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Gestione autoritaria ovvero liberale del fenomeno HIV in carcere

Ospitare un numero elevato di persone dedite a comportamenti a rischio e presentare problematiche strutturali che possono favorire la diffusione dell'HIV sono fattori che hanno fatto sì che il carcere abbia assunto negli anni una posizione strategica per il contrasto a tale fenomeno. In particolare attualmente la detenzione può rappresentare un momento unico per il Sistema sanitario nazionale per rendere disponibili i propri servizi ad un cluster di persone altrimenti difficilmente raggiungibili sia per problemi legati al possesso dei requisiti formali (permesso di soggiorno, residenza anagrafica), sia per problemi legati a comportamenti sanzionati dal punto di vista legale e/o sociale (consumo di sostanze, prostituzione, assenza di dimora, ecc.).

Non sempre, però, il carcere ha avuto la consapevolezza di occupare questa posizione di rilievo e, per quanto concerne le modalità di approccio al problema dell'HIV, si possono distinguere nella storia penitenziaria italiana due fasi distinte, corrispondenti a due modelli definiti: il modello dell'espulsione e il modello del controllo interno120

. Il primo modello, frutto dell'imperversante allarmismo e della paura suscitata dall'AIDS a fine anni '80, tendeva all'estromissione forzata dei detenuti sieropositivi dal circuito penitenziario, con la constatazione che esso non potesse farsi carico di tale problema, giudicato estremamente pericoloso per l'equilibrio della vita carceraria e per la salute.

Solo con il passaggio al modello del controllo interno, avvenuto anche grazie alle indicazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e ad altre raccomandazioni internazionali, si capì che il carcere, oltre a poter offrire adeguata assistenza specialistica ai detenuti, potesse altresì giocare un ruolo fondamentale per informare e per svolgere sostanzialmente un'opera di prevenzione su larga scala.

Ciò comportò un allontanamento dalle idee di auto-conservazione e un aumento delle politiche di intervento, in virtù delle quali il carcere dovette giocoforza riadattare i suoi schemi organizzativi per una migliore efficacia dei servizi amministrativi e sanitari.

Questo progressivo adattamento dell'istituzione ha trovato il suo punto di arrivo proprio nell'ormai noto d.p.c.m. 126/2008, dove, per garantire il principio di "equivalenza delle cure", si invita a riservare particolare attenzione all'HIV e alle altre patologie «che comportano interventi di lungo termine di presa in carico della persona, con caratteristiche di elevata complessità e/o intensità assistenziale».

Nonostante tale invito, il sistema carcerario italiano presenta ancora

120Cfr. BUFFA P.-SARZOTTI C., "La reazione culturale all'AIDS dell'universo carcerario: dall'espulsione al controllo interno", in Dei Delitti e delle Pene, 1998 n. 3.

alcune carenze nella gestione del fenomeno sieropositività, carenze che possono essere desunte dalla classificazione fatta in dottrina121

relativamente ai modelli di gestione dell'HIV in carcere succedutisi nel tempo.

A tal proposito possiamo distinguere tra:

• Modelli di gestione autoritaria

• Modelli di gestione liberale

Nonostante non si possa operare una distinzione netta, poichè frequenti sono i casi in cui le autorità preposte alla gestione delle carceri operano una commistione tra le soluzioni proposte dall'uno e dall'altro tipo, generalmente sono tre le grandi differenze che ci troviamo di fronte:

• Coabitazione in sezioni ordinarie o isolamento in celle singole/sezioni separate dei detenuti sieropositivi.

• Obbligatorietà o facoltatività del test sierologico.

Presenza o assenza di politiche di harm reduction (riduzione del danno).

3.1. Le sezioni speciali per i detenuti sieropositivi

Nei primi anni dell'emergenza AIDS il controllo in carcere del detenuto sieropositivo veniva realizzato attraverso l'isolamento dello stesso in cella singola o la predisposizione di apposite sezioni speciali; è evidente che «tali modalità di esecuzione della pena e di gestione della vita carceraria rispondessero, in primo luogo, ad una logica di contenimento del rischio della diffusione del contagio e/o della

121Cfr. ABATE T., "AIDS e penitenziario: una visione europea sulle problematiche gestionali", in Rassegna penitenziaria e criminologica XI/1, 1989, pp. 141-152; DARBEDA P., "Les prisons face au Sida: vers des normes européennes", in

Revue de Science Criminelle et de Droit Pénal Comparé, 4 ottobre-dicembre

pericolosità sociale del detenuto»122

.

La pragmaticità rappresentata dal ricorso a tali misure, nelle quali si può intravedere un conflitto tra le ragioni della gestione emergenziale delle carceri e le ragioni dello stato di diritto, era dovuta al fatto che il detenuto sieropositivo venisse considerato come un soggetto altamente pericoloso per la comunità carceraria più che un soggetto malato bisognoso di cure specifiche.

Lo scarso interesse a garantire una eguale assistenza sanitaria rispetto a quella ricevuta in condizioni di libertà, faceva peraltro sì che la segregazione e l'isolamento dei detenuti sieropositivi costituissero sostanzialmente un vero e proprio apartheid senza alcuna ragione umanitaria di fondo, per certi versi simile all'isolamento cellulare imposto dai Quaccheri alla fine del XVIII sec.123

.

Progressivamente, grazie all'opera di molti studiosi e di autorevoli organismi internazionali, si capì l'inefficacia di politiche d'intervento che tendessero alla segregazione e alla differenziazione dei detenuti sieropositivi, acuendo sostanzialmente l'afflittività della pena comminata dal giudice.

Per quanto riguarda la situazione italiana, non appena si gettò maggiore luce sulle modalità di trasmissione del virus, da più parti si condannarono le varie forme di isolamento dei detenuti sieropositivi seguite per prassi nei vari istituti. Ciononostante non fu posto alcun divieto a tali pratiche, benché la loro applicazione in via routinaria potesse rappresentare una violazione del precetto impartito dall'art. 5

122MAGLIONA B.-SARZOTTI C., "Carcere e AIDS: le ragioni di un rapporto difficile", in Dei Delitti e delle Pene, 1994 n. 3, pp. 101 ss..

123Nel 1790, dietro la spinta delle teorie dei Quaccheri (una setta cristiana appartenente al calvinismo puritano), veniva inaugurata a Filadelfia la prigione di Walnut Street, nella quale i detenuti condannati a pena detentiva erano sottoposti a isolamento cellulare continuo. Si credeva infatti che tale modalità di esecuzione della pena, oltre a ridurre le spese di sorveglianza e risolvere i problemi di promiscuità del carcere, potesse favorire l'emenda del reo.

comma 5 della legge 135/1990124

, secondo cui l'infezione da HIV non può costituire motivo di discriminazione125

.

L'isolamento del detenuto sieropositivo, d'altro canto, trovava forte legittimazione anche nella legge sull'ordinamento penitenziario che, come abbiamo già visto, prevede tuttora agli art. 11 comma 7 e 33 comma 1 la possibilità di isolare continuativamente i detenuti per ragioni sanitarie, quando essi siano sospetti o riconosciuti affetti da malattie contagiose.

Oggi, per fortuna le cose sono cambiate e il superamento dell'emergenza medico e sanitaria, accompagnato alla maggior conoscenza della malattia, hanno fatto sì che la paura del detenuto sieropositivo non sia più esasperata come un tempo e che sostanzialmente il trattamento ad esso riservato sia lo stesso degli altri carcerati.

3.2. Il test sierologico

Uno dei maggiori ostacoli ad una migliore programmazione dei servizi sanitari e degli interventi di prevenzione primaria e secondaria è la mancanza di dati certi circa la diffusione del virus HIV all'interno delle carceri. Il trauma sofferto dal detenuto con l'ingresso in carcere, nonchè il timore di essere identificato, infatti, fanno sì che sia alto il numero di casi di infezione sommersi nelle nostre carceri.

Per ovviare a tale problema da più parti e per lungo tempo è stata invocata la necessità di offrire un miglior counselling pre-test126

e/o

124Legge 5 giugno 1990 n. 135, "Piano degli interventi urgenti in materia di

prevenzione e lotta all'AIDS", in Gazzetta Ufficiale 8 giugno 1990 n. 132.

125Cfr. PASTORE M., "Aids, carcere e intervento normativo", in MAGLIONA B.- SARZOTTI C. (a cura di), op.cit., p. 47.

126Per l’OMS il counselling è “un processo decisionale e di problem solving che

coinvolge un counsellor e un cliente. Il cliente ha la necessità di un aiuto ed il counsellor è una persona imparziale non legata al cliente che possiede capacità

implementare l'offerta del test stesso. Il bisogno di avere informazioni quanto più precise talvolta si è spinto all'estremo, tanto che, relativamente alle modalità di screening dei detenuti, possiamo distinguere due soluzioni antitetiche potenzialmente adottabili:

a) Test obbligatorio e routinario, da fare subito dopo l'ingresso in carcere, a intervalli di tempo regolari e/o prima del rilascio. b) Test facoltativo, da effettuarsi previo consenso informato del

detenuto.

Certamente attraverso modalità di accertamento coercitivo dello stato di sieropositività, di tutti i detenuti o di gruppi ad alto rischio, si ha un maggiore controllo della malattia e della sua diffusione; la stessa A.M.A.P.I., negli anni maggiormente segnati dall'emergenza, più volte appoggiò tale tipo di soluzione. Essa riteneva infatti che si dovesse privilegiare la saluta dell'intera comunità carceraria a scapito della libertà individuale dei detenuti; in quest'ottica, un test obbligatorio, non discriminante, che garantisse comunque la riservatezza sugli esiti, rappresentava l'unico mezzo per raggiungere tale scopo127. Oltre a

ragioni di carattere prettamente securitario, si credeva inoltre che il test obbligatorio per l'individuazione dei soggetti infetti fosse, come già detto, indispensabile per consentire «interventi preventivi, educativi e terapeutici mirati» e per «ottenere informazioni di natura epidemiologica, (...) per la programmazione di efficaci politiche di intervento»128

.

di ascolto, di sostegno, di guida. Attraverso il dialogo e l’interazione il counselling aiuta le persone a risolvere o controllare i problemi, a capirli, ad affrontare i disagi psicosociali e i bisogni nel modo più razionale possibile. Il counselling è intenso, focalizzato, limitato nel tempo e specifico”.

127Cfr. A.M.A.P.I., Convegno Nazionale "L'infezione da HIV in carcere", Fiuggi, 27 ottobre 1990; CERAUDO F., "Aids e carcere: i diritti dell'uomo e la medicina penitenziaria", in A.M.A.P.I., Atti del Congresso Internazionale di Medicina

Penitenziaria "Aids e carcere: i diritti dell'uomo e la medicina penitenziaria", 29- 31 maggio 1992, Pisa, 1992, pp. 17-26.

128MAGLIONA B., "Carcere, HIV/AIDS e tutela dei diritti umani: aspetti etico- deontologici e riflessi medico legali della gestione sanitaria del detenuto sieropositivo", in MAGLIONA B.-SARZOTTI C. (a cura di), op.cit., p. 79.

Le motivazioni addotte, controbilanciate, tuttavia, da ragioni di carattere etico e tecnico-economico (tra tutte i costi elevati e sproporzionati rispetto alla gravità del fenomeno), non sono mai riuscite a far sì che, nel corso della storia carceraria italiana, si sia data la preferenza a metodi coercitivi di accertamento sierologico129

. Nelle nostre carceri, infatti, si è da sempre deciso di optare per la facoltatività del test HIV, ritenendo lo screening obbligatorio di massa una pratica particolarmente lesiva del diritto alla privacy e dell'integrità fisica personale, diritti fondamentali di ogni essere umano.

Nel percorso che ha permesso di consolidare tale convinzione non sono tuttavia mancati cambiamenti di indirizzo del legislatore e proposte di deroghe dettate dall'esigenza di auto-difesa dell'istituzione carceraria.

Dopo le prime prese di posizione del Ministero della Salute e del Ministero di Grazia e Giustizia sull'inopportunità di qualsiasi tipo di screening obbligatorio attraverso varie circolari130

, fu la legge 135/1990, all'art. 5 comma 3, a chiarire una volta per tutte la questione, sostenendo che «nessuno potesse essere sottoposto, senza il suo consenso, ad analisi tendenti ad accertare l'infezione da HIV se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse131

».

Un anno dopo, con una circolare del 10 giugno, il Ministero di Grazia e Giustizia ribadì la necessità di un consenso informato per lo screening dell'HIV effettuato all'ingresso in carcere; fu introdotta però

129Sull'inopportunità di procedere a metodi coercitivi di accertamento sierologico v. CATTORINI P., "AIDS, fra responsabilità e coercizione, Considerazioni etiche sull’opportunità di introdurre forme di screening obbligatorio per l’infezione da HIV", in Rivista italiana di medicina legale, 1989 n. 11, pp. 23-29.

130V. Ministero di Grazia e Giustizia, Direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena, Ufficio VIII, Circolare n. 3127/5577 del 27 giugno 1985; Ministero della Salute, Circolare 16 maggio 1989; Ministero di Grazia e Giustizia, Lettera circolare prot. n. 635600/2 Spec. Gen. del 23 marzo 1990. 131L'eccezione della "necessità clinica" è da ritenersi applicabile nel caso di

interventi d'urgenza, qualora vi sia l'esistenza di un grave pericolo e il paziente non sia in grado di esprimere il suo consenso.

un'ulteriore eccezione, come si può vedere dalle seguenti parole: "l'effettuazione del test senza il consenso del detenuto può avvenire solo nel caso in cui la condizione clinica del detenuto è tale da richiedere l'accertamento della sieropositività al fine di attuare interventi terapeutici, anche di profilassi, altrimenti non consigliati. Peraltro, anche in questo caso, qualora il detenuto rifiuti di sottoporsi al test, l'accertamento dovrà essere effettuato con le modalità del T.S.O. di cui all'art. 33 della Legge 833 del 1978132 e dunque

inoltrando la relativa richiesta al sindaco"133

.

Attraverso questa interpretazione controversa dell'art. 5 comma 3 della legge 135/1990 si offriva sostanzialmente la possibilità di procedere al test obbligatorio ricorrendo al trattamento sanitario obbligatorio; si

132L'art. 32 della legge 833/1978 (Norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari ed obbligatori), così recita:

1. Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari.

2. Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l'articolo 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura.

3. Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata di un medico.

4. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono attuati dai presidi

e servizi sanitari pubblici territoriali e, ove, necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate.

5. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato.

6. L'unità sanitaria locale opera per ridurre il ricorso ai suddetti trattamenti sanitari obbligatori, sviluppando le iniziative di prevenzione e di educazione sanitaria ed i rapporti organici tra servizi e comunità. Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio, l'infermo ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno.

7. Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio.

8. Sulle richieste di revoca o di modifica il sindaco decide entro dieci giorni. 9. I provvedimenti di revoca o di modifica sono adottati con lo stesso

procedimento del provvedimento revocato o modificato.

133Ministero di Grazia e Giustizia, Lettera circolare prot. n. 648473/14 Tass. del 10 giugno 1991.

ritenne però che per l'accertamento coattivo della sieropositività non sussistessero le necessarie condizioni di legittimità, per cui alla fine non vi fu alcun cambiamento in merito.

Altra innovazione conclusasi con un nulla di fatto fu quella apportata dal decreto legge 60/1993134, il quale all'art. 4 comma 2 prevedeva

che, oltre ai motivi di necessità clinica nell'interesse del detenuto (previsti dalla legge 135/1990), si potesse procedere al test obbligatorio anche quando il comportamento del detenuto o dell'internato costituisse un pericolo per l'incolumità dell'intera comunità carceraria. Tale possibilità non venne riproposta dalla legge 222/1993135

, per cui l'unica deroga alla facoltatività del test in carcere rimane ad oggi quella prevista dalla legge 135/1990.

Strettamente connessa al problema del consenso informato al test è la necessità di garantire la riservatezza dei risultati dello stesso.

La legge 135/1990, all'art. 5 comma 4, affronta tale questione e ci dice che "la comunicazione di risultati di accertamenti diagnostici diretti o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla persona cui tali esami sono riferiti".

Purtroppo, nonostante la chiarezza del disposto normativo, la tutela della privacy all'interno del carcere, non solo per i risultati del test ma anche per ciò che riguarda altri dati sensibili, continua a rimanere un punto critico. La discrasia tra la legge e la prassi quotidiana è evidente; in alcuni casi il carcere è considerato un luogo dove risulta impossibile garantire la segretezza delle informazioni, in altri si ritiene addirittura che la circolazione delle stesse e la conoscenza dello stato di salute di

134Decreto legge 13 marzo 1993 n. 60, "Disposizioni urgenti relative al trattamento

di persone affette da infezione da HIV o tossicodipendenti, nonché per l'incremento dell'organico del Corpo di polizia penitenziaria"

135Legge 14 luglio 1993 n. 222, "Conversione in legge, con modificazioni, del

decreto-legge 14 maggio 1993, n. 139, recante disposizioni urgenti relative al trattamento di persone detenute affette da infezione da HIV e di tossicodipendenti", in Gazzetta Ufficiale 14 luglio 1993 n. 163.

ogni detenuto possano garantire un miglioramento della vita della comunità e delle condizioni dell'istituzione. Il paradosso rappresentato da tali comportamenti, dovuto all'esasperazione di situazioni perfettamente gestibili in ottemperanza alla legge, fa sì che all'atto dell'ingresso in carcere o, comunque sia, ogni volta che gli viene offerto, il detenuto sia riluttante a sottoporsi al test. Poiché è stato dimostrato che i soggetti consapevoli del proprio stato sierologico tendono ad evitare comportamenti a rischio, la correzione di tutti questi aspetti negativi diviene indispensabile per innalzare le percentuali di effettuazione del test e per ridurre conseguentemente le possibilità di contagio.

3.3. Informazione e politiche di harm reduction

Nei Paesi che scelgono di adottare un modello di gestione liberale del fenomeno HIV all'interno delle carceri particolare attenzione è dedicata alle strategie di informazione e alle politiche di harm reduction (riduzione del danno). La stessa Dichiarazione di Dublino136

del 2004 sostiene che sia la riduzione del danno, piuttosto che la tolleranza zero, ad essere la politica pragmatica di base per la lotta all’HIV nelle prigioni e per la cura stessa dell’infezione. E' indubbio che fornire maggiori informazioni sul virus e sulle sue modalità di trasmissione sia stata da sempre un'attività indispensabile per contrastarne la diffusione; la necessità di rendere maggiormente edotti i detenuti sul fenomeno in questione, attraverso materiale scritto e altri approcci comunicativi, è rinvenibile ad esempio nelle linee guida dell'OMS sull'AIDS del 1993137

, ma anche nelle ultime pubblicate nel

136LINES R.-JURGENS R.-STÖVER R.-KALIABKAROVA G.-LATICEVSCHI D- NELLES J.-MACONALD M.-CURTIS M., Dublin declaration on hiv/aids in

prisons in Europe and central Asia, Dublino, 23 febbraio 2004.

137V. WORLD HEALTH ORGANIZATION, Global Program on AIDS, WHO

luglio 2014138

. Ciò ci dimostra che, nonostante il tempo trascorso e il livello di conoscenza della malattia indubbiamente più alto, ad oggi risulta sempre necessario garantire un'informazione capillare e corretta, accompagnata ad adeguati programmi di prevenzione, sia nella popolazione detenuta sia nella comunità esterna al carcere. In particolar modo risulta necessario e doveroso che ogni persona detenuta, indipendentemente dal suo stato sierologico per HIV, debba essere adeguatamente informata riguardo il diritto alla salute e sui servizi esistenti all’interno del carcere e nel territorio dove vive.

Oltre all'informazione, l'educazione e la comunicazione le politiche di riduzione del danno maggiormente utilizzate dalle amministrazioni penitenziarie europee sono state due: l'una basata su programmi di distribuzione gratuita di profilattici, l'altra favorevole alla consegna di siringhe sterili e monouso (NSP, Needle and syringe programmes)139

. Numerosi studi hanno mostrato il contributo positivo di tali misure nella lotta all'AIDS, ciononostante quando si pone il problema di introdurle in un mondo chiuso come il carcere, garantendo ai detenuti le stesse condizioni di tutela della salute proprie della società esterna, sorgono problemi di non scarsa rilevanza. Fornire preservativi ai detenuti significherebbe infatti riconoscere che esiste una sessualità all'interno delle carceri, mentre permettere di usare siringhe metterebbe in discussione la validità del proibizionismo in materia di droga, dimostrando anche l'inefficienza dell'apparato carcerario, del luogo deputato proprio a punire coloro che non hanno saputo desistere dal consumare stupefacenti140

.

138V. WORLD HEALTH ORGANIZATION, Consolidated guidelines on HIV

prevention, diagnosis, treatment and care for key populations, Ginevra, 2014.

139Cfr. SARZOTTI C., "Prevenzione AIDS in carcere: il ruolo della cultura professionale degli operatori penitenziari", in FACCIOLI F.-GIORDANO V.- SARZOTTI C. (a cura di), L'AIDS nel carcere e nella società. Le strategie

comunicative per la prevenzione, Carocci editore, Roma, 2001 pp.58-75.

140Cfr. DI GIANNANTONIO F.-FERRO F.M.-PIERDOMENICO F., Oltre il

pregiudizio. Modelli, idee e strumenti nella prevenzione delle dipendenze, Franco

Tra le due soluzioni quella che ha ricevuto maggiori critiche dagli operatori (perlopiù appartenenti alla sfera custodiale) e che ha trovato minore applicazione negli istituti europei è la distribuzione di siringhe monouso, sia per la pericolosità degli oggetti in questione, facilmente usabili come vere e proprie armi, sia per gli aspetti etico-giuridici poc'anzi evidenziati. Il primo Paese europeo a prendere in considerazione tale misura di prevenzione fu la Svizzera, nel 1992; l'inizio del programma di distribuzione di siringhe sterili fu un atto di