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L'assistenza sanitaria ai detenuti sieropositivi

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione...4

Capitolo I. La tutela della salute del detenuto

1. Introduzione...6 2. Il diritto alla salute in carcere... ...10 3. ...e il suo legame con la funzione della pena...13 4. Compatibilità tra condizioni di salute del detenuto e status

detentionis...17 4.1 I detenuti "definitivi": gli artt. 146 e 147 c.p. e la misura

della detenzione domiciliare ex art. 47 ter O.P...18 4.2 I detenuti in stato di custodia cautelare...28

Capitolo II. L'evoluzione della sanità penitenziaria italiana

1. Introduzione...33 2. Il regolamento Rocco del 1931...36 3. La legge 9 ottobre 1970 n. 740...38 4. Il servizio sanitario penitenziario delineato dalla legge 26 luglio 1975 n. 354...41 5. Il decreto legislativo 22 giugno 1999 n. 230 e il riordino della medicina penitenziaria...49 6. Dalla Commissione "Tinebra" al DPCM 1 aprile 2008...55 7. Una riforma "di carta"...59

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Capitolo III. Sieropositività e carcere

1. Introduzione...61

2. I principali fattori di rischio...64

2.1 Promiscuità e rapporti sessuali non protetti...65

2.2 Consumo di stupefacenti...69

3. Gestione autoritaria ovvero liberale del fenomeno HIV in carcere..74

3.1 Le sezioni speciali per i detenuti sieropositivi...76

3.2 Il test sierologico...78

3.3 Informazione e politiche di harm reduction...83

4. L'assistenza sanitaria e farmacologica...86

Capitolo IV. Lo sviluppo della disciplina in materia di rapporti tra HIV/AIDS e carcere 1. Introduzione...89

2. Il trattamento legale dei detenuti sieropositivi: i primi interventi....90

3. La legge 14 luglio 1993 n. 222 e i suoi presunti profili di incostituzionalità...95

4. Declaratorio d'incostituzionalità della presunzione assoluta di incompatibilità tra AIDS e carcere...98

5. La legge 12 luglio 1999 n. 231...102

5.1 Le modificazioni in tema di incompatibilità tra AIDS e stato di detenzione...103

5.2 L'introduzione dell'art. 47 quater O.P...106

Conclusioni...109

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro costituisce il frutto naturale di un interesse nei confronti della materia penitenziaria maturato negli ultimi anni e vuol rappresentare un prezioso contributo al disvelamento della difficile situazione del nostro sistema carcerario, ove l'intervento punitivo si configura sempre più come un inammissibile sacrificio dei diritti essenziali dell'individuo.

Tra gli innumerevoli casi paradigmatici di questa tendenza, nelle pagine che seguono si è scelto di portare alla luce quanto sia difficile per l'istituzione carceraria, a causa della sovrapposizione di numerosi fattori negativi di tipo ambientale, sociale ed organizzativo, tutelare la salute di quanti vi sono ristretti, in particolare di soggetti ad alta vulnerabilità come coloro che risultano affetti da HIV. Sebbene siano stati fatti importanti passi in avanti nella ricerca e nella cura del virus, l'assistenza sanitaria ai detenuti sieropositivi e la gestione del rischio clinico costituiscono infatti dei problemi pressanti per la sanità penitenziaria: la necessità di supporto psicologico e sociale, di adeguate terapie con una monitorazione a intervalli regolari e di efficaci politiche di riduzione del danno sono tutti fattori che rendono oltremodo complicato far sì che l'espiazione della pena detentiva possa assolvere alle finalità assegnatile dalla Costituzione nel pieno rispetto dell'integrità fisica e psichica del detenuto.

L'elevata incidenza dell'HIV in carcere, tuttavia, non ha posto solo problemi di carattere assistenziale e terapeutico; sin dall'insorgenza della malattia vi è stato anche un persistente dibattito sulla compatibilità o meno tra la stessa e lo stato di detenzione, da cui è scaturita una serie di problemi riguardanti la definizione dei limiti giuridici entro i quali il carcere può ancora essere considerato uno strumento di pena compatibile con uno Stato democratico di diritto.

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Come avremo modo di vedere, il legislatore italiano, unico in Europa, ha affrontato inizialmente il problema con interventi legislativi atti ad evidenziare un'incompatibilità assoluta tra lo status detentionis e la sieropositività, tenendo conto della specificità della patologia e della problematica interazione tra il sovraffollamento carcerario e il rischio di contagio. Questo tipo di soluzione è stato assoggettato poi a costanti arresti giurisprudenziali con l'intervento della Corte costituzionale, grazie alla quale si è favorito il passaggio dall'estremità "liberale" dell'incompatibilità automatica a quella "autoritaria" della compatibilità motivata, non retta più da una valutazione in termini astratti dell'entità nosografica, ma da una valutazione concreta degli strumenti diagnostici e terapeutici disponibili, della gravità della forma morbosa nonché della capacità effettiva dell'istituto penitenziario di far fronte all'emergenza.

La normativa vigente, con l'attuazione dei dettami della Consulta e con l'ulteriore previsione della possibilità di accedere ai benefici appositamente previsti dall'ordinamento penitenziario in caso di AIDS conclamata o grave deficienza immunitaria, rappresenta quindi un importante punto di equilibrio tra la pretesa punitiva dello Stato e l'esigenza di tutelare il diritto alla salute del detenuto sieropositivo. Di tutte queste ragioni del difficile rapporto tra HIV/AIDS e carcere si darà conto nella seconda parte dell'elaborato, il quale, peraltro, prende le mosse da una preliminare disamina delle problematiche relative alla salute in carcere e all'evoluzione normativa della sanità penitenziaria.

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CAPITOLO I

LA TUTELA DELLA SALUTE DEL DETENUTO

Sommario: 1. Introduzione 2. Il diritto alla salute in carcere... 3. ...e il suo legame

con la funzione della pena 4. Compatibilità tra condizioni di salute del detenuto e

status detentionis 4.1. I detenuti "definitivi": gli artt. 146 e 147 c.p. e la misura della

detenzione domiciliare ex art. 47 ter O.P. 4.2. I detenuti in stato di custodia cautelare

1. Introduzione

Il conflitto tra diritti fondamentali dell'uomo e trattamento penitenziario ha da sempre contraddistinto la storia del carcere italiano che, per lunghissimo tempo, ha mirato a soddisfare nella misura più ampia possibile scopi afflittivi e retributivi della pena ponendo scarsa attenzione ai principi di umanità e di garanzia della dignità dell'uomo. Il percorso che ha portato all'abbattimento di tale tendenza e al riconoscimento di diritti ai detenuti tutelabili anche in sede giudiziaria è stato assai farraginoso e tuttora si riscontrano non poche difficoltà nel conciliare l'opzione carceraria con l'ineccepibile dovere di garantire le più ampie possibilità di esplicare la propria personalità anche in stato di detenzione.

Andando a ritroso nel tempo, tappe fondamentali di questo tortuoso e lungo cammino sono state l'emanazione della Costituzione e la riforma penitenziaria avvenuta con la legge 354/19751

(d'ora in avanti ordinamento penitenziario) che, attuando proprio le indicazioni programmatiche della Carta fondamentale, costituì al tempo un atto di rottura col passato e con un modo anacronistico di intendere sia

1 Legge 26 luglio 1975 n. 354, "Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla

esecuzione delle misure privative e limitative della libertà", in Gazzetta Ufficiale

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l'esecuzione penale sia la stessa funzione della giustizia penale. Con la riforma, infatti, si riportò in primo piano la tutela della figura del detenuto, stabilendo da un lato regole che garantissero in via diretta l'umanità della fase esecutiva e creando dall'altro meccanismi che potenziassero l'effettività dei diritti compatibili con lo stato di detenzione2

.

Ciononostante a quarant'anni da questo passaggio epocale, da questo primo riconoscimento ufficiale della soggettività giuridica del soggetto in vinculis, risulta ancora strano parlare di diritti in riferimento a persone espropriate della propria libertà personale.

Se ci attenessimo alle mere formulazioni di principio contenute nelle predette fonti, arriveremmo alla conclusione che l'esecuzione penale in carcere, almeno come idealmente concepita, non comporti alcuna capitis deminutio del detenuto, salvo, ovviamente, eventuali limitazioni dei diritti connaturate allo stato detentivo.

La realtà dei fatti, quella che quotidianamente si presenta ai nostri occhi e che ci riporta continuamente episodi tragici di suicidi e gravi maltrattamenti, è però ben diversa.

Quasi che il detenuto non sia da considerarsi una persona, ma "un reato che cammina", è infatti forte la tendenza a disconoscere allo stesso la garanzia dei suoi diritti anche quando una loro eventuale compressione non risulti essere coessenziale alla detenzione; tale perdurante lesione, che talvolta attenta persino al contenuto minimo del senso di umanità, va peraltro di pari passo con la trans-storicità dell'istituzione carceraria, da sempre concepita come un elemento imprescindibile e quasi "naturale"3

ma di fatto mai capace di assolvere le sue funzioni nel

2 V. DI SOMMA E., "La riforma penitenziaria del 1975 e l'architettura organizzativa dell'Amministrazione Penitenziaria", in Rassegna penitenziaria e

criminologica, 2005 n. 2-3, pp. 1-13.

3 Il primo a considerare il carcere come un'istituzione "naturale" più che un prodotto della società è FOUCAULT M. in Sorvegliare e punire. Nascita della

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pieno rispetto della legalità.

A fronte della limitata forza cogente dell'impianto normativo, freno importante agli atavici soprusi subiti dai detenuti e al continuo aggravio della privazione della libertà personale è stato allora rappresentato dalla giurisprudenza costituzionale, che ha proceduto in più occasioni a stabilire un limite all'esercizio legittimo di poteri autoritativi da parte dell'amministrazione penitenziaria, ribadendo incessantemente la necessità di garantire una tutela effettiva ai diritti individuali. Paradigmatica, a tal proposito, risulta essere la sentenza n. 26 del 1999, con la quale la Corte Costituzionale, a differenza dei suoi precedenti provvedimenti, non si è limitata a individuare situazioni soggettive in capo ai detenuti4

, ma ha riconosciuto che per la loro sfera residua di libertà non violabile durante l'esecuzione della pena deve essere assicurata un'efficace tutela giurisdizionale5

.

Tralasciando l'esame dei meccanismi attraverso i quali si realizza attualmente l'effettività dei diritti del detenuto, che giova poco esaminare in questa sede, ciò che merita invece il nostro interesse è capire in cosa consista la "sfera residua di libertà" alla quale si fa riferimento nella sentenza in questione, per poter conseguentemente stabilire quando la detenzione risulti oltrepassare la soglia massima dell'afflizione. E' tangibile che con tale espressione si debba far riferimento ai diritti inviolabili riconosciuti ad ogni uomo,

4 Particolarmente interessante a tal proposito è la sentenza n. 349 del 1993 della Corte Costituzionale, nella quale si afferma, similmente alle sentt. n. 204/1974, n. 185/1985, n. 312/1985, n. 374/1987, n. 53/1993, che «la tutela costituzionale dei

diritti fondamentali dell'uomo, ed in particolare la garanzia della inviolabilità della libertà personale sancita dall'art. 13 della Costituzione, opera anche nei confronti di chi è stato sottoposto a legittime restrizioni della libertà personale durante la fase esecutiva della pena, sia pure con le limitazioni che, com'è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta».

5 Cfr. MARCHESELLI A., "I diritti in carcere, tra utopia, tutela giuridica e real

politik", in GABOARDI A.-GARGANI A.-MORGANTE G.-PRESOTTO

A-SERRAINO M. (a cura di), Libertà dal carcere libertà nel carcere: Affermazione

e tradimento della legalità nella restrizione della libertà personale. Atti del Quinto Ginnasio dei Penalisti svoltosi a Pisa il 9-10 novembre 2012, Torino,

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indipendentemente dal fatto che esso sia libero o detenuto, e quindi all'art. 2 Cost., che riconosce il loro esercizio anche nelle formazioni sociali ove questi svolge la propria personalità. Proprio da quest'ultimo principio, che sostanzialmente afferma il primato della persona umana rispetto ad ogni istituzione politica o potere costituito, si può capire in maniera chiara come dall’assoggettamento all’organizzazione penitenziaria non deve per forza di cosa derivare il disconoscimento o la compressione di essenziali diritti della persona connessi alla tutela di beni primari della stessa. Il carcere è infatti, durante l’esecuzione della pena, una formazione sociale prevalente ed assorbente rispetto a tutte le altre possibili; sic stantibus res è necessario che in essa l’inviolabilità dei diritti, in funzione dello sviluppo della personalità, divenga un profilo ancor più intenso e complesso.

Purtroppo, però, l'appartenenza ad un contesto privativo della libertà personale, ad un «luogo dove il potere di punire, che non osa più esercitarsi a viso scoperto, organizza silenziosamente un campo di oggettività in cui il castigo può funzionare in piena luce come terapeutico»6

, fa sì che talvolta anche sui diritti inviolabili possa insistere l'esigenza afflittiva connessa all'esecuzione della pena.

Questo è quanto accade, ad esempio, con riferimento al diritto alla salute, uno dei diritti più calpestati all'interno delle mura del carcere.

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2. Il diritto alla salute in carcere...

Nella nostra Costituzione l'espressione "diritto fondamentale" viene utilizzata in un unico caso, all'interno dell'art. 32, ove si sancisce l'obbligo per la Repubblica di tutelare il diritto alla salute proprio di ogni uomo. Tale fatto, ovviamente, non può dar adito ad alcuna gerarchizzazione dei diritti costituzionali che, come ben si sa, sono soggetti ad una continua ponderazione, purtuttavia sottolinea mirabilmente quanto la sanità, annoverata da sempre tra i beni giuridici primari, sia condizione imprescindibile e indispensabile affinché ogni individuo possa esprimere compiutamente la propria personalità. Oltre a suggellare questa particolare importanza e a far propri i principi della Conferenza Internazionale della Sanità del 19467

, la Carta Costituzionale offre peraltro delucidazioni circa la portata stessa della difesa da garantire. La salute, alla luce del disposto normativo, non è solo un diritto inviolabile di ogni uomo ma anche un interesse preminente della collettività; coordinando di fatto il momento "individuale" e quello "collettivo" si capisce bene che la tutela da apprestare si pone quindi su di un duplice piano, il primo relativo alla difesa di ogni individuo dalla malattia, l'altro riguardante la difesa della collettività da tutti quegli elementi ambientali o individuali che possono ostacolare un pieno godimento del diritto in questione8

.

L'ambiguità intrinseca all'oscillazione tra questi due momenti ha posto, per lungo tempo, non pochi problemi interpretativi, che hanno limitato

7 Le direttive fondamentali stabilite dalla Conferenza internazionale della Sanità (New York, 1946), sostenevano che per sanità dovesse intendersi «uno stato di

completo benessere fisico, mentale e sociale» che non consisteva solo

nell'«assenza di malattia o d’infermità». Non si mancava poi di ricordare che «il

possesso del migliore stato di sanità possibile costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano, senza distinzione di razza, di religione, d'opinioni politiche, di condizione economica o sociale».

8 Cfr. BRUNETTI C.-ZICCONE M., Manuale di diritto penitenziario, Piacenza, Casa Editrice La Tribuna, 2004, p. 255.

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di molto la portata garantistica dell'art. 32 Cost.. Nei primi anni di vigenza della Costituzione, infatti, si riteneva che la norma in questione avesse solo contenuto programmatico e non anche precettivo9

; solo a partire dagli anni '70 e soprattutto conseguentemente all'istituzione del Servizio sanitario nazionale nel 197810

, la giurisprudenza della Corte Costituzionale ebbe modo di sottolineare la diversa natura giuridica dell'art. 32 Cost.11

.

Il diritto alla salute tuttora è da considerarsi un diritto assoluto e fondamentale, con una valenza erga omnes, quale situazione soggettiva assoluta che merita protezione contro qualsiasi aggressione ad opera di terzi. La sua realizzazione, tuttavia, non può configurarsi solo in termini negativi; l'art. 32 comma 1 Cost. da infatti luogo anche ad una pretesa positiva nei confronti dello Stato, tenuto a predisporre strutture, mezzi e personale idonei ad assicurare una condizione di salute ottimale alla singola persona, nonché ad attuare efficaci politiche di prevenzione, cura e intervento sulle possibili cause di turbativa dell’equilibrio psico-fisico della popolazione in generale.

E' peraltro ovvio che tutta questa protezione assicurata possa tuttavia subire delle limitazioni in determinate circostanze; la stessa giurisprudenza costituzionale non ha mancato di sottolineare che, pur essendo il diritto alla salute compreso tra le posizioni soggettive direttamente riconosciute dalla Carta fondamentale, la tutela riconosciuta dall'art. 32 Cost. può incontrare dei limiti oggettivi sia nelle esigenze di concomitante tutela di altri interessi sia nell'organizzazione stessa dei servizi sanitari.

9 Le norme giuridiche si distinguono in precettive e programmatiche. Le prime, prescrivendo un comportamento da tenere o da non tenere, introducono norme giuridiche immediatamente vincolanti, le seconde invece, a guisa di mera indicazione, non risultano direttamente applicabili nei tribunali.

10 V. Legge 23 dicembre 1978 n. 833, "Istituzione del servizio sanitario nazionale", in Gazzetta Ufficiale 28 dicembre 1978 n. 360.

11 V. FRATI P., "Del diritto alla salute nell'evoluzione interpretativa della Corte Costituzionale", in Ragiusan, 1996 n. 142/143, pp. 6-9.

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Questo è quanto avviene in ambito carcerario.

Nonostante i detenuti abbiano diritto al pari dei cittadini liberi all'erogazione di efficaci e appropriate prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione12

, la possibilità di garantire un'adeguata assistenza sanitaria all'interno dell'istituzione trova evidenti limitazioni nell'esistenza di un conflitto tra esigenze contrapposte ed inconciliabili, ossia quella di garantire la tutela della salute da un lato e quella di assicurare la difesa e la prevenzione sociale mediante la custodia del condannato dall'altro13

. In molti casi, poi, sono le stesse esigenze di sicurezza della struttura, presupposto della carcerazione, che possono portare ad una limitazione della normale fruizione dell'assistenza sanitaria, comportando, ad esempio, la limitazione delle possibilità di scelta del medico curante o del luogo di cura, oppure della prosecuzione di cure iniziate in stato di libertà14

.

Infine altro fattore ostativo a una tutela piena dal punto di vista attivo è rappresentato dal fatto che il soddisfacimento del diritto alla salute del detenuto è strettamente connesso all’iniziativa o al consenso dell’Amministrazione penitenziaria, il che può tradursi sovente in ritardi ed inefficienze burocratiche ed organizzative nonché in una parziale effettività dei trattamenti sanitari.

12 L’Organizzazione Mondiale della Sanità, con l’emanazione delle direttive titolate "Principio di equivalenza delle cure" sancisce come inderogabile la necessità di garantire al detenuto le stesse cure, mediche e psico-sociali, che sono assicurate a tutti gli altri membri della comunità.

13 Cfr. CARNEVALE A-DI TILLIO A., Medicina e carcere: gli aspetti giuridici,

criminologici, sanitari e medico-legali della pena, Milano, Giuffrè, 2006, p. 185.

14 La limitazione è totale per quanto riguarda la scelta del luogo di cura, che ovviamente viene effettuata dall'amministrazione penitenziaria e dall'autorità giudiziaria sulla base delle esigenze di sicurezza nonché dell'adeguatezza o meno del servizio sanitario penitenziario rispetto alla fattispecie concreta. Per ciò che riguarda invece la scelta del medico curante, il detenuto è costretto oggi ad avvalersi del medico di turno del Servizio sanitario nazionale, con evidente danneggiamento della continuità terapeutica e del rapporto di fiducia medico-paziente. Di recente il carcere di Massa Carrara, per la prima volta in Italia, ha deciso di concedere ai detenuti la possibilità di avvalersi delle prestazioni di un medico di fiducia.

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Il diritto pretensivo ad adeguate prestazioni assistenziali, peraltro, si declina anche in termini negativi, poiché il detenuto può ovviamente rifiutare le terapie offerte; lo stesso art. 32 comma 2 Cost., infatti, prevede che «nessuno possa essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge». Viene così attribuita assoluta priorità al diritto all’autodeterminazione individuale in campo sanitario; salvo i casi tassativi ed eccezionali prescritti dalla legge, il medico non può intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. Resta fermo che ove la salute di un detenuto metta in gioco quella degli altri non si avrà più contrasto tra la sua volontà ed un contrapposto generico "interesse", bensì tra la sua volontà ed il diritto alla tutela della propria salute degli altri ristretti. Come si vedrà più avanti parlando dei servizi sanitari garantiti ex art. 11 O.P., questa esigenza di tutela collettiva fa sì che in carcere, in certe occasioni, siano permessi accertamenti sanitari obbligatori.

3. ... e il suo legame con la funzione della pena

Lo studio del diritto alla salute del detenuto richiede anche una preliminare puntualizzazione relativa ai fini stessi della pena, poiché, spesso, proprio a loro rifacendosi è possibile stabilire se sussistano o meno eventuali violazioni e distorsioni del diritto nella gestione carceraria. Per esser ancor più precisi, la conoscenza degli effetti che la pena dovrebbe produrre sul detenuto diventa fondamentale per stabilire se, nei casi di malattia grave o a prognosi infausta, essa possa essere applicata con modalità esecutive diverse da quelle previste o non esser applicata affatto15

.

15 Cfr. SARZOTTI C., "Pena e malattia. La sanzione al malato infettivo a prognosi infausta alla luce delle dottrine assiologiche della pena", in MAGLIONA B., SARZOTTI C. (a cura di), La prigione malata-Letture in tema di AIDS, carcere e

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Presa coscienza dell'importanza pratica della questione, occorre innanzitutto far riferimento alla tradizionale e generale distinzione delle teorie sulla funzione della pena, in base alla quale esistono teorie assolute e teorie relative. Sono dette assolute quelle teorie retributivistiche secondo le quali si punisce quia peccatum est, guardando esclusivamente al passato e al fatto commesso; sono invece teorie relative tutte le dottrine utilitaristiche per le quali si punisce ne peccetur, per evitare quindi che il reo possa commettere in futuro altri delitti16

. Secondo le prime la pena trova la ragione in sé stessa, per il solo fatto di essere giusta "retribuzione" di un peccato commesso; per le altre essa è invece un mezzo per conseguire uno scopo preciso, che può essere quello di prevenzione speciale o prevenzione generale17.

Se ci ponessimo in una prospettiva meramente retributivistica risulterebbe ovvio che la pena detentiva, non avendo altro fine se non quello di riaffermare il valore assoluto del diritto, finisca per prestare poca attenzione alla dimensione soggettiva del condannato, pur potendo comunque prevedere la salvaguardia dei suoi diritti fondamentali. In quest'ottica, quindi, il fatto che il soggetto in questione possa essere gravemente malato o possa avere ridotte aspettative di vita non avrebbe la benché minima importanza nella valutazione di legittimità dell'esecuzione penale; essendo l'attenzione focalizzata sulle sue azioni passate e non su quelle che egli potrebbe porre in essere dopo l'esecuzione stessa, non vi sarebbe infatti alcuna ragione per ipotizzare un'eventuale sospensione del potere punitivo.

16 Per spiegare la differenza tra teorie assolute e teorie relative della pena si fa riferimento a questo passo del De Ira di Seneca: « (...) nemo prudens punit quia

peccatum est, sed ne peccetur; reuocari enim praeterita non possunt, futura prohibentur» (Nessun uomo prudente infligge una punizione perché c’è una

colpa, ma perché non si commetta colpa: il passato non si può più revocare, il futuro lo si previene).

17 La pena ha funzione general-preventiva quando mira a distogliere i consociati dal compiere atti criminosi, mentre ha funzione special-preventiva in tutti i casi in cui, oltre ad essere un efficace deterrente per il condannato stesso, contribuisca alla sua correzione e rieducazione.

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La pena, volta a compensare la colpevolezza del reo, deve essere eseguita in ogni caso e la rivendicazione di qualsiasi diritto ha importanza solo relativamente alle modalità di esecuzione della stessa, per una sua sostanziale riconferma nei limiti assegnatile dalla legge. Il diritto alla salute e gli altri diritti compatibili con la detenzione, quindi, vengono conservati non già per una paternalistica concessione umanitaria da parte dell’istituzione punitiva o per qualsivoglia finalità rieducativa, ma in virtù dello stesso principio retributivo, secondo il quale la pena deve essere esattamente quantificata e predeterminata nei suoi aspetti afflittivi18.

Come è ovvio che sia, tale visione risulta incompatibile con gli attuali principi generali della materia penitenziaria; infatti, nonostante la nostra Carta costituzionale non abbia indicato una funzione specifica della pena detentiva, è naturale che essa, almeno sul piano teorico, sia attualmente organizzata in maniera tale da non costituire, nelle sue modalità esecutive, un castigo più grande di quello che già si realizza tramite la privazione della libertà personale. Il carcere, in quest'ottica, deve essere il luogo dove la condanna comminata possa trovare significato, sia per quanto riguarda il luogo sia per quanto riguarda lo spazio e il tempo, al fine di preparare i detenuti alla loro liberazione definitiva.

Fra tutte le disposizioni di principio relative all'esecuzione penale volte per l'appunto a giustificare tale asserto, assume particolare importanza l’art. 27 comma 3 Cost.. La disposizione è estremamente chiara nel suo dato letterale; essa, riprendendo quanto disposto dall’art. 13 Cost., dove viene «punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà», stabilisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

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L’art. 27 comma 3 Cost., oltre a fissare in negativo un divieto sul piano del trattamento, assume ovviamente anche la valenza di principio positivo, configurandosi come garanzia di tutela minima dei diritti e delle posizioni giuridiche dei soggetti ristretti nella libertà. L'attuazione di questo principio costituzionale è rappresentata dall'art.1 O.P. che, collocandosi nel solco di una progressiva umanizzazione della pena detentiva, prevede che il trattamento penitenziario debba essere conforme ad umanità e debba assicurare il rispetto della dignità della persona, sia pure con limitazioni coessenziali allo stato detentivo. La conseguenza logica di tutte le disposizioni appena menzionate è che la garanzia della tutela della salute psico-fisica e sociale diviene fondamentale per qualsiasi attività di rieducazione e reinserimento sociale del detenuto; l’assistenza sanitaria si pone quindi come attività strumentale e si qualifica rispetto alla funzione di trattamento e di sicurezza. In questa prospettiva è pacifico che la potestà punitiva dello Stato, basata sull'imposizione della sanzione detentiva, si presenti come illegittima in tutti i casi in cui il soggetto condannato sia affetto da una malattia particolarmente grave, che possa mettere in pericolo la sua vita o comprometterla in maniera rilevante. In simili situazioni sarebbe preferibile concedere al detenuto malato la possibilità di usufruire di misure alternative alla detenzione a carattere transitorio o protratto nel tempo.

Nonostante tutto ciò sembri essere in qualche modo scontato, le risposte dei vari ordinamenti sono state nel tempo diverse e contraddittorie, soprattutto quando non si è riusciti ad arrivare ad un'armonizzazione tra la concezione della pena come retribuzione giuridica del reato con la concezione della pena come mezzo di difesa sociale e di correzione del condannato. In Italia la fase esecutiva, vista nei suoi caratteri sanzionatori e disciplinari, trova un limite importante nella malattia del detenuto e tutta la normativa sui casi

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d’incompatibilità, sui ricoveri e sull’applicazione di misure alternative al detenuto malato si muove nella strada indicata dalla Costituzione e dalla riforma penitenziaria.

4. Compatibilità tra condizioni di salute del detenuto e status detentionis

Alla luce di quanto detto a conclusione del precedente paragrafo uno degli aspetti fondamentali che riguarda il diritto alla salute del detenuto è la determinazione dei casi in cui le sue condizioni di salute siano incompatibili con la detenzione.

Per ciò che riguarda il nostro Paese, che costituisce un'eccezione unica nel panorama giuridico europeo, l’incompatibilità tra condizioni precarie di salute e regime carcerario ha ricevuto una dettagliata risposta normativa, soprattutto per due ragioni fondamentali: la prima relativa alla salvaguardia della salute del singolo e che si lega a tutte quelle condizioni che non possono essere adeguatamente trattate o che necessariamente richiedono standard di assistenza irrealizzabili all’interno dell’istituto penitenziario, la seconda invece riguardante la tutela della salute degli altri detenuti, in accordo con la lettura del diritto alla salute nella sua dimensione sociale e collettiva19

.

Le soluzioni pensate in virtù di queste ragioni risultano differenziate a seconda della fase del procedimento penale nel quale si manifesta (o si acutizza) una condizione di salute tale da richiedere un livello di cure superiore a quello ordinario, ma anche in ragione del particolare stato in cui i detenuti si vengono a trovare: ci sono quindi norme per la tutela della maternità e della paternità in stato di detenzione, altre relative alla salvaguardia del detenuto ultra settantenne oppure infra

19 Cfr. CERAUDO F., La Pena e la Salute in carcere alla ricerca di un sostanziale

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diciottenne, altre ancora atte a regolamentare l’esecuzione penale nei confronti dei soggetti tossicodipendenti. In questo quadro così ampio è necessario quindi capire quali siano i presupposti, le procedure, i termini ed i limiti attraverso cui la normativa in materia penitenziaria garantisce la tutela del diritto alla salute delle singole categorie di persone coinvolte nel circuito penitenziario, che, a vario titolo, vengono giudicate per le loro particolari condizioni come meritevoli di una particolare attenzione.

4.1. I detenuti "definitivi": gli artt. 146 e 147 c.p. e la misura della detenzione domiciliare ex art. 47 ter O.P.

Nell'opera di bilanciamento tra la generale inderogabilità dell'esecuzione della condanna ed il fondamentale diritto alla salute, il nostro legislatore ha deciso di far prevalere quest'ultimo in tutti i casi in cui la pena, per le condizioni di grave infermità del condannato, possa costituire un trattamento contrario al senso di umanità e possa perdere le sue finalità rieducative20

.

Proprio per accordare questo tipo di tutela alla figura del detenuto "definitivo" gravemente malato, il nostro codice penale prevede due istituti giuridici adottabili in executivis21

, ossia il rinvio dell'esecuzione della pena, disciplinato dagli artt. 146 e 147 c.p., e la misura alternativa della detenzione domiciliare, prevista all'art. 47 ter O.P..

Sostanziali differenze vi sono riguardo alle modalità con le quali tali istituti realizzano il loro scopo; mentre il rinvio dell’esecuzione crea

20 Cfr. FIORIO C., "Diritto alla salute e libertà personale", in DINACCI F.R.,

Processo penale e costituzione, Milano, Giuffrè, 2010, p. 614; FIORENTIN F., Esecuzione penale e misure alternative alla detenzione: normativa e giurisprudenza ragionata, Milano, Giuffrè, 2013, p. 5.

21 In dottrina sono stati sollevati parecchi dubbi sulla opportunità, sotto il profilo sistematico, di mantenere all'interno della disciplina codicistica questo ambito della materia dell'esecuzione, soprattutto dopo la riforma del 1975; così PADOVANI T. in Codice penale, Milano, Giuffrè, 2011, p. 1118.

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una parentesi temporanea nell’applicazione della pena detentiva, che riprenderà il suo naturale corso non appena saranno cessate le condizioni medico-assistenziali che ne hanno giustificato il differimento, la detenzione domiciliare costituisce un vero e proprio modo alternativo di esecuzione, modellato in maniera tale da ridurre sensibilmente l'afflittività e garantire la piena tutela della salute e delle relazioni familiari.

Partendo dal primo istituto preso in considerazione, è necessario innanzitutto sottolineare che il rinvio dell'esecuzione della pena può essere obbligatorio (art. 146 c.p.) o facoltativo (art. 147 c.p.), a seconda che il tribunale di sorveglianza abbia o meno poteri discrezionali nel decidere se accordare o meno il beneficio22

.

L'art. 146 c.p., oltre a garantire la tutela della salute della donna incinta o madre di prole di età inferiore ad un anno, dispone al comma 1 n. 3 che «l'esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita (...) se deve aver luogo nei confronti nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell'articolo 286-bis, comma 2, del codice di procedura penale, ovvero da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative».

22 Ai sensi dell'art. 684 c.p.p. è il tribunale di sorveglianza a provvedere in ordine al differimento dell'esecuzione delle pene detentive e delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata nei casi previsti dagli articoli 146 e 147 c.p., con il procedimento di cui agli artt. 71 ss. O.P.. Nelle more della pronuncia del Tribunale, quando vi siano fondate ragioni per ritenere che sussistano i presupposti richiesti, è il Magistrato di Sorveglianza a ordinare provvisoriamente il differimento dell'esecuzione o la liberazione del condannato, nel caso che dall'attesa possa derivare grave pregiudizio. Ovviamente sia i provvedimenti di concessione che quelli di rigetto sono impugnabili in Cassazione.

(20)

Come si può facilmente evincere dal dato testuale, l'ordinamento dà in questo caso assoluta prevalenza all'esigenza di tutela della salute e non lascia alcuno spazio di discrezionalità all'autorità giudiziaria sull'an della concessione del beneficio. I presupposti del rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena sono legati esclusivamente a ragioni di carattere medico ed esulano da qualsiasi riferimento alla gravità del reato23

; il giudice dovrà quindi valutare solo se «le condizioni di salute del condannato siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena e con le possibilità concrete di reinserimento sociale conseguenti alla rieducazione»24.

Di recente la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di illegittimità costituzionale dell'articolo in questione, sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Palermo in riferimento agli artt. 2, 3, 27 primo e terzo comma; in particolare la Consulta ha tenuto a precisare che l'art. 146 comma 1 n. 3 non è una norma strutturata secondo un modulo di automatismo e non stabilisce una presunzione ex lege, dal momento in cui si lascia comunque al giudice «il compito di verificare in concreto se, ai fini dell'esecuzione della pena, le effettive condizioni di salute del condannato, per lo stadio estremo al quale è oramai pervenuta la malattia, siano o meno compatibili con lo stato detentivo»25

.

Del resto, poi, il rinvio obbligatorio non esclude nemmeno che la pena irrogata possa avere efficacia deterrente, poiché esso non comporta una rinuncia sine die alla relativa esecuzione, ma solo un differimento per un periodo limitato.

Per ciò che riguarda invece l'art. 147 c.p., esso prevede al comma 1 n.

23 V. Corte di Cassazione, Sezione I, 27 gennaio 1992 n. 358, Viola. 24 V. Corte di Cassazione, Sezione I, 18 giugno 2008 n. 28555.

25 V. Corte Costituzionale 23 settembre 2009 n. 264, in Gazzetta Ufficiale 28 ottobre 2009 n. 43. Le motivazioni poste alla base della decisione della Consulta sono le stesse di Corte Costituzionale 18 ottobre 1995 n. 438, che sarà esaminata dettagliatamente nell'ultimo capitolo.

(21)

2 la possibilità che i detenuti con condanna definitiva possano avere sospesa la pena facoltativamente quando sussiste una condizione di grave infermità fisica. Tale condizione, pur non essendo tale da giustificare il ricorso ad un rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena, rende difatti «penosa l'ulteriore prosecuzione dello stato di restrizione carceraria, legittimando una deroga al principio dell'obbligatorietà della pena detentiva e della sua astratta misurabilità edittale»26

.

Anche tale norma si pone quindi come baluardo alla difesa degli artt. 27 e 32 della Costituzione, tuttavia per molto tempo è stata svuotata nella sua portata garantistica dall'indeterminatezza relativa all'espressione "grave infermità fisica". Le difficoltà nel ricostruire una definizione precisa di questo concetto, rilevante ai fini del rinvio, hanno peraltro fatto sì che annoso sia stato il dibattito dottrinario e giurisprudenziale sulla questione. Se da un lato la letteratura medico-legale non è riuscita ancora a trovare una soluzione univoca, dall'altro in giurisprudenza, nonostante sporadiche disomogeneità, pare essersi affermato un orientamento "relativista", costruito sul rapporto mutevole tra le condizioni individuali e le condizioni dell'ambiente carcerario. La gravità della patologia non deve essere quindi valutata in modo assoluto, ma occorrerà vedere anche e soprattutto se la condizione particolare di salute possa essere aggravata dallo stato di detenzione27

; a tal proposito è pacifico che si debba far riferimento al divieto di trattamenti inumani ci cui all'art. 27 comma 3 Cost., al principio di legalità della pena di cui all'art. 25 comma 2 Cost. nonché al diritto alla salute ex art. 32 Cost..

Le pronunce giurisprudenziali allineatesi negli anni a

26 Così CENTONZE A., "L'esecuzione della pena detentiva e la ricostruzione sistematica della nozione di gravità delle condizioni di salute del detenuto", in

Rassegna penitenziaria e criminologica, 2006 n. 3, p. 33.

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quest'orientamento purtuttavia riflettono la significativa componente di discrezionalità nel vaglio giudiziale che, come già detto, marca la differenza tra questo istituto e il suo gemello dell'art. 146 c.p.28

. In alcuni casi il rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena è stato infatti concesso quando le cure non fossero agevolmente attuabili in ambiente carcerario o quando lo stato patologico non fosse suscettibile di adeguata assistenza in ambito carcerario, in altri casi quando le cure fossero del tutto impossibili da offrire. Nonostante queste sottili differenze resta il fatto che ai fini della concessione del rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena per grave infermità fisica è necessario che le condizioni patologiche siano tali da rendere oggettivamente impossibile fronteggiarle in ambito carcerario, a nulla rilevando che esse possano essere trattate meglio in ambiente extracarcerario.

Non è inoltre necessario che la malattia sia guaribile o reversibile29

; ai fini del differimento facoltativo conta solo il grave stato di salute, presente sia in presenza di patologie a prognosi infausta quoad vitam sia in presenza di altre patologie che possano arrecare rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procastinabili con cure o trattamenti non praticabili in regime di detenzione.

Da un punto di vista tecnico giova però distinguere le patologie ad andamento acuto da quelle ad andamento cronico. Per le prime la natura di provvedimento temporaneo cui tende il differimento risulta certamente soddisfatta poiché la durata della pena detentiva non sarà intaccata dalla sua essenza; in presenza invece di patologia divenuta cronica ci sono alcuni problemi, poiché in questo caso il rinvio dell'esecuzione si sostanzierebbe in una mancata esecuzione della pena

28 V. Corte di Cassazione, Sezione I, 17 novembre 1989 n. 2607, Mondino; Corte di Cassazione, Sezione I, 25 luglio 1991 n. 280, Scarpetti; Corte di Cassazione, Sezione I, 25 gennaio 1991 n. 4363, Racca; Corte di Cassazione, Sezione I, 2 agosto 1991 n. 2243, Loccisano.

(23)

stessa. In giurisprudenza si è comunque affermata la linea secondo la quale il carattere cronico della patologia non costituisce di per sé impedimento alla concessione del differimento, che può pertanto essere applicato senza che ciò configuri una rinuncia all'attuazione della potestà punitiva30

.

Alla luce di quanto detto, il giudice potrà dunque concedere il differimento dopo aver svolto una serie di accertamenti atti a verificare l’entità della patologia, le conseguenze che da essa possono derivare e la sua possibile curabilità nella struttura sanitaria dell’istituto di reclusione o in altro luogo esterno di cura.

I mezzi dei quali egli può avvalersi per prendere la decisione giusta sono la relazione sanitaria del personale specialistico dell’istituto e la perizia medico-legale, il cui scopo è proprio quello di guidare il giudice nell’analisi del quadro clinico del detenuto, delle terapie alle quali quest'ultimo deve essere sottoposto e della possibilità di ricevere adeguata assistenza all’interno della struttura penitenziaria31

. Per ciò che riguarda la valutazione peritale, essa può essere divisa in due fasi32

. In una prima fase viene verificato il grado di compromissione dello stato di salute fisica del detenuto, attraverso tre criteri:

• criterio fisiopatologico: criterio atto a valutare il grado di compromissione organo-funzionale globale;

criterio prognostico quoad vitam: giudizio di natura predittiva emesso dal medico che, con certezza o elevata probabilità, dà indicazioni sulla gravità della malattia e sul suo possibile decorso;

• criterio terapeutico: questo criterio riguarda la disponibilità

30 V. Corte di Cassazione, Sezione I, 3 luglio 1987, n. 2180, Aperto.

31 V. PACCHI G., “La tutela del diritto alla salute nell'esecuzione di pena detentiva”, in Cassazione penale, 1989, p. 815.

32 Cfr. SCILLITANI M-URSITTI G., Perizie penali: strategie e vizi, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2014, p. 193.

(24)

delle cure e l'efficienza dei presidi terapeutici.

Nella seconda fase, invece, il giudizio riguarda più specificatamente la compatibilità tra stato di salute e carcere; in essa bisogna accertare:

• l'infermità fisica e il suo grado di gravità, secondo i criteri utilizzati nella prima fase;

• gli interventi diagnostici e terapeutici necessari per curare la malattia e la capacità assistenziale dell'istituto penitenziario;

• la compatibilità dello stato detentivo col trattamento terapeutico prescelto (in particolar modo occorre valutare se gli accertamenti diagnostici e le cure di cui il condannato ha bisogno possano essere praticati nell'infermeria del carcere o nei centri clinici intramurari);

• l'eventuale influenza negativa dello stato di detenzione sul decorso della malattia e sulla riuscita del trattamento terapeutico.

Solo nel caso in cui la valutazione peritale o la relazione del personale specialistico operante in carcere diano esito negativo, attestando che le condizioni di salute del detenuto possono essere tenute sotto controllo e che si possono offrire cure adeguate, il Tribunale di Sorveglianza può rigettare la richiesta di concessione di rinvio facoltativo; ovviamente l'ordinanza di rigetto, così come quella di concessione, risulta impugnabile in Cassazione.

A conclusione del discorso sul rinvio facoltativo della pena, possiamo inoltre notare che, come risulta dal dato testuale, non sono ricompresi nel campo di applicazione della norma i casi di infermità psichica del detenuto. In questi casi infatti opera l'art. 148 c.p., il quale obbliga il giudice a sospendere o differire la pena e a trasferire il detenuto in una casa di cura e custodia, qualora l'infermità psichica risulti incompatibile con l'espiazione della pena in forma carceraria.

(25)

In fase di esecuzione, tuttavia, la tutela del detenuto malato non si esaurisce solo nelle ipotesi di rinvio facoltativo od obbligatorio dell'esecuzione della pena; un altro strumento destinato a favorire coloro che si trovano in particolari condizioni di salute è la misura alternativa della detenzione domiciliare, disciplinata all'art. 47 ter O.P.33

. Mentre il differimento della pena di fatto costituisce per il condannato un modo per non espiarla, la detenzione domiciliare si presenta come una misura in grado di bilanciare l’esigenza di far rispettare la condanna con la necessità di evitare un trattamento disumano. Tale misura, oltre ad essere fondamentalmente finalizzata alla deflazione della popolazione carceraria, mira infatti ad assolvere anche a scopi prettamente umanitari, garantendo un trattamento meno afflittivo di quello subito in regime di carcerazione. Dal punto di vista soggettivo beneficiari di questo trattamento diversificato sono tutti quei soggetti per i quali, in ragione del loro stato, l'ambiente carcerario costituirebbe un'inutile sofferenza aggiuntiva a quella della privazione della libertà; presupposto oggettivo di applicazione è invece rappresentato dal fatto che la pena debba necessariamente essere inferiore a quattro anni o debba consistere nell'arresto34

.

33 Articolo introdotto dalla legge 10 ottobre 1986 n. 663, "Modifiche alla legge

sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà", in Gazzetta Ufficiale 16 ottobre 1986 n. 241.

34 Il comma 1 dell'art. 47 ter O.P. così riporta: «la pena della reclusione non

superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell'arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza ovvero, nell'ipotesi di cui alla lettera a), in case famiglia protette, quando trattasi di:

a) donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente;

b) padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;

c) persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali;

d) persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente; e) persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio,

(26)

La misura della detenzione domiciliare, tuttavia, non trova applicazione solo quando ricorrono tutte queste condizioni; la legge 165/199835

ha introdotto infatti due nuove possibilità di accesso al beneficio, svincolate entrambe da qualsiasi requisito di natura soggettiva. Si fa riferimento ai comma 1 bis e 1 ter dell'art. 47 ter, che offrono la possibilità di concedere la detenzione domiciliare rispettivamente nel caso in cui la pena sia inferiore ai due anni e la misura risulti idonea a contenere la recidiva, nonché tutte le volte in cui in cui il beneficio sia surrogatorio del rinvio dell'esecuzione della pena ex artt. 146 e 147 c.p., indipendentemente dall'entità della pena temporanea da espiare.

Con la previsione di quest'ultima ipotesi, che più ci interessa al momento, è stato risolto il problematico coordinamento tra i piani di tutela accordati rispettivamente dalla misura alternativa e dal rinvio dell'esecuzione della pena36

; attualmente il Tribunale di Sorveglianza può decidere infatti di disporre in via del tutto discrezionale la detenzione domiciliare in luogo del differimento, per un periodo di tempo predeterminato ma prorogabile, anche quando ci si trovi di fronte a condannati all'ergastolo o per i reati previsti dall'art. 4 bis O.P.. L’applicazione della detenzione domiciliare oltre a poter esser frutto della richiesta del condannato può esser quindi applicata anche «ex officio ed indipendentemente da una richiesta in tal senso dell’interessato»37, «sempre a condizione che sia compiuta una idonea

valutazione della compatibilità della misura stessa con la condizione legittimante il rinvio rappresentata dal condannato»38

.

35 Legge 27 maggio 1998 n. 165, "Modifiche all'articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975 n. 354 e successive modificazioni", in Gazzetta Ufficiale 30 maggio 1998 n. 124.

36 Prima dell'introduzione del comma 1 ter si riteneva che si dovesse privilegiare il rinvio obbligatorio nei casi in cui le fattispecie legittimanti il medesimo fossero venute ad esistenza anteriormente all'inizio dell'esecuzione penale.

37 V. Corte di Cassazione, Sezione I, 19 marzo 2001, Gabbrielli. 38 V. Corte di Cassazione, Sezione I, 20 maggio 2004, Trjkovic.

(27)

Quando opera in assenza di istanza, data la mancanza di vincoli normativi espressi, il Tribunale di Sorveglianza può scegliere la misura alternativa basandosi su «qualsiasi ragione che abbia una certa pregnanza sul piano delle caratteristiche del reo e delle sue condizioni personali e familiari (età, condizioni di salute, esistenza o meno di garanzie di affidabilità, compatibilità degli interventi terapeutici con il regime carcerario, e così via) o sul piano della gravità e durata della pena da scontare»39

.

Di fatto ciò a cui si assiste più frequentemente è un minuzioso accertamento della pericolosità sociale del condannato e del suo livello di affidabilità, poco rilevando l'esame di ciascun beneficio per stabilire il più consono e idoneo alla garanzia delle cure e dei trattamenti clinici in riferimento al caso concreto.

Sul piano costituzionale questo ampio spazio di libertà concesso al giudice nello scegliere tra le diverse opportunità trattamentali pone non pochi problemi; nonostante la ponderazione tra le finalità rieducative e le esigenze di sicurezza collettiva sembri essere in qualche modo necessaria, trattandosi del diritto alla salute della persona detenuta dovrebbe essere invero quest'ultima a scegliere di quale beneficio avvalersi, ovviamente sempre nel rispetto dei requisiti di ammissibilità previsti dalla legge.

Dato che cosi non è, il diritto alla salute del reo viene a subire sostanzialmente una compressione nei suoi contenuti più ampi e il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di fatto risulta inficiato ab origine sotto i profili motivazionali40

.

39 In Corte di Cassazione, Sezione I, 17 luglio 1999, Hass.

40 Cfr. FIORIO C., Libertà personale e diritto alla salute, Padova, CEDAM, 2002, pp. 183-185.

(28)

4.2. I detenuti in stato di custodia cautelare

Anche nella fase processuale antecedente al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna il diritto alla salute dell'individuo sottoposto a restrizione della libertà personale merita di esser tutelato; a dirla tutta in regime di custodia cautelare la necessità di offrire tutela al bene costituzionalmente garantito, in accordo con l'art. 277 c.p.p.41

e con l'operatività della presunzione di non colpevolezza per imputati ed indagati, dovrebbe essere ancor più stringente, per evitare sostanzialmente che la carcerazione preventiva possa prefigurarsi come vera e propria pena42

.

Malgrado ciò è assai frequente che il trattamento riservato agli imputati e agli indagati sia lo stesso dei detenuti "definitivi", sia per quanto riguarda le modalità esecutive dello stesso, sia per ciò che attiene al profilo dell'afflittività. Allo stesso modo non si rinvengono particolari differenze relativamente alla garanzia dei diritti del detenuto; accade così che anche nell'attesa del giudizio il diritto alla salute del soggetto ristretto venga tutelato da un'ampia gamma di strumenti giuridici, alcuni posti a difesa diretta del bene giuridico, altri rimessi alla discrezionalità più o meno vincolata del giudice procedente, legittimato ad intervenire a salvaguardia di patologie particolarmente gravi43

.

Prescrizioni particolari si trovano sia nella normativa penitenziaria sia nel codice di procedura penale sia nelle leggi ad esso collegate;

41 Art. 277 c.p.p. Salvaguardia dei diritti della persona sottoposta a misure

cautelari:

1. Le modalità di esecuzione delle misure devono salvaguardare i diritti della persona ad esse sottoposta, il cui esercizio non sia incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto.

42 Per l'identità tra pena e processo, resa ancor più manifesta dalla detenzione preventiva, v. CARNELUTTI F., "Pena e processo", in Rivista di diritto

processuale, 1952.

(29)

nonostante l'articolata struttura normativa, però, il difficile bilanciamento tra il diritto alla salute e la restrizione cautelare in carcere, come testimoniano le numerose pronunce giurisprudenziali, costituisce tuttora un vero e proprio punctum dolens, per i diritti inviolabili tirati in ballo44

.

Riguardo alla situazione dell’imputato o indagato affetto da gravi patologie occorre far riferimento principalmente all’art. 275 c.p.p., in particolar modo ai comma che vanno dal 4 bis al 4 quinquies45.

Partendo dal comma 4 bis, esso ci dice che «non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l'imputato è persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell'articolo 286-bis, comma 2, ovvero da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere».

Rimandando al capitolo finale del presente lavoro l'esame dell'incompatibilità tra la condizione di AIDS conclamata o grave deficienza immunitaria con lo stato di custodia cautelare, è possibile subito notare che, come in executivis, i parametri sui quali commisurare la tutela da offrire consistono nella gravità intrinseca della malattia e nella obiettiva possibilità di gestire la stessa all'interno delle mura del carcere.

44 Cfr. CORTESI M.F., "Compatibilità della custodia cautelare in carcere con lo stato di salute del detenuto: obblighi motivazionali del giudice", in Diritto penale

e processo, 2013 n. 10, pp. 1315-1324.

45 I comma che vanno dal 4 bis al 4 quinquies sono stati aggiunti nella loro attuale formulazione dalla legge 12 luglio 1999 n. 231, "Disposizioni in materia di

esecuzione della pena, di misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave", in Gazzetta Ufficiale 19 luglio 1999 n.

167. Prima dell'emanazione di questa legge non vi era distinzione netta tra le condizioni fisiologiche meritevoli di salvaguardia e quelle patologiche e, soprattutto, l'attenzione non era concentrata sulle gravi malattie, bensì in generale sugli effetti delle stesse.

(30)

E' ovvio che le condizioni del paziente non debbano essere valutate solo al momento dell'accertamento, ma anche e soprattutto sulla base della prevedibile evoluzione del quadro clinico; solo quando anche il giudizio prognostico evidenzi un'attenuazione del periculum libertatis il diritto alla salute del detenuto merita di esser tutelato anche al di sopra delle esigenze di sicurezza46

.

Siamo in presenza quindi di una presunzione in bonam partem, dato che l'incompatibilità della patologia con lo stato di detenzione potrà essere vinta solo nel caso in cui sussistano esigenze di sicurezza di particolare rilevanza47

.

Peraltro, anche nel caso in cui ricorra questa situazione, la tutela offerta al detenuto malato è piena ed effettiva. Il comma 4 ter dispone infatti che «se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non è possibile senza pregiudizio per la salute dell'imputato o di quella degli altri detenuti, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza». Nella decisione relativa alla concessione del provvedimento che dispone gli arresti domiciliari in luogo di cura o di assistenza o di accoglienza il giudice non ha alcuna discrezionaleità; egli è obbligato a seguire tale soluzione, per soddisfare le esigenze di salute e difesa salute, e può derogarvi solo nel caso in cui essa risulti assolutamente impraticabile48

.

46 V. Corte di Cassazione, Sezione IV, sentenza 14 dicembre 2011 n. 46479.

47 Perché una misura cautelare trovi applicazione, oltre alle condizioni generali di applicabilità previste dall'art. 273 c.p.p. (gravità del delitto, punibilità in concreto, gravi indizi di colpevolezza), deve sussistere anche una delle particolari esigenze cautelari elencate tassativamente nell'art. 274 c.p.p., ossia il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo di fuga e il pericolo che vengano commessi determinati reati. La presunzione in bonam partem del comma 4 bis si scontra con quella in malam partem del comma 3 dello stesso articolo 275 c.p.p., dove vi è una predeterminazione della necessità della custodia cautelare carceraria in presenza di determinati reati. Cfr. BASSI A.-EPIDENDIO T.E., Guida alle

impugnazioni dinanzi al tribunale del riesame, Milano, Giuffrè, 2008.

(31)

Una deroga importante al precetto stabilito nel comma 4 ter è rappresentata anche dal successivo comma 4 quater, ove si stabilisce che «il giudice può comunque disporre la custodia cautelare in carcere qualora il soggetto risulti imputato o sia stato sottoposto ad altra misura cautelare per uno dei delitti previsti dall'articolo 380, relativamente a fatti commessi dopo l'applicazione delle misure disposte ai sensi dei commi 4-bis e 4-ter. In tal caso il giudice dispone che l'imputato venga condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l'assistenza necessarie»49

.

Quando però la patologia dalla quale è affetto il detenuto sia talmente grave da non rispondere più ai trattamenti disponibili ed alle terapie curative, a norma del comma 4 quinquies, il giudice non può disporre o mantenere la custodia cautelare in carcere.

Facendo riferimento alle ipotesi di richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare presentata dall'imputato (art. 299 comma 4 bis c.p.p.), l'art. 299 comma 4 ter c.p.p. prevede due strumenti attraverso i quali il giudice possa valutare in tali casi la compatibilità del regime carcerario con le condizioni particolari del detenuto50

:

• in ogni stato e grado del processo, quando non sia in grado di decidere allo stato degli atti, il giudice dispone d'ufficio e senza formalità accertamenti da effettuarsi entro quindici giorni sulle condizioni di salute e sulle altre qualità personali dell'imputato;

• se la richiesta si basa sulle condizioni di salute delineate nell'art. 275 comma 4 bis c.p.p., ovvero se quest'ultime sono segnalate dal servizio sanitario del penitenziario o in altro

49 L'ipotesi derogatoria è dovuta al fatto che il soggetto, pur gravemente malato, costituisce una seria minaccia per la sicurezza sociale, essendo coinvolto in fatti penalmente rilevanti di particolare gravità.

50 V. BRESCIANI L., "sub art. 5 legge 8/8/19995 n. 332, in Legislazione Penale, 1995 n. 4, pp. 621-651, il quale sottolinea che il comma 4 ter, pur non introducendo un meccanismo di controllo periodico, garantisca comunque la possibilità di mettere il giudice al corrente delle vicende successive al primo esercizio del potere cautelare.

(32)

modo, quando non sia in grado di decidere allo stato degli atti, il giudice dispone accertamenti peritali da effettuarsi entro cinque giorni.

Secondo una pronuncia delle Sezioni Unite del 199951

, il giudice, anche quando abbia delle basi solide che possano giustificare il rigetto, è tenuto in ogni caso ad effettuare gli accertamenti medico-peritali del caso, in quanto rispondenti alla necessità di garantire un equo bilanciamento del diritto alla salute del detenuto e i pericoli connessi alla rimessione in libertà dell'imputato52

.

51 Si fa riferimento a Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 17 febbraio 1999, Femia. 52 Cfr. APRILE E., "Richiesta ex art. 299 comma 4 ter e poteri di verifica del

giudice sulle condizioni di salute del sottoposto alla custodia cautelare in carcere", in Cassazione Penale, 2009 n. 4, pp.1575-1580; BERNASCONI A., "Richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere per motivi di salute e regime degli accertamenti medico-peritali", in Cassazione Penale, 1999 n. 11, pp. 3103-3110.

(33)

CAPITOLO II

L'EVOLUZIONE DELLA SANITA' PENITENZIARIA ITALIANA

Sommario: 1. Introduzione 2. Il regolamento Rocco del 1931 3. La legge 9 ottobre

1970 n. 740 4. Il servizio sanitario penitenziario delineato dalla legge 26 luglio 1975 n. 354 5. Il decreto legislativo 22 giugno 1999 n. 230 e il riordino della medicina penitenziaria 6. Dalla Commissione "Tinebra" al DPCM 1 aprile 2008 7. Una riforma "di carta"

1. Introduzione

In base a quanto detto nel capitolo precedente, il diritto alla salute di tutti i detenuti, anche quando non sussistono casi di incompatibilità con lo stato di carcerazione, merita di essere garantito quale diritto inviolabile dell’uomo, al pari dei cittadini liberi; dal punto di vista medico ed assistenziale questa necessità di raggiungere la perfetta equità delle cure ha da sempre rappresentato una spinta importante alla continua evoluzione della sanità penitenziaria italiana53

, evoluzione che da ultimo ha registrato il trasferimento di tutte le competenze e le risorse dall’Amministrazione Penitenziaria al Servizio sanitario nazionale con il d.p.c.m. 1 aprile 200854

.

Prima di accingerci a ripercorrere il percorso che ha portato a questo

53 BRUNETTI B.-STARNINI G. definiscono la sanità penitenziaria come

«l’insieme di strutture, servizi, risorse finanziarie e professionali, dedicate al soddisfacimento della domanda di salute proveniente dagli Istituti penitenziari»,

in Scenari collaborativi tra sistema sanitario nazionale e sistema sanitario

penitenziario, atti del convegno "La tutela della salute dei detenuti", Firenze, 13

settembre 2002.

54 D.P.C.M. 1 aprile 2008, "Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio

sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria", in Gazzetta Ufficiale 30 maggio 2008 n. 126.

(34)

significativo cambiamento, occorre però esaminare preliminarmente tutti quegli aspetti che contribuiscono a rendere controverso e difficile il ruolo del medico in carcere, lasciando ipotizzare una sorta di "specialità" della medicina penitenziaria legata sia alla particolare condizione del paziente in stato di detenzione sia all’esigenza di adeguate conoscenze specialistiche, attente agli aspetti psicodinamici del destinatario della cura55

.

A tal proposito, è opportuno anzitutto ricordare che la prigione sia di per sé un luogo di infinite contraddizioni; «la contraddizione fra il principio della parità dei diritti dentro e fuori le mura e le esigenze di sicurezza che tendono a limitarli, fra le norme secondo cui devono essere garantite “la salubrità degli ambienti di vita” e “gli standard igienico sanitari previsti dalla normativa vigente” e le reali condizioni di vita nelle celle sovraffollate, fra il deficit di salute di chi entra negli istituti penitenziari e un carcere che produce sofferenza e malattia»56

. E' pacifico che in un siffatto contesto, che pone indubbiamente urgenti problemi di razionalizzazione e omogeneizzazione della funzione sanitaria, il ruolo del medico possa sembrare ambiguo, se non addirittura fuori posto. Egli, infatti, si trova a dover avere a che fare con disagi, povertà, emarginazione sociale, nonché con le sofferenze di soggetti timorosi di essere affetti da patologie e poco propensi al dialogo. Particolarmente difficile risulta creare un rapporto di fattiva collaborazione col paziente detenuto, dato che frequentemente per quest'ultimo chi lo assiste fa comunque parte del sistema, è complice della stessa autorità che ha comminato la pena; la creazione di solide basi di fiducia è peraltro inficiata dal fatto che i compiti normativi sono

55 Cfr. CERAUDO F., "L'organizzazione sanitaria penitenziaria in Italia", in FERRACUTI F.-BRUNO F.-GIANNINI M.C. (a cura di), Trattato di

criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, XI Carcere e trattamento, Milano, Giuffrè, 1989, pp. 175-188.

56 Così PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI-COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, La salute "dentro le mura", 27 febbraio 2013.

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