È sempre difficile ricostruire con obiettività i rapporti tra la storia e l’attualità, soprattutto quando l’oggetto indagato dia luogo a valutazioni spesso difformi se non addirittura contrapposte.
Per la sua posizione strategicamente fondamentale nell’economia ge-novese, determinante e trainante ad un tempo rispetto agli stessi equilibri sociali interni alla città, il porto è stato ricorrentemente al centro di analisi scientifiche e di interventi occasionali, che hanno spesso preso le mosse da situazioni storiche più o meno lontane. Agli storici professionali si sono di frequente aggiunti economisti, urbanisti ed imprenditori interessati so-prattutto a ricercare nel passato i prodromi e le cause delle disfunzioni con cui la loro quotidiana attività è costretta a confrontarsi: non certo a caso qualcuno ha scritto che il porto di Genova continua a risentire di problemi vecchi di almeno due secoli.
È evidente che sono differenti gli scopi perseguiti dalla storiografia e dalla saggistica sopra ricordata: può trattarsi di scelte ricostruttive degli operatori della ricerca storica – talora in funzione della disponibilità di nuove fonti documentarie, come è accaduto in occasione del riordinamento dell’Archi-vio del Consorzio Autonomo del Porto e di quello della famiglia De Ferrari-Galliera –; altre volte, invece, ci si trova di fronte a volumi celebrativi, intenti a perseguire finalità di giustificazione, oppure a cahiers de doléances, che utiliz-zano la storia per predisporre atti di accusa nei confronti della realtà attuale.
Non è mia intenzione rivisitare le vicende storiche del porto di Genova per elencarne le disfunzioni, peraltro esistenti e largamente trattate dalla sto-riografia, o per rilevare il contenzioso costante con le Autorità centrali dello Stato, o, infine, per ricordare le continue lamentele sulla onerosità delle tariffe.
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* Pubblicato in: «Bollettino Storico Pisano», LXII (1993), pp. 103-118. Anche in I trasporti nell’internazionalizzazione dell’economia e dell’impresa, Atti del Convegno, Genova 9-11 aprile 1992, a cura di P. MASSA PIERGIOVANNI, Genova 1993, pp. 177-193 e in MASSA
1995a, pp. 89-122. Anche in P. MASSA - V. PIERGIOVANNI, Est Genuensis ergo mercator, Genova 2004, pp. 17-30.
La prospettiva che intenderei sviluppare è, invece, collegata al concetto di
‘internazionalizzazione’, per valutare in che senso e quanto il porto di Genova abbia avuto e rafforzato nella sua storia una ‘vocazione internazionale’.
Si tratta, evidentemente, di un concetto che deve essere affrontato biuni-vocamente: da una parte, occorre porre in evidenza un dato esterno, di eco-nomia internazionale, che esalta la centralità dello scalo, sia prima che dopo la fine dell’antica Repubblica di Genova, anche se, con l’unificazione nazionale e la rivoluzione industriale, i termini del problema assumono sfumature diverse;
da un altro lato, l’internazionalità è da porre in relazione ad un dato interno, cioè alla situazione locale: si tratta di cogliere quali siano state le tradizioni or-ganizzative e gli apporti individuali e di categoria su cui essa si è fondata e sviluppata, trovando la capacità di superare difficoltà che facevano dire, nel 1877, ad un osservatore straniero: «I Genovesi fanno miracoli: hanno un porto medievale e mantengono un commercio vivo e fruttuoso».
Le caratteristiche del bacino portuale genovese ne hanno, in realtà, sem-pre condizionato lo sviluppo, rendendo necessari interventi tecnico-strutturali di enorme portata. Come afferma il visitatore castigliano Pietro Tafur, che so-stò a Genova tra la fine del 1435 e l’inizio del 1436, «la terra è molto povera di risorse, però è gente molto industriosa, tanto che se le procurano abbondan-temente per il mondo e le possiedono, come se le fornisse il suolo».
È quindi il territorio che, in larga misura, ha forzato la vocazione inter-nazionale dello scalo genovese fin dai tempi più antichi: avendo la fascia co-stiera, abbastanza densamente popolata, una profondità non superiore ai 20-30 Km, quasi tutto il settore secondario dipendeva dai traffici marittimi per l’importazione di materie prime e per l’esportazione dei prodotti finiti. In-nanzi tutto le industrie tessili, per le quali le fibre (lana e successivamente seta) venivano in netta prevalenza importate via mare.
Si trattava di materie prime ad alto valore unitario, che potevano sop-portare i noli assai elevati, per lungo tempo funzionali esclusivamente alla lunghezza del tragitto da compiere.
Con il passare del tempo e con i progressi del trasporto marittimo, il commercio si estende anche a merci povere e, alla fine del Trecento, con la co-sì detta ‘rivoluzione dei noli’, questi tendono ormai a differenziarsi notevol-mente anche in relazione al diverso valore dei prodotti trasportati. La più in-tensa circolazione di materie prime e di mercanzie povere realizza, a lungo termine, una maggiore integrazione degli spazi economici, stabilisce legami di complementarietà ed una continuità di scambi con effetti moltiplicatori su numerosi settori di attività.
UNA VOCAZIONE INTERNAZIONALE: LO SCALO GENOVESE NELLA STORIA
Si tratta di fenomeni che muovono uomini e merci e che si prolungano nei secoli. Come esempio si può riportare, in primo luogo, una testimo-nianza del 1432, di Enea Silvio Piccolomini, l’umanista che diventerà Papa con il nome di Pio II, che descrive così lo scalo genovese:
Lì è abbastanza sicuro l’approdo per le navi, che vi sostano sempre in gran numero, e vanno e vengono rapidamente ingenti triremi, simili a montagne, e altri tipi di imbarcazioni, alcune da oriente, altre da occidente, così che tu puoi vedere ogni giorno diverse razze di uomini, costumi primitivi e rozzi ed anche mercanti che arrivano con ogni tipo di mercanzia.
Ancora a titolo di esempio si può, poi, ricordare che, all’inizio del Sei-cento, arrivano nel porto di Genova, da tutta la penisola e dall’estero, gli stracci che riforniscono le cartiere della regione, le cui esportazioni riguar-dano non solo l’Europa ma buona parte del Nuovo Mondo, per circa mille tonnellate l’anno.
Quantitativamente assume, poi, un grande rilievo il traffico dei cereali che fa capo al porto genovese, dal quale dipende la sopravvivenza di tutta la popolazione della Repubblica, cronicamente deficitaria in tale settore: dap-prima i mercati del Mar Nero, successivamente, dopo l’avanzata turca, il Regno di Napoli e la Provenza sono i principali centri di approvvigiona-mento, ma anche la base di importanti traffici per conto terzi, che da sem-pre caratterizzano la marineria della Repubblica. Non era certo per semplice lode che un anonimo scriveva, intorno al 1430, che
l’opinione sulla nostra gente è diffusa ovunque al punto che coloro che per commerciare vanno in terre straniere, trasportati su navi genovesi, vengono condotti in mari sicuri dal vento e dalle tempeste, come se navigassero nel porto.
Anche in età preindustriale per rimanere competitivi e difendere le po-sizioni acquisite, occorre assumere iniziative coraggiose: se nel 1277 sono gli armatori genovesi ad istituire la prima linea regolare di navigazione tra il Mediterraneo ed il Mare del Nord, un secolo e mezzo più tardi, quando l’avanzata turca sembra avviare verso il tramonto una parte dei commerci mediorientali, una risposta innovativa parte, anche questa volta, dall’am-biente economico e armatoriale genovese. Si decide, infatti, di puntare su velieri giganteschi, che si specializzano nel trasporto di carichi di massa e si misurano su nuove rotte.
Fino alla metà del Seicento il mercato a cui sono interessati gli operatori che gravitano intorno allo scalo ligure comprende tutta l’Europa occidentale, le coste africane del Mediterraneo, le isole atlantiche e le terre dei Caraibi. I
brillanti risultati conseguiti, sia in campo commerciale che finanziario, sono, però, il risultato dell’attività di un numero ristretto di imprenditori residenti a Genova: dalla loro sede nella Dominante, essi operano come capifila nei confronti di una costellazione di imprese sparse per il mondo, con i cui ti-tolari sussistono collegamenti societari, affinità parentali, solidarietà di ca-sta. Il nucleo di origine delle prime forme associative degli organismi com-merciali è, infatti, la famiglia, ed ogni articolazione all’estero rappresenta, contemporaneamente, una presenza nella scacchiera economica generale ed il caposaldo di un sistema d’imprese economicamente integrato.
Non si rivela vincente soltanto la superiorità di risorse economiche e di organizzazione, ma prevale la capacità di affidare la formulazione delle pro-prie scelte strategiche a precise analisi dei singoli settori, della concorrenza, dell’ambiente economico-sociale, in virtù di una serie di dati e di informa-zioni tendenzialmente completi, ottenuti attraverso i propri collegamenti internazionali e finalizzati alle decisioni economiche.
Gli aspetti appena delineati fanno riferimento alle energie umane ed economiche che dal porto hanno ottenuto uno slancio verso il mondo esterno. È strettamente collegata a questo risvolto, e lo fa reagire più o me-no positivamente, la capacità della struttura portuale di assecondare tecni-camente tale processo, ed è su questa linea che si è misurata per secoli la classe dirigente genovese, pubblica e privata.
Si cerca di migliorare anche l’attrezzatura dello scalo: non a caso i mag-giori investimenti in questo settore vengono fatti tra la metà del Seicento e quella del Settecento, in una fase di contrazione dei traffici e di depressione economica. Del 1638 è, infatti, il Molo Nuovo, che libera la rada dai pericoli del libeccio: un’opera che tecnicamente avrà grande risonanza, tanto da essere imitata dagli architetti inglesi per il molo di Tangeri, considerato ancora oggi l’opera maggiore dell’ingegneria anglosassone del Seicento. Sempre a metà Seicento è realizzata la costruzione di numerosi magazzini, anche se l’impresa di più ampio respiro, compiuta in questo settore, sarà il settecentesco ingran-dimento dei depositi del Portofranco; in questo stesso periodo la lunghezza delle zone di attracco dà a Genova una discreta superiorità rispetto agli altri due principali porti dell’alto Mediterraneo: Livorno con 2000 metri e Marsi-glia con 1700 sono rispettivamente inferiori del 33 e del 43% alle possibilità del porto di Genova. Lo scalo ligure può accogliere all’epoca 130 vascelli, ma questo non impedisce che si verifichino frequenti intasamenti, con navi or-meggiate ai moli anche in due o tre file, con intralci e ritardi nelle operazioni
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di scarico e carico di merci e di zavorra, e conseguente lievitazione dei costi.
Le soste in porto sono rese più lunghe anche dal protrarsi delle contrattazioni commerciali, dai numerosi rinvii delle partenze a causa delle tempeste, dei venti contrari o della assenza degli stessi o, infine, del pericolo dei corsari.
Agli aspetti di incremento e di razionalizzazione delle strutture por-tuali genovesi occorre connettere un elemento organizzativo, tipico delle Repubbliche marinare italiane, che proietta lo scalo principale come fulcro, in una visione quasi tolemaica, di un più ampio e integrato «sistema portua-le». Esso è impostato su una serie di stabilimenti sparsi nel Mediterraneo: al suo interno emerge però in modo vistoso la presenza dello scalo della città capitale, che tende a ritagliarsi privilegi e monopoli a danno degli eventuali concorrenti (appartengano essi alle Riviere, alla Corsica o alla Sardegna, dominî genovesi), ma che tiene strettamente collegati a sé i lontani porti coloniali dell’Oriente, insieme presidi militari ed empori commerciali. Una zona di influenza politica, economica e militare, quindi, per lo Stato geno-vese, ma una voluta mancanza di politica portuale di appoggio e di sviluppo per gli altri scali dello Stato, che fa da contrappunto alla cura costante ed economicamente dispendiosa che si riserva al porto di Genova.
Alla metà dell'Ottocento, però, quando molti paesi europei stanno già decollando verso la Rivoluzione industriale, il porto è sostanzialmente quello di un secolo prima. Nonostante che, dopo l’unificazione italiana, quello geno-vese sia il primo scalo nazionale per dimensioni e volume di traffico, pesanti sono le carenze strutturali che ne riducono la funzionalità e ne limitano il concorrenziale inserimento nei traffici internazionali: come è stato detto all’inizio, si lamenta la ‘giungla’ dei tributi, l’insufficienza dei magazzini, la po-ca profondità dei fondali, che nel 1852 obbliga ancora all’uso delle chiatte.
A causa di questi problemi, lo sbarco di determinate merci a Genova (ad esempio grano o casse di zucchero) costa quattro volte più che a Savona; a metà secolo la ‘destinazione’ Genova subisce un aggravio dei noli dal 25 al 33% rispetto a Livorno. Se – come spesso allora accade – le merci provenienti dall’Oriente devono essere sottoposte a quarantena nel Lazzaretto della Foce, l’aggravio dei costi è del 74%, per la cattiva organizzazione sanitaria del porto.
Nonostante tali carenze, nell’Ottocento il traffico aumenta di venti volte: in media il 20% della navigazione internazionale italiana (espressa in tonnellate di stazza) fa capo al porto di Genova. Tra il 1815 ed il 1871 si passa da meno di mille a più di duemila navi e da quarantamila tonnellate di stazza ad oltre 540.000; le rotte si estendono dalla fitta rete che tocca
anco-ra tutti i porti del Mediteranco-raneo e del Mar Nero alle lunghe peregrinazioni verso gli scali più remoti.
In questa fase, il porto di Genova, così come in parte quello di Savona, non vede più il traffico trainato in modo passivo da un processo che si rea-lizza indipendentemente dalle funzioni portuali, ma interviene in modo at-tivo nel processo di sviluppo, favorendo la crescita industriale del proprio hinterland. Nei decenni successivi, fino alla fine del secolo (cioè nella fase di depressione del ciclo economico) si registrano la svolta protezionistica ed industrialista della politica italiana ed i massicci investimenti pubblici e privati per potenziare le infrastrutture portuali e ferroviarie della Liguria, con una crescente specializzazione nel rifornimento di carbone e di materie prime (gli
‘sbarchi’ rappresentano oltre i quattro quinti del movimento commerciale).
Sebbene ci si lamenti delle carenze strutturali e dell’inefficienza del-l’azione dello Stato, nel quadro complessivo dei finanziamenti statali in opere portuali Genova fa la parte del leone: certo non vi è in generale una grande spinta all’innovazione, se nel 1885 una legge dello Stato italiano concede ancora cospicui sussidi per la costruzione di velieri in legno!
La fine del secolo vede il decollo industriale dell’Italia nord-occiden-tale, e si accentua e diventa sempre più essenziale la funzione del porto ligure come «pompa di alimentazione della struttura industriale». Si tratta, tutta-via, sempre di un commercio che concerne in grande quantità merci povere come il carbone (necessario alle ferrovie, alle industrie, per l’illuminazione pubblica), che rappresenta infatti il 62% dei traffici, ma solo l’8% del valore delle merci trattate. Quasi il 90% del cotone greggio importato in Italia vie-ne sbarcato vie-nel porto di Genova, e per il materiale siderurgico la percentuale è del 33%. Un’altra importante categoria merceologica che l’Italia è co-stretta ad acquistare all’estero a causa della pesante crisi agraria interna è il grano: tra il 1885 ed il 1891 viene sbarcata a Genova una quota oscillante tra il 30 ed il 45% delle importazioni globali di cereali.
Dalle dogane del porto di Genova proviene comunque un terzo di tutti gli introiti doganali italiani.
Il confronto ormai non è però più solo con Marsiglia o Livorno, ma con i porti del Nord Europa: se Rotterdam, Anversa e Amburgo vedono un incremento dei traffici di merci intono al 60%, negli stessi anni (1897-1902) a Genova si ha un aumento solo del 30%.
L’inerzia dell’iniziativa pubblica apre la strada a quella privata, ma quasi esclusivamente da parte di operatori stranieri, che in questi anni
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vestono più di venti milioni di lire nei silos, nei magazzini generali, nei servizi, nell’armamento, nelle assicurazioni. Il difetto di interesse da parte dell’imprenditorialità cittadina che pure si lamenta delle carenze dello Stato nei confronti di uno dei centri più vitali dell’economia locale, è de-terminata dalla tendenza a rivolgere di preferenza le proprie scelte di inve-stimento nei settori produttivi che grazie alla protezione doganale, alle sovvenzioni ed alle commesse statali garantiscono una remunerazione più sicura del capitale.
Se è vero che il ceto armatoriale genovese ‘fa fortuna’ con il trasporto degli emigranti e che i commerci e l’attività marittima hanno rappresentato la fonte di accumulazione dei capitali che, a partire dagli ultimi due decenni dell’Ottocento, hanno reso possibile l’industrializzazione di Genova, lo stimolo statale agli investimenti industriali diventa, tra il 1898 ed il 1906, quasi uno stimolo ai disinvestimenti marittimi.
È questo periodo a marcare un significativo momento di cesura, che mette in crisi il rapporto fra lo scalo e la città; è forse opportuno sottolinea-re questa fase di separazione tra due entità che sulla loro complementarietà hanno fondato un passato di reciproca floridezza, ed è su questa antica rela-zione interattiva che si può fare ancora qualche riflessione: nella tradirela-zione genovese essa si è manifestata in talune interessanti configurazioni di tipo istituzionale, economico e filantropico.
Già nei secoli dell’età preindustriale, infatti, lo stretto legame funzio-nale ed economico tra porto e città era rappresentato da una istituzione che ha un significato preciso: si tratta dei «Padri del Comune», una Magistratu-ra collegiale (ne esiste una simile a Venezia) che, dal Trecento alla fine del Settecento, svolge un duplice ruolo. Da una parte esso è un organo tecnico a cui compete la custodia e la salvaguardia del porto, con funzioni ammini-strative e giurisdizionali in uno specifico campo di azione, individuato sia come territorio (cioè l’area portuale, comprensiva degli spazi antistanti allo stesso), sia come persone sottoposte a controllo (identificabili negli addetti ai lavori portuali e negli utenti dello scalo). C’è poi un secondo aspetto della competenza che fonda una diversa potestà di giurisdizione, di controllo e di iniziativa nei confronti di altri settori operativi, al fine di individuare e ri-vendicare le entrate dello Stato: solo una volta espletate queste attività, del tutto estranee alle tecniche portuali, i due campi di competenza tornano ad incontrarsi, in quanto i fondi recuperati sono destinati in gran parte a finan-ziare la manutenzione e lo sviluppo dello scalo.
Dopo essere passato, nel XIX secolo, alla diretta dipendenza dello Stato, il porto di Genova nel 1903 ha acquistato una gestione autonoma con la fondazione del Consorzio Autonomo del Porto: la nuova autonomia ammini-strativa, salutata all’inizio del secolo come uno strumento gestionale ‘moder-no e inedito’, può forse essere vista, in prospettiva storica, come idealmente collegabile alla magistratura della Repubblica aristocratica che, nel curare la funzionalità e lo sviluppo del porto, ne promuoveva contemporaneamente una integrazione sempre maggiore con la realtà economica urbana.
In questa stessa ottica deve essere intesa anche la costituzione del Porto-franco tra Cinque e Seicento: prima riservato ai cereali (1592), successivamente aperto a tutte le merci (1609), esso è, all’inizio, una risposta alla pericolosa concorrenza di Livorno e di Marsiglia. Quando zucchero, caffè, cacao e spezie orientali, porcellane esotiche e seterie iniziano a riempire i magazzini dell’em-porio, ne vengono esaltate le caratteristiche di strumento adatto ad agevolare gli scambi, alimentare i transiti, dilatare gli affari e con ciò accrescere le occa-sioni di lavoro e l’incremento delle entrate fiscali. Nello spirito dei propu-gnatori genovesi esso rappresenta, però, anche uno sforzo per enfatizzare una tradizionale vocazione cosmopolita, nella sicura fiducia che il fluido decorso dei traffici non sarebbe stato turbato da pregiudizi razziali o da una fanatica intransigenza politica o religiosa. Il Portofranco, infatti, finiva per risvegliare lo spirito imprenditoriale di commercianti, armatori e sensali locali, invoglian-doli a cercare l’occasione di nuovi incontri e ad affrontare traffici fino a quel momento ignorati o trascurati. Non era estraneo anche il proposito d’impe-gnare turbe indocili di cui si temevano le sedizioni, e i governanti cittadini avevano ben presenti i benefici influssi sociali di un ampio e ricettivo mercato del lavoro: nel 1875 il Portofranco, affidato come amministrazione alla Came-ra di Commercio, e formato da 362 magazzini in cui lavoCame-rano 270 persone, viene chiuso, ma è riaperto col nome di Deposito Franco nell’anno successivo.
Sotto altri aspetti può essere molto significativo che in quello stesso anno si verifichi la donazione di venti milioni di lire per opere portuali da parte di Raffaele De Ferrari, Duca di Galliera, un altro personaggio da
Sotto altri aspetti può essere molto significativo che in quello stesso anno si verifichi la donazione di venti milioni di lire per opere portuali da parte di Raffaele De Ferrari, Duca di Galliera, un altro personaggio da