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I principali fattori di rischio

rapporti sessuali non protetti 2.2. Consumo di stupefacenti 3. Gestione autoritaria ovvero liberale del fenomeno HIV in carcere 3.1. Le sezioni speciali per i detenuti sieropositivi 3.2. Il test sierologico 3.3. Informazione e politiche di harm reduction 4. L'assistenza sanitaria e farmacologica

1. Introduzione

Sin dall'inserimento dell'AIDS nell’elenco delle malattie diffusive e infettive nel 198694

, l' infezione da HIV95

ha rappresentato un severo banco di prova per la sanità penitenziaria italiana e, a causa delle connesse criticità preventive e clinico-assistenziali, comuni in parte ad altre malattie infettive spesso correlate (tubercolosi, epatite B, epatite C), ha contribuito anche a far sì che negli anni vi sia stato un cambiamento radicale della legislazione penale e dell'organizzazione sanitaria delle nostre carceri.

Oggi l'HIV, lungi dall'esser debellato (le speranze di un vaccino pienamente efficace continuano a rimanere disattese), non pare tuttavia

94 Decreto ministeriale 28 novembre 1986, "Inserimento nell’elenco delle malattie

infettive e diffusive sottoposte a notifica obbligatoria, dell’AIDS (SIDA), della rosolia congenita, del tetano neonatale e delle forme di epatite distinte in base alla loro eziologia", in Gazzetta Ufficiale 12 dicembre 1986 n. 288.

95 Il virus HIV, ovvero virus dell'immunodeficienza umana, è un retrovirus che attacca alcune cellule del sistema immunitario, specialmente i linfociti CD4, causando l'indebolimento del sistema immunitario, fino ad annullare del tutto la risposta contro virus, batteri, protozoi e funghi. L'ultimo stadio della distruzione progressiva del sistema immunitario è una sindrome chiamata AIDS (Sindrome da immunodeficienza acquisita); le persone che risultano affette da HIV, data l'inefficienza del sistema immunitario, risultano maggiormente esposte alle infezioni e allo sviluppo di tumori e necessitano di una terapia specifica affinché sia limitata la replicazione del virus e il sistema immunitario riceva meno danni.

rappresentare più una reale emergenza. Benché il nostro Paese sia quello maggiormente colpito in Europa con 1.700 morti nel 2013 e una media di circa 4.000 contagi l'anno96

, l'ansietà sociale e il clamore mediatico, scatenati dai primi casi di contagio alla fine degli anni Ottanta, sembrano infatti aver lasciato il passo ad una preoccupante indifferenza.

Tale cambiamento, dovuto in parte alle terapie sempre più efficaci, non ha tuttavia sgombrato il campo da numerose questioni sociali e politiche97

che, purtroppo, trovano poi notevole amplificazione in un ambiente chiuso come quello del carcere, ove il tasso di incidenza del virus è circa dieci volte superiore alla comunità esterna.

Come risulta dai dati forniti nel maggio 2014 dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe-onlus), dalla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) e dal Network Persone Sieropositive Italia (NPS), l’infezione da HIV colpisce infatti il 3-4% dei detenuti presenti nelle nostre carceri, con prevalenze maggiori del 20% tra i soggetti tossicodipendenti98

. Tali dati, ovviamente, sono sottostimati e alterati dalle distorsioni dovute all'auto-selezione dei detenuti (il test sierologico, come vedremo, viene effettuato previo consenso informato degli stessi), ma nonostante tutto mostrano quanto sia ingiustificato e oltremodo rischioso l'affievolimento dell'interesse nei confronti di tale questione.

E se è generalmente inammissibile abbassare la guardia dinanzi alla malattia, cedendo in sua presenza alla discriminazione e alla

96 V. EUROPEAN CENTRE FOR DISEASE PREVENTION AND CONTROL,

HIV/AIDS surveillance in Europe 2013, Stoccolma, 2013.

97 Si fa qui riferimento all'intolleranza tradizionale e religiosa, alla disuguaglianza economica e sociale, al razzismo, all'omofobia, alla scarsa istruzione e al pudore, tutti fattori che possono impedire l’eradicazione di una patologia evitabile e l’accesso alle cure.

98 Dati presentati durante il XV Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, Torino, 18-20 maggio 2014.

stigmatizzazione dell'individuo sieropositivo99

, è ancor più deprecabile il fatto che tali atteggiamenti siano presenti in carcere, poiché in stato di detenzione il singolo individuo è costretto a scontare una doppia pena, quella imposta dalle sbarre della sua cella e quella dovuta ad una malattia che in taluni casi può limitare molto la qualità della vita. In un contesto estremamente difficile, contraddistinto da sovraffollamento cronico, pessime condizioni igienico-sanitarie e discriminazione acuta, è pertanto necessario che il detenuto sieropositivo possa perlomeno ricevere adeguate cure psico-fisiche, tramite l'accesso alle prestazioni del Servizio sanitario nazionale e ad esperienze socializzanti che possano aiutarlo a superare le angosce imposte dalla malattia.

Nel presente capitolo, oltre a passare in rassegna gli aspetti che possono favorire la circolazione dell'HIV e delle infezioni ad esso correlate in ambiente carcerario, si cercheranno di esaminare, in modo più approfondito possibile, le soluzioni che sono state elaborate per garantire ai detenuti sieropositivi standard assistenziali equiparabili a quelli extramurari, nonché le più importanti misure di prevenzione, distinguendo modelli di gestione autoritaria e modelli di gestione liberale del fenomeno.

99 Benché indichi una positività a qualsiasi test sul sangue, nel linguaggio di tutti i giorni e non in quello medico con la parola "sieropositività" si indica per antonomasia un particolare tipo di sieroconversione, ossia quella ai test per la rilevazione degli anticorpi contro il virus HIV.

2. I principali fattori di rischio

Molti dei detenuti affetti da HIV presenti nelle carceri italiane sono già consapevoli del loro stato di malattia prima dell'ingresso in istituto. Essi rappresentano quella parte di persone sieropositive che, oppresse dallo stigma sociale e dal fardello della loro sofferenza, non sono riuscite a desistere dal porre in essere comportamenti devianti.

Nella maggior parte dei casi questi detenuti sono giovani tossicodipendenti che non si lasciano nulla alle spalle e che hanno avuto dei legami affettivi precari; persone allontanate dalle famiglie di appartenenza e isolate dalla società, ritenute colpevoli per la loro trasgressione e per la loro malattia100

, che finisce per diventare un vero e proprio "significante sociale". La presenza del virus HIV in carcere, quindi, è perlopiù espressione delle caratteristiche della popolazione detenuta, che a sua volta riflette la prevalenza dell'infezione negli stessi gruppi di popolazione al di fuori del carcere101; accade quindi che ogni

istituto penitenziario, oltre ad essere risultato della società, diventi, se vogliamo, anche specchio della stessa.

Occorre ciononostante precisare che non sono solo le caratteristiche della popolazione detenuta a giustificare gli elevati tassi di diffusione del virus che già abbiamo avuto modo di evidenziare.

In ambito carcerario, infatti, sussiste ancora oggi tutta una serie di

100Cfr. VALITUTTI C., "Aids in carcere, identità in crisi. Emozioni, malattia, diversità", in Phsycomedia, 22 giugno 1999.

101Lo studio dell'Istituto Superiore della Sanità, "Characteristics of persons with

HIV and AIDS in Italy: a cross-sectional study", pubblicato nel Notiziario ISS

vol. 26 n.7, luglio-agosto 2013, ci mostra il numero delle persone viventi infette da HIV o AIDS e ci descrive il loro profilo epidemiologico, socio-demografico, comportamentale e terapeutico. Secondo tale studio nel 2012 in Italia 94.146 persone erano affette da HIV o AIDS, il 70,1% maschi e l’84,3% di cittadinanza italiana. La modalità di trasmissione più frequente era quella eterosessuale (37,2%), i Men who have Sex with Men (MSM - uomini che fanno sesso con gli uomini) erano il 27,7% mentre i consumatori di sostanze per via iniettiva rappresentavano il 28,5%.

fattori che agevolano, seppur in misura minore rispetto al passato, la circolazione virale102

. La condizione coatta e monosessuale che caratterizza la vita intra moenia può favorire condotte “a rischio” per il contagio e fattori come sovraffollamento, inadeguatezza delle strutture e inosservanza delle norme igienico sanitarie possono indubbiamente determinare un’amplificazione delle infezioni.

Nelle pagine che seguono l'attenzione sarà concentrata sulle due più importanti modalità di diffusione del contagio, i rapporti sessuali non protetti tra i detenuti e lo scambio di siringhe infette tra gli stessi.

2.1. Promiscuità e rapporti sessuali non protetti

Per molto tempo tra le molteplici cause responsabili della diffusione dell'HIV e delle infezioni correlate in carcere particolare importanza l'hanno avuta i rapporti sessuali non protetti tra i detenuti, inevitabili risultati della promiscuità e della compressione prolungata dell'istinto sessuale (un'inchiesta in carcere di De Deo e Bolino, datata 1970, mostrò che al tempo circa il 70-80 % dei detenuti aveva rapporti omosessuali103

).

Benché attualmente le pratiche omosessuali e gli episodi di violenza in carcere siano tutto sommato rari, parlare di sesso all'interno dell'istituzione non dovrebbe comunque rappresentare un tabù e dovrebbe essere smentito l'assunto secondo il quale il carcere è «il mondo del mutismo»104

, un mutismo esasperato ancor più quando si tratta di riconoscere la sessualità di quanti vi sono ristretti.

Tale barriera di omertà è stata infranta in quasi tutta Europa e la

102I tassi di nuove infezioni in carcere risultano comunque più contenuti rispetto al passato ed il rischio di contagio risulta maggiore per chi passa più tempo all'esterno rispetto a chi è continuativamente recluso.

103V. BOLINO G.-DE DEO A., Il sesso nelle carceri italiane : inchieste e

documenti, Milano, Feltrinelli, 1970.

mancanza di norme che favoriscano l'esplicazione dell'affettività e della sessualità dei detenuti costituisce oggi una prerogativa tutta italiana e di pochi altri Paesi. Questo vulnus legislativo rappresenta peraltro un evidente scostamento rispetto a quelle che sono state da sempre le indicazioni europee in merito.

Nel 1997, con la Raccomandazione 1340 sugli effetti sociali e familiari della detenzione, il Consiglio d'Europa auspicava infatti che fosse favorito il mantenimento per il detenuto dei legami affettivi con la famiglia, migliorando le condizioni per le visite da parte della stessa e predisponendo dei luoghi nei quali incontrarsi coi propri cari in maniera riservata. In modo ancor più puntuale, la Raccomandazione R(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee, alla regola 24 n. 4 prevedeva che «le modalità delle visite dovessero permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali», facendo rientrare nel concetto di "normalità" la sfera dell'affettività e della sessualità.

Se pensiamo, poi, che anche l'Organizzazione mondiale della Sanità da sempre ha ritenuto che una soddisfacente vita sessuale sia un diritto di ogni essere umano, al pari del mantenimento di un buono stato di salute generale, capiamo dunque quanto sia ingiustificabile il silenzio del legislatore italiano, colpevole in questa prospettiva di favorire un vero e proprio disadattamento sessuale del detenuto, costretto a sostituire la normale vita sessuale pre-carcere dapprima con l'autoerotismo, poi, in casi limite, con rapporti omosessuali.

Usando le parole di Francesco Ceraudo, ex presidente dell'Associazione medici dell'amministrazione penitenziaria italiana (A.M.A.P.I.), «molti individui che fino al momento di essere associati al carcere avevano avuto ed espresso un comportamento sessuale normale, a causa della promiscuità della vita carceraria, del turpiloquio e delle oscenità di cui diventano spettatori, mano a mano

che si adattano all’ambiente, vedono affievolirsi i loro freni inibitori e crollare i loro principi morali, lasciando che l’istinto incontrollato prevalga fino a giungere alle forme più basse di degradazione»105

. E' ovvio che tali comportamenti sessuali, consensuali o coercitivi, oltre ad «esasperare la privazione e l'amputazione di un'autentica vita affettiva sessuale»106

, rappresentano veri e propri fattori sidageni, sia per la comunità carceraria sia per la comunità esterna, quando vi è un ritorno in libertà dopo condanne di breve durata o quando il detenuto beneficia di permessi premio.

Nonostante la volontà di reprimere la sessualità del detenuto, per garantire l'effettività della pena e per consentirle di «fare presa sul corpo»107

, risulta impossibile per qualsiasi Paese al mondo evitare che vi sia attività sessuale all'interno delle carceri. A fronte di questa incapacità, quindi, diventa quasi un imperativo categorico prendere opportune e semplici misure per ridurre la diffusione in carcere delle malattie sessualmente trasmissibili, tra le quali vi è appunto l'AIDS. A tal proposito, rimandando l'esame della diatriba sulla possibilità di distribuire preservativi ai detenuti come importante strategia di prevenzione (vedi paragrafo 3.3), risulta interessante volgere l'attenzione su un dibattito che va avanti da anni nel nostro Paese, quello relativo all'opportunità o meno di creare all'interno delle carceri le cosiddette "stanze dell'amore" o "stanze dell'affettività" che dir si voglia.

Nei Paesi dove tutto ciò è stato realizzato si è constatato che concedere al detenuto uno spazio ove possa avere un po' di intimità con la propria moglie o compagna/o abituale lontano dal controllo visivo del

105CERAUDO F., "La sessualità in carcere: aspetti ambientali, psicologici e comportamentali", in SOFRI A.-CERAUDO F., Ferri battuti, Pisa, ArchiMedia, 1999, p.72.

106GALLO E., "Il sesso recluso: un'indagine sulle carceri francesi", in Marginalità e

società, 1994 n. 27.

personale di custodia, oltre a rendere ovviamente il carcere più umano, sia stata anche una valida soluzione per arrestare l'escalation delle malattie infettive. Con i dovuti accorgimenti relativi alla distanza temporale, questo dato risulta da uno studio comparativo effettuato oltreoceano nel 1992, tra il sistema penitenziario americano e quello messicano; secondo tale studio nelle carceri messicane, ove venivano e vengono tuttora permesse le visite coniugali, le pratiche omosessuali, gli stupri e i tassi di incidenza di HIV risultavano infatti essere inferiori rispetto agli istituti americani108

.

Volgendo il nostro sguardo ad esperienze più vicine, sia nello spazio che nel tempo, ciò che si può constatare subito è che oggi in gran parte d'Europa esistono le "stanze dell'amore" e che il ritardo accumulato dall'Italia in tal senso comincia a farsi importante ed avvilente.

L'occasione per spezzare questa catena di puritanesimo pervasivo pare essersi però finalmente presentata. Dopo l'insuccesso nel 2012 dell'eccezione di incostituzionalità sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze in merito alle norme che inibiscono ai detenuti e alle loro famiglie di avere rapporti affettivi e sessuali109

, nel luglio scorso è stato presentato al Senato il disegno di legge n.1587, contenente "Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti". Il progetto prevede, oltre all'istituzione delle "stanze dell'amore", la

108Cfr. CLARK A.-MORGADO-A.I.-MOUNCE G.-OLIVERO J.M., "A comparative view of aids in prisons: Mexico and the United States", in

International Criminal Justice Review n.2, 1992, pp. 105-118.

109Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze, con ordinanza 23 maggio 2012 n. 1476, aveva sollevato il parere di incostituzionalità nei confronti del comma 2 dell’art. 18 O.P., il quale prevede la sorveglianza a vista degli incontri tra detenuti e famiglie da parte della Polizia Penitenziaria. Tale norma era ritenuta incostituzionale poichè rappresentava una disciplina che «impediva l'intimità dei

rapporti affettivi fra i componenti della famiglia fondata sul rapporto di coniugio o di convivenza stabile», imponendo l’astinenza sessuale, favorendo il ricorso a

pratiche masturbatorie o omosessuali, violando alcuni diritti garantiti dagli articoli 2,3,27,29,31,32 della Costituzione. La Corte Costituzionale, con sentenza 11 dicembre 2012 n. 301, ha dichiarato la questione inammissibile.

possibilità di avvalersi di permessi premio di 15 giorni ogni semestre di pena110

, nonché l'opportunità di incontrare i propri familiari mezza giornata all'aria aperta una volta ogni mese111

.

Ricordando che agevolare questi contatti con l'esterno non solo può contrastare la diffusione dell'HIV e delle altre malattie sessualmente trasmissibili ma può anche avere effetti benefici per un reinserimento futuro del detenuto, non resta che coltivare la speranza di un atto di responsabilità della nostra classe politica, affinché il sesso non sia più bandito dalle carceri, affinché «la benigna idea di riconoscere che i detenuti, e i liberi loro legati, hanno un sesso, non metta più in rilievo lo scandalo della gabbia corporale»112

.

2.2. Consumo di stupefacenti

Una delle categorie più rappresentate in carcere è stata da sempre quella dei tossicodipendenti, per i quali l'AIDS rappresenta una causa rilevante di morbidità e mortalità.

Nonostante oggi l'assunzione di droghe per via endovenosa sia in netta diminuzione e la tossicodipendenza non rappresenti più il principale fattore di rischio della diffusione dell'HIV, in ambito penitenziario i casi di contagio sono dovuti perlopiù allo scambio di siringhe infette

110Art.3 DDL n. 1587: "All'articolo 30 ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, e

successive modificazioni, è aggiunto, in fine, il seguente comma: «8-bis. Ai condannati che hanno tenuto regolare condotta ai sensi del comma 8 e abbiano dato prova di partecipare all'opera di reinserimento sociale e familiare, il magistrato di sorveglianza può concedere, oltre ai permessi di cui al comma 1, un ulteriore permesso, della durata non superiore a quindici giorni per ogni semestre di carcerazione, da trascorrere con il coniuge, con il convivente o con il familiare»".

111Art.2 DDL n. 1587: "Dopo l'articolo 28 della legge 26 luglio 1975, n. 354, è

inserito il seguente: «Art. 28 bis (Incontri con la famiglia) 1. I detenuti e gli internati hanno diritto a trascorrere mezza giornata al mese con la famiglia, in apposite aree presso le case di reclusione»".

112SOFRI A., "Le braci del sesso in carcere", in SOFRI A.-CERAUDO F., op.cit., p.115.

tra i detenuti. L'ingresso in carcere, infatti, non segna sempre l'interruzione del consumo di droga e non è infrequente che vi siano detenuti che continuino o addirittura inizino a farne uso durante il periodo di detenzione. Oltre al rischio derivante dall'assunzione degli stupefacenti, il tossicodipendente è poi un individuo generalmente difficile da gestire, con evidenti problemi psicosociali ed ambientali, per cui devastanti possono essere gli effetti che derivano dall'immissione di tali persone all'interno del circuito penitenziario. A differenza della sessualità, però, per quanto riguarda il trattamento dei detenuti tossicodipendenti e il problema del consumo di droga in carcere non ha mai operato il meccanismo della "negazione", ma generalmente si è sempre stati consapevoli dell'impossibilità di poter sostenere tutti i compiti preventivi ed assistenziali imposti dall'ingresso in carcere di questa categoria di detenuti. In virtù di questa consapevolezza, in Italia si è cercato, fin dal 1975, di abbassare il numero di tossicodipendenti in carcere; per raggiungere lo scopo si sono succeduti nel tempo numerosi cambiamenti per ciò che concerne il trattamento del consumatore di stupefacenti, il sistema normativo di individuazione delle sostanze e gli interventi pubblici di prevenzione del consumo.

Si dimostra estremamente utile operare un breve excursus della normativa volta ad affrontare il fenomeno droga, dato che quest'ultimo non è stato solo rilevante per il cambiamento dell'assetto carcerario, ma ha anche contribuito in molte occasioni a rendere estremamente complicato garantire adeguati standard di salute all'interno dell'istituzione.

Tralasciando le leggi precedenti al 1975, che avevano trattato il consumo di droga come un problema esclusivamente criminale, la ricostruzione storica del trattamento legale del fenomeno in questione

può cominciare con la legge 675/1975113

, che rappresentò al tempo un importante elemento di novità. Tale legge, a differenza del passato, non equiparava più il consumatore allo spacciatore, ma, considerando il primo un soggetto malato e socialmente debole, introduceva una speciale causa di non punibilità basata su due elementi: uno, soggettivo, rappresentato dall’uso personale non terapeutico, l’altro oggettivo, riguardante la "modica quantità" di sostanza detenuta, stabilita comunque dal giudice in via del tutto discrezionale. Ciò rifletteva la volontà di rendere le carceri maggiormente impermeabili ai tossicodipendenti, poiché in presenza di tali scriminanti essi venivano sottoposti a ricovero ospedaliero o a cure ambulatoriali o domiciliari.

Il supposto permissivismo della legge, il conseguente incremento della tossicodipendenza e l'assenza di utili strumenti di prevenzione sociale e di riabilitazione individuale causarono però il fallimento della stessa. Con la successiva legge Jervolino-Vassalli114

vennero apportati alla legge precedente numerosi cambiamenti, i quali resero necessario riordinare l'intera disciplina con il Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti adottato con D.P.R. 309/1990115.

Passando ad un'impostazione marcatamente repressiva, le principali innovazioni furono:

• L'abolizione dell'elemento oggettivo della "modica quantità" e l'introduzione del criterio della "dose media giornaliera" (fissato tramite apposito decreto ministeriale), che serviva a

113Legge 22 dicembre 1975 n. 685, "Disciplina degli stupefacenti e sostanze

psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza", in Gazzetta Ufficiale 30 dicembre 1975 n. 342.

114Legge 26 giugno 1990 n. 162, "Aggiornamento, modifiche ed integrazioni della

legge 22 dicembre 1975, n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza", in Gazzetta Ufficiale 26 giugno 1990 n. 147.

115D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, "Testo unico delle leggi in materia di disciplina

degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza", in Gazzetta Ufficiale 31 ottobre 1990 n. 255.

stabilire la punizione per il consumo personale di qualsiasi tipo di droga, sia leggera che pesante. Il possesso di una quantità inferiore alla "dose media giornaliera" faceva scattare sanzioni solo amministrative, che diventavano penali qualora le quantità fossero superiori alla soglia.

• La previsione di sanzioni penali in caso di rifiuto o