Secondo Fernand Braudel la guerra di corsa può essere considerata come un fenomeno generalizzato, quasi strutturale, del Mediterraneo in Età moderna, con una particolare recrudescenza dopo la battaglia di Lepanto: il rischio di diventare un «bottino umano» è presente dappertutto. Non a ca-so, quindi, lo stesso Autore arriva a definire proprio il Mediterraneo, tra il 1516 e il 1565, un «lago turco». La corsa barbaresca terminerà solo nel pe-riodo della Restaurazione, dopo che le principali Reggenze nordafricane vengono conquistate dalle potenze europee.
Si tratta di un sistema che vede raffermarsi, attraverso l’operazione di riscatto dei prigionieri (non sempre fatti schiavi, ma per i quali occorre co-munque pagare la liberazione) l’importanza di varie categorie di soggetti.
Il riscatto dei «captivi», infatti, oltre ad aver sempre avuto importanti risvolti economici, richiedeva grandi capacità di negoziazione e di media-zione, che hanno visto, come attori, soggetti laici, figure istituzionali e esponenti del mondo ecclesiastico, talora, peraltro più attenti alla salvezza spirituale e alla conservazione della fede dei rapiti, che alla loro incolumità fisica. Prima di tutti erano protagonisti di questo gioco politico-finanziario complesso e multiforme i mercanti che commerciavano con gli infedeli: essi riuscivano a superare molti ostacoli grazie alle proprie entrature, ma anche ad aumentare i guadagni; poi, come si è detto, alcuni ordini religiosi (come, ad esempio, i Trinitari) che avevano questa finalità nella loro Regola (ma an-che Francescani e Gesuiti).
Sia i laici che i religiosi risultavano titolari di un vero e proprio contratto di incarico ed erano definiti «redentori». La loro azione veniva normalmente retribuita con un 15-20% sul contante che erano obbligati a procurasi in prima persona, molto spesso attraverso l’ulteriore intermediazione dei mercanti
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* Pubblicato in: Corsari e riscatto dei captivi. Garanzia notarile tra le due sponde del Medi-terraneo, Atti del Convegno di studi storici, Marsala, 4 ottobre 2008, a cura di V. PIERGIOVANNI, Milano 2010, pp. 135-149 (Studi Storici sul Notariato, XIV).
ebrei, fortemente radicati a Livorno (ma attivi anche a Venezia), attraverso un giro di scritture contabili e di compensazioni che permetteva loro anche di trasferire verso l’Europa proprie risorse disponibili in loco. Le trattative non erano mai semplici, in quanto i Barbareschi, anche dopo aver accettato lo scambio, erano soliti frapporre ulteriori pretese e chiedere spesso rimbor-si aggiuntivi (come la tariffa per il console che doveva rilasciare la patente di sanità, i diritti da pagare ai guardiani e all’amministrazione del Bey, i diritti di dogana, l’eventuale trasporto e il mantenimento del prigioniero fino all’imbarco): in pratica occorreva sostenere una serie di costi accessori che spesso raggiungevano anche il 26% della somma pattuita inizialmente 1.
Chiunque fosse l’intermediario, peraltro, il riscatto dava sempre luogo ad un documento scritto: contratto, protocollo diplomatico, o altro atto giuridico, sanzionavano lo scambio e costituivano prova dell’accordo di li-berazione del soggetto. Indispensabile quindi l’intervento di un notaio: i lo-ro atti costituiscono pertanto una fonte basilare per questo tipo di ricerche, anche se tuttavia assai difficilmente permettono una visione complessiva del fenomeno, proprio a causa della frammentarietà della documentazione, sia dal punto di vista temporale che geografico.
Sono queste le tematiche su cui vorrei soffermarmi brevemente, avendo come riferimento territoriale la Liguria, cioè il prevalente dominio, durante l’Ancien Regime, della Repubblica di Genova.
Sebbene più a nord di quelle siciliane, le coste liguri, e specialmente quelle occidentali, furono sovente, e per più secoli, oggetto di incursioni di orde musulmane (i corsari, appunto, cosiddetti «barbareschi» o « turche-schi»), provenienti di norma da Algeri e da Tunisi. Dotati di flotte composte anche da parecchie decine di navi, con a bordo un grande numero di armati e di «bocche da fuoco», rappresentavano una vera calamità per le comunità rivierasche, nonostante il capillare sistema difensivo messo in atto dalla
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1 Particolare sul problema il comportamento della Corona di Spagna, che interviene spesso in prima persona a favore dei propri sudditi (in quanto «baluardo della cristianità») e che tende a pagare il riscatto pattuito per non più di un quarto in contanti e per il resto in merci. Anche per il Portogallo il riscatto è quasi sempre una scelta politica del Sovrano. La Spagna, del resto, si trovava particolarmente sotto tiro da parte dei Barbareschi che cercavano di attaccare i battelli dei «moriscos», cioè degli arabi che avevano accettato di essere battez-zati pur di poter continuare ad operare nella penisola iberica. I carichi di merci, sempre di no-tevole valore, venivano confiscati, e gli uomini di equipaggio fatti prigionieri.
IL RISCATTO DEI “CAPTIVI”
pubblica. Questo era basato principalmente, come in quasi tutto il Mediterra-neo, su torri di avvistamento (dalle quali si «faceva la guardia ai turchi» in quanto i «torreggiani» dovevano prestare diligente vigilanza, dando imme-diato allarme alle proprie comunità con «segnali di fumo e di fuoco») e di di-fesa, oltre che su cinte murarie e fortificazioni. Lo Stato genovese aveva, inol-tre, armato da sempre alcune galere per il pattugliamento delle acque tirreni-che e delle coste, al cui finanziamento però le comunità rivierastirreni-che erano chiamate a concorrere: l’estensione e la morfologia delle coste liguri e di quelle dell’isola di Corsica rendevano comunque questa protezione molto difficile.
Durante le scorrerie le abitazioni venivano depredate e incendiate ma, soprattutto, giovani, donne e bambini venivano catturati per essere poi riven-duti, spesso come schiavi, nell’importante mercato di Algeri. Si trattava di centinaia di persone: ad Andora, ad esempio, nel 1531, sono 130 gli abitanti presi prigionieri dai cosiddetti «Turchi» (cioè Algerini) durante una scorreria;
nel 1546, a Laigueglia, vengono catturati i tre quarti della popolazione (circa 250 persone); nel 1563, tra le varie località depredate, i prigionieri ammontano a 270; nel 1637, a Ceriale, 305 persone sono caricate sulle navi barbaresche.
Non bisogna inoltre dimenticare chi veniva catturato in mare, come preda di guerra in uno scontro armato, ma anche navigando sottocosta, spe-cialmente tra le Riviere e la Provenza o verso la Toscana e la Sardegna, mentre trasportava mercanzie o lavorava su una nave, cioè mercanti e mari-nai, assai numerosi su queste rotte e verso la Spagna 2.
Nel XVII e nel XVIII secolo, in particolare, il pesante onere che molte famiglie dovettero sostenere per liberare i propri congiunti è spesso ricordato dalle cronache locali, che sottolineano come interi patrimoni (composti per la maggior parte da beni fondiari e immobiliari) dovettero essere alienati, al punto che casate, anche illustri, finirono per ridursi in povertà. Così, ad
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2 Così si esprime a metà XVI secolo, in un verbale processuale il patrono Giovanni Montone: «... Partito da Porto Torres con altri quattro marinai e un garzone con la sagittea
‘Santa Maria’, la mattina del 16 luglio 1577, di poco al largo di Ventimiglia, fummo sorpresi da due galeotte turche. Montati essi sulla nostra barca presero tutte le robbe del mio vestire e quelle degli altri, poi si presero le lane e i formaggi del carico. I turchi cominciarono a per-cuoterci con bastonate chiedendo dove avevamo nascosto i denari. Alle nostre risposte che non ne avevamo minacciarono di tagliarci la testa. Per nostra fortuna apparve sull’orizzonte una nave di vele quadre e i barbareschi decisero di ritornare alle galeotte; nel trambusto che ne seguì ci buttammo in mare e salvammo così le nostre vite, tranne però quella di certo France-sco che restò morto per una archibugiata ...».
esempio, a metà del Seicento, si calcola che la sola famiglia Lamberti, una delle più facoltose di Ceriale, dovette vendere beni per oltre cinquantamila lire genovesi, per riscattare una trentina dei suoi membri; un altro compo-nente del clan familiare riesce invece ad essere scambiato con uno schiavo barbaresco in cattività a Genova; una componente femminile, poi, abiura la religione cattolica e si fa musulmana, rifiutando di rientrare in patria.
Questo ultimo fatto, occorre sottolinearlo, non deve stupire: non riguar-dava soltanto le donne, e merita una piccola digressione. La storiografia pre-senta, infatti, non rari casi in cui i prigionieri cristiani, una volta intravista la possibilità di guadagnare di più e di condurre una vita più agiata che in patria, riuscivano a superare ogni remora di natura religiosa e ad inserirsi nel mondo barbaresco, fornendo, addirittura, talora, importanti informazioni ai nuovi alleati sui momenti di maggiore debolezza (e quindi di più facile aggressione) delle comunità rivierasche 3; le indicazioni riguardavano, ad esempio, i periodi in cui di norma gli uomini più attivi erano lontano, sul mare, lasciando le loca-lità più indifese. Altrettanto frequenti erano i casi di cristiani che, una volta liberati, restavano in territorio barbaresco facendo il doppio gioco, ossia pro-fessandosi di una fede piuttosto che dell’altra a seconda delle circostanze.
Su questo tema è emblematica la figura – ritenuta storica – di Bene-detto Ri, ligure di Levanto, conosciuto in Tunisia come Ustadh Murad, ar-matore, commerciante, consigliere del Bey, divenuto addirittura reggente di Tunisi nel 1637 fino al 1640, anno della sua morte.
Il secondo soggetto che, dopo la famiglia, prendeva a cuore il destino dei prigionieri liguri erano le Comunità stesse che, oltre ad effettuare que-stue e raccolte di elemosine, o ricevere lasciti testamentari dedicati, si tassa-vano o chiedetassa-vano prestiti alla città Dominante per potersi subito impegna-re per il riscatto dei concittadini caduti nelle mani degli infedeli. E questo, ad esempio, il caso di Laigueglia, dopo una terribile incursione avvenuta nel 1546: ma, nel chiedere a Genova il prestito di mille scudi, i rappresentanti della città non si dimenticano di sottolineare come sia loro intenzione, ma-no a mama-no che i prigionieri riscattati facciama-no ritorma-no a casa, di chiedere ad
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3 Così una testimonianza: «... Ameth (Antonio Pisano, rinnegato di Pietra Ligure) di-ceva a tutti che da marzo a ottobre Alassio e Laigueglia restano sguarnite di uomini validi per-ché molti di essi vanno in Sardegna alla pesca dei tonni e del corallo ... e che alla Torre del Ci-glione, senza sorveglianza, ci si può rifornire di abbondante acqua e, per via di terra, non visti, si può raggiungere Andora ...».
IL RISCATTO DEI “CAPTIVI”
essi e alle loro famiglie il rimborso della somma spesa, almeno per quelli che avessero redditi sufficienti; ai meno abbienti si sarebbe chiesto di contribui-re in funzione delle rispettive possibilità economiche.
Anche in Liguria il compito di recarsi in Barberia per condurre diret-tamente le trattative era di norma affidato a intermediari che, partiti per una missione caritatevole, cercavano contemporaneamente di approfittare delle sventure degli altri per ottenere anche facili guadagni; così era quasi normale che i «patroni» di navi ne approfittassero per compiere anche lucrosi com-merci. Non bisogna dimenticare, poi, che sulle navi che partivano per la Barberia si trovavano talora imbarcati, come si è già ricordato, «schiavi e schiave di progenie moresca e turchesca», oggetto di scambio/riscatto da parte dei Sultani 4.
L’ufficio umanitario del riscatto degli schiavi assume quindi sempre più, nel tempo, quasi gli aspetti di un puro commercio. Se è vero che la ge-stione delle somme necessarie era spesso anche affidata ai vescovi o ai loro delegati, è in questo contesto che nascono e si sviluppano i Monti (detti an-che Monti pii o Monti di pietà, al punto da essere spesso confusi con i Monti che esercitano il prestito su pegno), fondati da benemeriti cittadini o da confraternite, il cui scopo era quello della raccolta di fondi destinati al ri-scatto dei prigionieri. Avere a disposizione somme facilmente gestibili, cioè in contanti, poteva infatti essere utile, poiché accadeva che talora, dopo una incursione, i prigionieri venissero raccolti sulle spiagge e i barbareschi of-frissero ai familiari ed ai concittadini di pagarne immediatamente il riscatto.
L’azione dei Monti era comunque rivolta ad aiutare (e in questo senso venivano definiti ‘di Pietà’) anche i poveri in generale e, solo se necessario, chi non avesse i mezzi disponibili per riscattare i propri familiari prigionieri (si veda, ad esempio, il caso del Monte di Pietà di Sanremo, che esercitava appunto le due funzioni, ma che non si preoccupò mai di agire con opera-zioni di prestito su pegno).
Confraternite con queste finalità sono presenti a Sanremo, a Taggia, a Porto Maurizio, a Savona e in altri centri minori. Come già accennato, l’intento era quello di «cooperare con orazioni e limosine alla redenzione dé
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4 È stato calcolato che a metà Cinquecento, nella sola Napoli, vi fossero più di dodici-mila schiavi berberi, e che nella penisola iberica se ne potessero contare oltre cinquantadodici-mila. I Bey erano però assai poco propensi ad effettuare operazioni di riscatto nei loro confronti e si limitavano ad acconsentire talora allo scambio di prigionieri.
poveri schiavi», ma, si sottolineava, «non si deve estendere solamente in quanto al corpo, ma in quanto all’anima, perché si levano dal pericolo di perdere la fede».
Occorre arrivare all’inizio del Seicento per avere nella Repubblica di Genova, primo Stato nella penisola, una istituzione governativa stabile e ap-positamente costituita per studiare una soluzione adeguata all’entità del problema dei «captivi»: il «Magistrato per il riscatto degli schiavi», istituito nel 1597 e destinato ad espletare le proprie funzioni nell’arco di due secoli, fino alla caduta della Repubblica aristocratica, quando l’onere della reden-zione passa alla «Pia opera del riscatto degli schiavi». Tra le città marittime italiane, durante l’Ancien Regime, possiamo comunque ricordare che Na-poli, Roma e Palermo si affidavano prevalentemente a opere pie e confrater-nite; a Venezia si occupava del problema la Magistratura sopra gli Ospedali e i Luoghi Pii; in altre parti d’Italia, come si è detto, sorsero nel tempo compagnie o istituzioni specifiche.
Alla gestione economica dell’istituzione ligure continuano peraltro a concorrere, oltre allo Stato, anche i cespiti tradizionali, ma la finalità princi-pale dell’Ufficio è quella di meglio coordinare la folta schiera di iniziative slegate e non sempre efficaci, a fronte di una emergenza umana, divenuta ormai ‘statale’ nelle dimensioni.
Si può dire che questa fase contempli anche una cesura oggettiva:
mentre nel secolo precedente tra i prigionieri da riscattare, come si è detto, erano numerosissime le donne e i bambini rapiti nei paesi costieri durante gli sbarchi pirateschi (ai giovani veniva data una specie di priorità), dall’ini-zio del XVII secolo si trattò invece, prevalentemente, di uomini adulti, cioè marinai catturati negli scontri navali, anche lontano dalle coste, fuori dal mare ligure. Può essere interessante, a questo proposito, ricordare, essendo i marinai ponentini dediti in gran parte alla pesca del corallo, un accordo as-sai diffuso fra i «patroni delle coralline»: «... che essendo preso alcuno di essi da Turchi, dovessero l’altri pagare lire 200 per ogni uno, acciò servisse-ro al riscatto de’ presi».
Nel 1705 viene emanato dal Magistrato genovese per il riscatto degli schiavi un «manifesto» (cioè un «Catalogo dé schiavi genovesi esistenti in mano dé Turchi nel 1705, secondo le notizie avute», con i nomi di 224 per-sone, la loro provenienza e il luogo in cui in quel momento si trovavano:
101 ad Algeri; 65 a Tunisi; 16 a Tripoli; 32 (genericamente) in Marocco; 4 a Costantinopoli; altri sparsi in singole località. Tra questi, 26 sono di
Alas-IL RISCATTO DEI “CAPTIVI”
sio, 17 di Sanremo e gli altri di varie comunità, quasi tutte del ponente ligu-re (circa il 47%; numerose sono anche le pligu-rede catturate lungo le coste della Corsica, allora genovese: il 24%).
Il documento termina con una frase che indica in pratica ufficialmente, per la prima volta, la priorità generale negli interventi: «le elemosine che si ricaveranno ... saranno assegnate a quello, o quelli che son ... fatti schiavi prelativamente a tutti gli altri». Il costo medio del riscatto è calcolato tra le mille e le millecinquecento lire genovesi per ciascuno.
Dalla stessa documentazione della Magistratura, risulta che tra il 1709 e il 1712 vengono riscattate 91 persone: i ponentini sono nuovamente pre-senti per oltre il 50%, equamente divisi tra Algeri e Tunisi come sede della prigionia; nel 1721 si sottolinea che «più di seicento schiavi liguri sono in mano ai turchi»; nel 1725 si fa riferimento a numerose centinaia.
Per svolgere i propri compiti anche questa Magistratura si avvale – come è ormai indispensabile e comune a tutti i paesi – di intermediari: in partico-lare, per la prima parte della trattativa, che potremmo definire ‘politica’, operano solitamente dei religiosi; la seconda fase dell’intermediazione, da definirsi ‘economica’, risulta prevalentemente svolta da mercanti ebrei, assai presenti nei porti della Barberia, gli unici, come si è già sottolineato, in gra-do di anticipare una parte del riscatto, che veniva rimborsata solo gra-dopo l’arrivo del soggetto liberato a Genova; nel frattempo si faceva pervenire a destinazione la quota residua del pagamento, attraverso l’utilizzazione di tecniche finanziarie o con un trasporto diretto del contante.
Dalla documentazione disponibile risulta quindi che le linee di condotta per il riscatto sono fondamentalmente tre: una privata, una legata alla solida-rietà del volontariato, ed una pubblica. Tutte le procedure erano comunque assai lente e le singole trattative potevano durare anche un anno, se non di più.
Uno degli elementi essenziali nella storia del riscatto degli schiavi liguri è rappresentato dall’insediamento genovese (della famiglia Lomellini fon-damentalmente), nell’isola di Tabarca, famosa per la pesca del corallo, si-tuata quasi di fronte a Tunisi, divenuta in pratica un tramite necessario, an-che se non obbligatorio, per questo tipo di operazioni 5 (non si deve tuttavia dimenticare il ruolo e la posizione strategica anche di Malta).
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5 «... L’isola di Tabarca, castello di Genovesi ... s’impiega in soccorso di schiavi, e non piglia cambio el denaro che fa esborsar in Barbaria, depositato prima né banchi di Genova,
ri-Il possedimento è considerato un territorio in cui la contrapposizione tra Islam e Mondo occidentale ha un ruolo assolutamente secondario: l’isola diviene infatti una sorta di punto di contatto tra Cristiani e Musulmani, una zona franca, dove le transazioni commerciali hanno il sopravvento su qual-siasi altra questione, sia politica che religiosa. Una specie di territorio neu-trale, che viene fortemente impiegato, oltre che per i traffici mercantili, come base per lo scambio e il riscatto degli schiavi, operazioni realizzate sovente proprio grazie alla preziosa intermediazione del Governatore tabarchino, coadiuvato dal notaio residente sull’isola in maniera stabile 6. Accanto a queste figure istituzionali, della fine del XVI secolo, risultano presenti sul territo-rio frati Agostiniani e Cappuccini, alcuni dei quali inviati dal Papa Gregoterrito-rio XIII anche con lo scopo di evangelizzare la Tunisia.
Così, nel periodo 1591-1706, in pratica un secolo, si registra l’avvenuta liberazione su ‘richiesta’ del Governatore dell’isola, che costituiva in realtà, per tutti, quasi un primo soggiorno obbligato, prima del rientro in patria, di circa seicento prigionieri, il 57% dei quali liguri, ai quali si deve aggiungere un 12% di Corsi. Per dare un’idea di come si svolgessero queste operazioni si può ricordare che, nel 1641, il Governatore dell’isola riceve direttamente dalla Repubblica di Genova una precisa lista di 61 nominativi di cui interes-sarsi per la liberazione.
I vantaggi di cui potevano godere i Genovesi coinvolti in questa sorta di «commercio di esseri umani» erano del resto molteplici, e possono essere innanzi tutto individuati nell’incremento dei movimenti di navi, di mercanti e di intermediari che in queste circostanze transitavano per l’isola, fatto che certamente accresceva le occasioni di compiere proficui affari, che si ag-giungevano a quelli per i quali Tabarca era un punto di riferimento ormai strategico nel Mediterraneo sud occidentale. Che poi anche il Governatore, che aveva, sia a Tunisi, sia ad Algeri, propri agenti deputati ad occuparsi esclusivamente di questo tipo di ‘affari’, ne traesse un vantaggio finanziario personale, è tramandato non da una fonte genovese, ma dalla
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scattando gratis et per amore Dei fanciulli e fanciulle ...» Relazione di Gio. Batta Salvago al Doge di Venezia, 1625.
6 Quasi mai, peraltro, questa problematica è affrontata dai Governatori nella loro quotidia-na corrispondenza con i propri referenti genovesi. Occorre sottolineare l’importanza dell’attività del Governatore di Tabarca anche in funzione del fatto che nel XVI secolo i Genovesi non hanno un proprio consolato né a Tunisi, né ad Algeri.