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I porti liguri tra conflitti e sviluppo nel corso dei secoli

Il processo di formazione di uno Stato regionale in Liguria, compren-dente la fascia litoranea dalla Lunigiana a Monaco e parte del territorio col-linare che si affaccia sulla pianura padana, si attua nei secoli per opera della città di Genova. La struttura economica di questo Stato, uno dei più antichi dell’Ancien Règime, è caratterizzata, prima di tutto, della sua conformazione territoriale: una stretta striscia di terra, per quasi due terzi montuosa, densa-mente popolata nella parte litoranea, rapportata al mare al punto da considera-re l’acqua come una sorta di spazio complementaconsidera-re rispetto alla terra emersa.

Durante il periodo dell’Ancien Règime l’organizzazione portuale della Repubblica di Genova risente da un lato della povertà degli approdi, deter-minata dalla conformazione delle coste liguri, e dall’altro dell’incapacità della classe dirigente di dare una dimensione statale alla funzione marittima e portuale. Il governo centrale non elabora, infatti, alcuna strategia che pre-veda l’esistenza di un sistema regionale di porti; anzi, non solo manifesta poche preoccupazioni per la gestione degli scali rivieraschi, ma sembra di solito più inquieto per la loro esistenza che per le cattive infrastrutture di cui sono dotati.

L’inconsistenza portuale delle Riviere, e di quella di Ponente, in parti-colare, trova peraltro una spiegazione nelle strategie commerciali e fiscali della Repubblica, che tende a far emergere lo scalo della città capitale, rita-gliandogli privilegi e monopoli.

Nel decidere le sorti degli scali marittimi rivieraschi (e lasciarli cioè per secoli in una situazione di generale arretratezza) non sono però soltanto le considerazioni economiche a pesare, ma anche le preoccupazioni militari e le esigenze difensive di un piccolo Stato, esposto alla pirateria dei Barbare-schi e circondato da vicini troppo pericolosi: troppo alta è la probabilità che un principe straniero si impadronisca di un porto delle Riviere e lo usi come base per offendere.

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* Pubblicato in: Contenuti, economia, attualità e società in Liguria, 3, luglio/ottobre 2007.

All’inizio dell’Ottocento l’amministrazione napoleonica si sarebbe lan-ciata in grandi progetti portuali (peraltro mai realizzati), partendo proprio dalla constatazione che bisognava costruire quasi tutto ex novo. Se si vuole pertanto, prima dell’unificazione, individuare un ideale ‘sistema portuale li-gure’ occorre pensare non al territorio dello Stato circostante la città Do-minante, ma piuttosto al cosiddetto Dominio, cioè ai numerosi stabilimenti e centri-empori commerciali sparsi nel Mediterraneo, successivamente ridi-mensionato, con Genova costretta a difendere strenuamente gli scali che si affacciano tra il Mare ligustico e la Corsica. La presenza emergente dello scalo della città capitale è palese: oltre ad avere caratteristiche organizzative, tecniche ed economiche che lo distinguono dagli altri approdi dello Stato, tende a ritagliarsi privilegi e monopoli a danno degli eventuali concorrenti.

Le conseguenze di questa diversa considerazione sono spesso evidenti anche architettonicamente: mentre nella capitale si può seguire una costante preoccupazione di aggiornamento tecnico che nelle iconografie coeve si co-glie attraverso raffigurazioni dei mutamenti di banchine, darsene e fari, nei porti ‘di periferia’ emerge l’architettura militare piuttosto che quella com-merciale. Fino alla metà del Seicento il mercato cui sono interessati gli ope-ratori che gravitano intorno allo scalo ligure comprende tutta l’Europa oc-cidentale, le coste africane del Mediterraneo, le isole atlantiche e le terre dei Caraibi. I brillanti risultati conseguiti sono però il risultato dell’attività di un numero ristretto di imprenditori residenti a Genova: dalla loro sede nella Capitale essi operano come capifila nei confronti di una costellazione di imprese sparse per il mondo, con i cui titolari sussistono collegamenti so-cietari, affinità parentali, solidarietà di casta, tali da creare un sistema di im-prese economicamente integrato.

Al periodo tra la metà del Seicento e quella del Settecento, in una fase di depressione economica e di contrazione dei traffici, appartengono i mag-giori investimenti in infrastrutture: del 1638 è il Molo Nuovo, un’opera che tecnicamente avrà tale risonanza da essere imitata dagli architetti inglesi per il molo di Tangeri; sempre a quest’epoca risale la costruzione di numerosi magazzini, mentre settecentesco è l’ampliamento dei Depositi del Porto-franco.

In questo periodo la lunghezza delle zone di attracco dà a Genova una discreta superiorità rispetto agli altri due principali porti dell’alto Mediter-raneo: Livorno con 2000 metri e Marsiglia con 1700 sono rispettivamente inferiori del 33% e del 43% alle possibilità del porto di Genova. Lo scalo

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ligure può accogliere all’epoca circa 130 vascelli, ma questo non impedisce che si verifichino frequenti intasamenti, con navi ormeggiate ai moli anche in due o tre file, con intralci e ritardi nelle operazioni di carico e scarico delle merci.

Un sistema portuale così territorialmente compresso non troverà peral-tro una facile collocazione neppure nella politica portuale del nuovo Stato ita-liano nonostante che il litorale ligure finisca per attrarre più del 50% del movimento nazionale di sbarco e che tutto il Tirreno conservi la propria su-periorità nel movimento dei velieri e negli imbarchi svolti dai piroscafi.

Gli scali del Ponente, peraltro, se da un lato riescono lentamente ad emanciparsi, alla metà del XIX secolo, dal vecchio sistema di antico regime, dall’altro non ottengono dal nuovo Stato una funzione predeterminata all’interno di una programmazione nazionale: il loro sviluppo e la loro cre-scita è infatti determinata in misura specifica dalla funzionalità di supporto all’economia locale (olio e granaglie); rimane non più rilevante del passato, invece, lo scalo di Sanremo, nel cui territorio si sta progressivamente ac-centuando la vocazione turistica.

Nello stesso periodo, a Savona il porto, faticosamente ripresosi, cambia lentamente la propria vocazione da porto mercantile, quale era stato per al-cuni secoli, a scalo per l’industria, sebbene assai condizionato dalle difficili comunicazioni con l’entroterra. Nel Levante, Camogli, che nel 1901 ospita la prima riunione della Federazione armatori liberi, rappresenta, tra i com-partimenti liguri, quello con la maggiore presenza di velieri; il decollo di Spe-zia avverrà solo dopo il pesantemente contestato trasferimento dell’Arsenale Militare verso la seconda metà del secolo. A metà dell’Ottocento, comun-que, quando molti paesi europei stanno già decollando verso la Rivoluzione industriale, il porto principale dell’arco della costa ligure, quello di Genova, è sostanzialmente strutturato come quello di un secolo prima. Nonostante che, dopo l’unificazione italiana, quello genovese sia il primo scalo nazio-nale per dimensioni e volume di traffico, pesanti sono le carenze strutturali che ne riducono la funzionalità e ne limitano il concorrenziale inserimento nei traffici internazionali: si lamenta la ‘giungla’ dei tributi, l’insufficienza dei magazzini, la poca profondità dei fondali, che nel 1852 obbliga ancora all’uso delle chiatte.

A causa di questi problemi, lo sbarco di determinate merci a Genova (ad esempio grano o casse di zucchero) costa quattro volte più che a Savo-na; a metà secolo la ‘destinazione’ Genova subisce un aggravio dei noli dal

25 al 33% rispetto a Livorno. Se come spesso allora accade, le merci prove-nienti dall’Oriente devono essere sottoposte a quarantena nel Lazzaretto della Foce, l’aggravio dei costi è del 74%, per la cattiva organizzazione sa-nitaria del porto.

Nonostante tali carenze, nell’Ottocento il traffico aumenta di venti volte: in media il 20% della navigazione internazionale italiana (espressa in tonnellate di stazza) fa capo al porto di Genova. Tra il 1815 ed il 1871 si passa da meno di mille a più di duemila navi e da quarantamila tonnellate di stazza ad oltre 540.000; le rotte si estendono dalla fitta rete che tocca anco-ra tutti i porti del Mediteranco-raneo e del Mar Nero alle lunghe peregrinazioni verso gli scali più remoti.

In questa fase, il porto di Genova, così come in parte quello di Savona, non vede più «il traffico trainato in modo passivo da un processo che si realizza indipendentemente dalle funzioni portuali», ma interviene «in modo attivo nel processo di sviluppo, favorendo la crescita industriale del proprio hinterland». Nei decenni successivi, fino alla fine del secolo (cioè nella fase di depressione del ciclo economico) si registrano la svolta prote-zionistica ed industrialista della politica italiana ed i massicci investimenti pubblici e privati per potenziare le infrastrutture portuali e ferroviarie della Liguria, con una crescente specializzazione nel rifornimento di carbone e di materie prime (gli ‘sbarchi’ rappresentano oltre i quattro quinti del movi-mento commerciale).

Sebbene ci si lamenti delle carenze strutturali e dell’inefficienza dello Stato, nel quadro complessivo dei finanziamenti statali in opere portuali Genova fa la parte del leone: certo non vi è in generale una grande spinta all’innovazione, se nel 1885 una legge dello Stato italiano concede ancora cospicui sussidi per la costruzione di velieri in legno!

La fine del secolo vede il decollo industriale dell’Italia nordoccidentale, e si accentua e diventa sempre più essenziale la funzione del porto ligure come «pompa di alimentazione della struttura industriale». Si tratta, tutta-via, sempre di un commercio che concerne in grande quantità merci povere:

il carbone (necessario alle ferrovie, alle industrie, per l’illuminazione pubbli-ca) rappresenta infatti il 62% dei traffici, ma solo l’8% del valore delle merci trattate. Dalle dogane del porto di Genova proviene comunque un terzo di tutti gli introiti doganali italiani.

Il confronto ormai non è però più solo con Marsiglia o Livorno, ma con i porti del Nord Europa: se Rotterdam, Anversa e Amburgo vedono un

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incremento dei traffici di merci intorno al 60%, negli stessi anni (1897-1902) a Genova si ha un aumento solo del 30%.

L’inerzia dell’iniziativa pubblica apre la strada a quella privata, ma quasi esclusivamente da parte di operatori stranieri, che in questi anni investono più di venti milioni di lire nei silos, nei magazzini generali, nei servizi, nel-l’armamento, nelle assicurazioni. Il difetto di interesse da parte dell’im-prenditorialità cittadina che pure si lamenta delle carenze dello Stato nei confronti di uno dei centri più vitali dell’economia locale, è determinata dalla tendenza a rivolgere di preferenza le proprie scelte di investimento nei set-tori produttivi che grazie alla protezione doganale, alle sovvenzioni ed alle commesse statali garantiscono una remunerazione più sicura del capitale.

Se è vero che il ceto armatoriale genovese ‘fa fortuna’ con il trasporto degli emigranti e che i commerci e l’attività marittima hanno rappresentato la fonte di accumulazione dei capitali che, a partire dagli ultimi due decenni dell’Ottocento, hanno reso possibile l’industrializzazione di Genova, lo stimolo statale agli investimenti industriali diventa, tra il 1898 ed il 1906, quasi uno stimolo ai disinvestimenti marittimi.

È questo periodo a marcare un significativo momento di cesura, che mette in crisi il rapporto fra lo scalo e la città.

Anche il parco di smistamento dei carri ferroviari è perennemente infe-riore alle necessità: data la configurazione geografica della regione, il bino-mio porto-ferrovia era fondamentale, poiché il 70% delle merci sbarcate era in transito e spedito per ferrovia (di esso il 90% era diretto verso il Nord Italia). La conseguenza maggiore di questo tipo di difficoltà era che il porto tendeva a diventare «uno scalo in cui giungevano dal mare navi che riparti-vano vuote e da terra carri ferroviari vuoti che ripartiriparti-vano pieni».

Può forse fare riflettere la circostanza che già dall’anno 1900 s’iniziasse a richiedere con insistenza un ‘terzo valico’ appenninico, che non verrà mai costruito; degli stessi anni sono anche i primi dibattiti sulla necessità di una direttissima Genova-Milano, che avrebbe permesso di usufruire dei vantaggi della programmata apertura del Sempione (1906).

Sono i decenni in cui opera a Genova un personaggio come Raffaele Rubattino, propugnatore dell’integrazione di industria pesante, banche e marina mercantile. Un operatore anomalo e singolarmente lungimirante nel mondo della marineria ligure e anche italiana, nel momento in cui un auto-revole deputato genovese sosteneva in Parlamento che «nelle navigazione al di là dei capi ... il vapore non potrà mai arrivare».

Certo, il porto ed i suoi traffici sono sempre stati visti, nel passato di Genova, come rilevanti indicatori economici della congiuntura cittadina, da considerare con attenzione più ancora delle vicende delle attività industriali principali che si sono succedute nel tempo. Ferma restando l’importanza dello scalo è forse però il caso di ricordare alla coscienza contemporanea che un porto non è la garanzia di un ruolo imperituro per l’economia di un centro urbano, ma una variabile dei mutevoli destini di una città.

Fattori tecnici ed economici dello sviluppo del porto