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Rappresento nel campo vitivinicolo una fetta di produttori che hanno pensato di associarsi ed esprimere un concetto diverso dal convenzio- nale per operare nella vitivinicoltura. Siamo nati circa 10 anni fa e rappresentiamo a livello europeo circa 1500 aziende. Siamo convinti di dover esprimere l’identità

Per maggiori informazioni sul Consorzio Viniveri, si veda anche l’allegato 8.

di un territorio, l’unicità dei sapori e l’irripetibilità del prodotto stesso. Questi sono tre elementi essenziali che ci aiutano a comunicare il prezzo, il valore e l’informa- zione che diamo spendendo direttamente la nostra faccia. Si è formato un nutrito gruppo di clienti che, con orgoglio ma senza presunzione, possiamo dire coprono una larga quota delle nostre vendite. Possiamo sostenere che questo metodo di produzione funziona anche in altre parti di Europa e del mondo. Prima si parlava della possibilità di replicare i prodotti in altri luoghi, noi pensiamo che è sì possibile trapiantare una pianta in altri territori, ma per l’appunto è impossibile trapianta- re il terroir. Inoltre il nostro sistema prevede il non intervento in vigna, attraverso metodi biologici anche piuttosto estremi. Cerchiamo di stare attenti a mantenere la biodiversità che a noi interessa in particolar modo. Il nostro obiettivo è fortemente concentrato nel mantenere l’identità e quelle biodiversità che sostengono la vita e insieme determinano un marketing autonomo. Rileviamo che oggi l’acquirente più affezionato sia proprio quello che crede in ciò che facciamo senza tante certifica- zioni e bollini, sebbene molte delle aziende affiliate siano certificate. Ma questo lo facciamo perché crediamo veramente nella responsabilità sociale, che ci serve per creare un sistema interno in cui operare.

Eugenio Pomarici - Università degli Studi di Napoli Federico II

Dunque, abbiamo la testimonianza per cui la sensibilità del pubblico si ri- sveglia quando riceve un messaggio credibile. Abbiamo ora una mezz’ora per fare un secondo giro di tavolo. Inviterei quindi tutti i partecipanti alla tavola rotonda a commentare quanto emerso finora.

Stefano Vaccari – Ministero delle Politiche agricole, alimentari e

forestali

La discussione è stata veramente ricchissima di contenuti. Un dato emerge, e per noi, come Ministero, è anche piuttosto importante: è difficile trovare una regola comune, ognuno interpreta a livello aziendale (e non di territorio) un concetto di so- stenibilità. Le esperienze raccontate sono molto diverse. Ognuno estremizza alcuni aspetti della sostenibilità, perché c’è una consapevolezza maggiore, una visione e un’ideale diverso a seconda dei singoli territori e delle strategie di comunicazione. Come spiegato dagli altri relatori, infatti, un sistema di qualità nazionale non sarà

facile da trovare, perché dovrebbe necessariamente essere portato al minimo co- mun denominatore in modo da innalzare il livello complessivo, senza tuttavia sbar- rare la strada a coloro che vogliono spingersi più in là. Se volete è così anche per l’esperienza del vino biologico: c’è qualcuno che dice che bisogna andare già oltre il vino biologico perché comunque nel vino biologico un po’ di solfiti ci sono, ecc. Ora, la cosa molto importante che emerge è che chi ha consapevolezza imprenditoriale della sostenibilità e chi ne ha fatto un modello di sviluppo per la propria impresa è stato vincente. È un modello di successo imprenditoriale. Come è stato detto, la so- stenibilità è un modello organizzativo aziendale e rientra pienamente in tutti quegli obiettivi di massimizzazione del profitto evidenziati prima da Marangon. È inoltre un modello ideale, nel senso che proietta la visione dell’imprenditore e quello che lui vuole comunicare della propria bottiglia di vino. Noi siamo il Paese della comu- nicazione del vino, la corazzata mondiale dell’esportazione del vino e non parliamo solamente di piccoli imprenditori che stanno facendo dei tentativi; una bottiglia su quattro esportata nel mondo è italiana. Quindi l’esportazione nel mondo siamo noi. Questo va detto con orgoglio, perché il nostro dibattere sul modello di sostenibilità è il dibattere dei primi della classe, sono esperienze su cui secondo me gli altri stanno imparando. Allora tutti questi segnali necessitano di una normazione? Ne- cessitano di un intervento pubblico? Sono domande molto impegnative. Lo abbiamo visto in questi giorni anche con l’esperienza dell’articolo 62, cioè la norma con cui tutti i contratti di cessione di prodotti agricoli e alimentari devono essere messi per iscritto. Una rivoluzione notevole. Ebbene, questa norma è stata fatta nel pieno di un dibattito comunitario sulla necessità di dire: le pratiche sleali nel commercio vanno regolate tra gli operatori oppure deve esserci qualcuno dall’alto che pone una regola (es. l’Unione europea, lo Stato, ecc.)? Stesso dibattito sulla sostenibilità: è un modello volontario in cui le parti trovano il loro punto di equilibrio oppure c’è bisogno che lo Stato dia una definizione di sostenibilità? Questo tema è molto com- plesso e credo che al momento sia altrettanto difficile fare in modo che lo Stato dia una propria versione. Dunque facciamo crescere le esperienze, attendiamo i primi della classe e cerchiamo di fare in modo che s’innalzi complessivamente il livello della consapevolezza degli imprenditori.

Eugenio Pomarici - Università degli Studi di Napoli Federico II

Il tema è molto vasto e bisognerà occuparsene. Nel passare la parola a Et- tore Capri, vorrei porgli una domanda specifica. Chi si interessa alle questioni della

sostenibilità ha un’idea abbastanza chiara di cosa sia la certificazione biologica, come si ottiene, qual è la procedura, ecc. Ma una eventuale certificazione di soste- nibilità che modello organizzativo dovrebbe avere? È più o meno complessa di una certificazione biologica? Segue un modello concettuale simile o sarebbe una cosa intrinsecamente diversa?