoli settori economici, della concorrenza, dell’ambiente, e di conseguenza la presenza di una forte capacità di effettuare scelte strategicamente vincenti.

Dopo l’inizio del XVI secolo, il Mediterraneo occidentale attraversa certamente uno dei momenti più importanti della sua storia: non solo i Ge-novesi ma tutte le marinerie hanno ormai rafforzato la loro operatività in questa area, a partire dai Ragusei che ne diventano grandi protagonisti. La loro partecipazione al traffico del porto della Dominante ligure passa, infat-ti, dal 10% del tonnellaggio, negli Anni Trenta, al 40% nel periodo tra il 1563 e il 1573, quando il declino della marineria ligure è ormai evidente. Ma consistente è soprattutto la nuova forte presenza dei nordici, su cui non mi soffermo però in maniera specifica, se non per ricordare la loro vera e pro-pria calata in massa, tra il 1591 e il 1592, con le navi cariche di granaglie, sconvolgendo la normalità già in crisi: nel giro di pochi mesi entrano nel porto di Genova circa duecento navi con un carico di circa 36.000 tonnel-late di cereali. Le infrastrutture del porto della Dominante, faticosamente tenute in efficienza dalla Repubblica con il supporto finanziario del Banco di San Giorgio, e soprattutto il Portofranco, subiscono un impatto pesante.

Su queste vicende occorre fare una ulteriore considerazione: la reazio-ne genovese non fa capo ad una unitaria politica navale dello Stato, incapace di scegliere tra l’incentivazione delle manifatture, il supporto ad un maggio-re sviluppo della navigazione e dei traffici, o il potenziamento di una flotta militare quasi inesistente. Mentre all’interno del Senato le varie fazioni pro-pongono «un ritorno all’antico», altri sottolineano come «son perduti gli empori, son variate le navigazioni, son distrutte le amicitie, tolte via le con-fidenze, scordata l’arte». Alla fine i diritti della Repubblica sul mare vengono,

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però, ribaditi con forza, e la frontiera marittima più accattivante tende a spo-starsi sempre più verso la zona sud-occidentale, quasi un Mediterraneo atlan-tico, nel quale, tuttavia, lo stretto di Gibilterra è tendenzialmente visto ancora come una strozzatura non da tutti affrontabile: i Genovesi, per quanto pre-senti con le loro navi, in varie occasioni, nel Nord Europa, non avevano avuto mai, con questa rotta, la tradizionale confidenza dei Veneziani.

L’espansione islamica aveva reso le coste del Mediterraneo occidentale, e appunto la vicina area atlantica, una zona ‘calda’, nella quale operazioni di guerra e di mercato si alternavano ormai da tempo, senza per questo rinunziare al recupero delle ricchezze asiatiche. Non si devono, tuttavia, dimenticare sia il secolare inserimento dei Genovesi nel mondo iberico, sia alcuni avvenimenti entrati a fare parte del patrimonio simbolico europeo o, come è stato scritto, «del canone occidentale»: il primo viaggio verso le Fiandre compiuto dalle galee del genovese Benedetto Zaccaria già nel 1278, o il viaggio «ad partes Indie» tentato dai genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi nel 1291. Ad essi, peraltro, si deve accompagnare la serie dei nomi degli Ammiragli genovesi attivi con le loro flotte presso la corona portoghese e quella castigliana, anche nei secoli successivi.

Si è detto della politica mirante al controllo delle isole tirreniche, della Sardegna e della Corsica in particolare (si pensi agli insediamenti edificati in queste isole, anche se spesso esclusivamente a scopo difensivo): potenziali mercati, ma anche importanti fonti di materie prime (prezioso, ad esempio il legname della Corsica). Occorre inquadrare questi territori, però, anche come teste di ponte per la politica genovese mirante ad estendere progressi-vamente la propria area di influenza non solo verso le terre dell’Occitania (utile fornitrice di granaglie) e della costa della penisola iberica: al di là di questi possedimenti si è più vicini, infatti, ai porti islamici della costa set-tentrionale africana che – tra l’altro – attraverso la distesa sahariana assicu-rano gran parte del rifornimento dell’oro, il cui fabbisogno è costante nel mondo mediterraneo.

Vi è un’isola, in particolare, Tabarca, situata a poche miglia da Tunisi, la cui funzione, fino ad alcuni recenti studi, non era mai stata inserita nella sua giusta prospettiva economica. La pesca del corallo è sembrata per lungo tempo l’unica motivazione che avesse spinto alcune nobili famiglie, a partire dal tardo Medioevo (la famiglia dei Lomellini a Tabarca, ad esempio, e i loro corrispondenti Lomellini a Genova) a frequentare questa porzione di costa nordafricana ed instaurarvi un dominio duraturo e particolarmente profi-cuo: in effetti ancora a metà Cinquecento la quantità di corallo pescato si

aggirava sulle undici tonnellate all’anno, anche se il 2% di esso era dovuto al Re di Spagna, come canone per la concessione dell’appalto.

L’aspetto che, nella nostra ottica, va particolarmente valutato, riguarda il valore aggiunto che i Genovesi riescono a ricavare dalla posizione strate-gica di questo «scoglio in mezzo al mare», come è stato definito, trasfor-mandolo in uno straordinario «ponte sul Mediterraneo». I Genovesi ap-profittano della posizione strategica dell’isola, in primo luogo per instaurare proficui commerci con i territori barbareschi, dove si producono in grande abbondanza grano, orzo, fave, olio, cera, lana, carne bovina salata, muoven-do interessi enormi: è stato calcolato come, per questi ed altri generi ali-mentari, si riuscisse ad ottenere dalle popolazioni arabe un prezzo che, se pur condizionato dalla abbondanza o meno dei raccolti, era generalmente la metà rispetto a quello che si riusciva a realizzare in patria o su altri mercati mediterranei. Da centro di pesca specializzata, l’isola si trasforma così rapi-damente in un importante emporio commerciale: sulla base delle precise informazioni ricevute venivano, infatti, inviate, ogni anno, da Genova ingenti somme di danaro da investire nell’acquisto dei generi ritenuti più a buon mer-cato (custoditi in appositi magazzini) e per i quali si intravvedevano le mi-gliori occasioni di profitto. Non si trattava, inoltre, di scambi a senso unico, in quanto venivano contemporaneamente soddisfatte le richieste di beni di-versi (ad esempio lane spagnole e altri tessuti) richiesti dalle piazze di Tunisi ed Algeri. La costituzione di questo atipico magazzino di beni (quasi una zona franca in mezzo al mare) induceva altresì alla presenza non indiffe-rente negli scali tabarchini (e non certo interessate in maniera particolare al commercio corallifero) di navi inglesi, francesi, olandesi, spagnole, cui veni-vano esitati direttamente i carichi, evitando ulteriori costi di trasporto.

Anche da un ulteriore punto di vista si può, però, sottolineare l’esi-stenza, almeno fino a metà Seicento, di un contatto tra Cristianità e Islam di cui i Genovesi sono i maggiori protagonisti.

È nota la continua difesa delle proprie coste e dei carichi delle proprie navi mercantili che i Genovesi, sono costretti, dispendiosamente, a condur-re contro la pirateria saracena nel Mediterraneo occidentale: il rischio di di-ventare un ‘bottino umano’ era molto forte, specialmente nel Ponente Ligu-re e lungo le coste della Corsica, dove i corsari barbaLigu-reschi imperversavano, dotati di parecchie decine di navi, con a bordo un grande numero di armati e di «bocche di fuoco». Una vera calamità nei confronti della quale poco ri-usciva a reagire il sistema difensivo della Repubblica, se pur capillare, ma

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non certo molto efficiente, limitato a torri di avvistamento e al pattuglia-mento delle coste e della acque tirreniche con alcune galee. Al di là del no-tevole numero di giovani, donne e bambini (anche centinaia in alcuni casi), che venivano catturati per essere, poi, rivenduti nell’importante mercato di Algeri, accadeva addirittura, nei centri costieri più indifesi, che i prigionieri venissero ammassati sulle spiagge e se ne trattasse immediatamente il ri-scatto con le Autorità, le famiglie e i numerosi Monti che cercavano di rac-cogliere fondi a questo scopo in ausilio dei propri concittadini.

Il complesso problema del «riscatto degli schiavi», ricco di sfaccettatu-re sfaccettatu-religiose ed economiche, funzionava grazie a intermediari, assai spesso religiosi: se seguito attentamente per il caso ligure ( ancora nel 1705 risulta-no elencati i risulta-nomi di 224 persone detenute) finisce in molti casi per tra-sformarsi in un lucroso commercio (il costo medio unitario di un riscatto variava tra mille e millecinquecento lire genovesi).

Tabarca, tra il XVI ed il XVII secolo, diventa quasi un tramite necessa-rio, se non obbligatonecessa-rio, per questo tipo di operazioni. Il possedimento è considerato un territorio in cui la contrapposizione tra Islam e mondo oc-cidentale ha un ruolo assolutamente secondario: l’isola diviene, sotto la re-gia dei Lomellini e con il consenso della Repubblica, una sorta di punto di contatto tra Cristiani e Mussulmani, quasi una zona franca, in cui possono operare efficacemente i Genovesi, coinvolti in quello che era divenuto un

Tabarca, tra il XVI ed il XVII secolo, diventa quasi un tramite necessa-rio, se non obbligatonecessa-rio, per questo tipo di operazioni. Il possedimento è considerato un territorio in cui la contrapposizione tra Islam e mondo oc-cidentale ha un ruolo assolutamente secondario: l’isola diviene, sotto la re-gia dei Lomellini e con il consenso della Repubblica, una sorta di punto di contatto tra Cristiani e Mussulmani, quasi una zona franca, in cui possono operare efficacemente i Genovesi, coinvolti in quello che era divenuto un