• Non ci sono risultati.

Sul giolittismo e l’impresa di Tripoli

Nel documento Mario Borsa: biografia di un giornalista (pagine 73-86)

CAPITOLO II L’ESPERIENZA AL “SECOLO”

2.4 Sul giolittismo e l’impresa di Tripoli

Il 1911 non poteva aprirsi sotto migliori auspici. Gli anni precedenti erano stati floridi per l’Italia: si erano ottenute le libertà di stampa, la difesa dei diritti dei lavoratori e il diritto allo sciopero; in pratica si era attuato il programma di base del socialismo che si riassumeva nella

330

Mario Borsa, Memorie di un redivivo, cit., pp.360–361. 331

Ivi, p.361. 332

Cfr. infra cap.3. 333

libertà di organizzazione, nel limite alle ore lavorative ed il salario minimo. Il cinquantenario dell’Unità era stato quindi accolto dal Secolo rilevando i molti progressi compiuti dall’Italia nella sua breve storia, attraverso i corsivi di molti autori stranieri invitati a commentare il grado di maturazione e di progresso raggiunto nella Penisola, come ad esempio Bolton King e George Clemenceau334. Salvo alcuni spunti polemici miranti a rilevare l’eccesso di patriottismo dovuto alla “malattia epidemica del cinquantenario”335, c’erano state una generale soddisfazione per ciò che si era fatto e altrettanto positive aspettative sul “da farsi”. Dopo l’opposizione al “lungo ministero”, i radicali, rientrati al governo con Luzzatti, si apprestavano a tornare ad appoggiare Giolitti candidatosi a sostituirlo al potere con un programma dal carattere inequivocabilmente progressista. I due punti principali su cui si basava il suo impegno per la legislatura erano il suffragio universale – storica rivendicazione radicale, che avrebbe permesso alle masse la vera partecipazione alle scelte dello Stato – ed il monopolio statale sulle assicurazioni della vita – da cui sarebbero scaturite le risorse per finanziare la Cassa per la vecchiaia ed invalidità dei lavoratori, altro snodo importantissimo per i radicali nel ‘900 –. “Il Secolo” quindi sostenne vivacemente il suffragio insieme al monopolio delle assicurazioni come provvedimenti fondamentali verso la democratizzazione, presentandoli non solo per l’importanza in sé, quanto per il fatto che rappresentavano il fulcro, il contenuto, del nuovo orientamento che Giolitti intendeva perseguire, confermato anche nel metodo, dall’aver voluto comporre un ministero politicamente molto più omogeneo e avanzato dei precedenti336. Eppure, da subito si rilevò nel giornale una certa discordanza, data dallo scarto tra la fiducia incondizionata mostrata da Pantano, il quale ad esempio, quando il progetto sul Monopolio statale delle assicurazioni venne approvato vide compiersi “l’aperta affermazione di un indirizzo di governo politico ed economico sulla direttiva della democrazia coronata da un clamoroso ed indiscutibile successo il cui valore non può essere menomato da qualsiasi critica”337 e lo scetticismo di un gruppo di collaboratori “più avvertiti”, che senza dissentire dalle evidenti intenzioni di spostamento a sinistra del nuovo gabinetto, mettevano in guardia verso i pericoli a cui un ministerialismo troppo appiattito avrebbe potuto portare. Molti articolisti ricordavano la critica alle forme di mantenimento del potere messe in atto da Giolitti. Essi entravano così con una precisa posizione nel dibattito allora in corso

334

George Clemenceau, La grande vittoria del diritto di voto, in «Il Secolo» 23 aprile 1911; Bolton King, Il cammino

fatto e da fare, in «Il Secolo» 29 marzo 1911. 335

Pio Schinetti, Democrazia, spagnolismo e altre cose, in «Il Secolo» 6 giugno 1911. 336

Giovanni Orsina, Senza chiesa né classe. Il partito radicale nell’età giolittiana, Roma, Carocci editore, 1998, p.259; Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VII, cit., pp.304–306.

337

Edoardo Pantano, Riepilogando, in «Il Secolo» 12 maggio 1911; Id., Monopolio sulle assicurazioni, che descriveva il provvedimento come un nuovo passo avanti nelle previdenze sociali: “ogni nuovo solco aperto sulla via delle previdenze sociali, accentuando l’orientamento dello Stato verso determinati orizzonti e maturando certi problemi nella coscienza pubblica, ne prepara moralmente l’avvento”, in «Il Secolo» 9 giugno 1911; Id., Verso la

delineazione dei partititi, in cui si continuava a parlare del governo Giolitti come di “una marcia continua, graduale

sull’antiparlamentarismo suscitato dallo statista:

“Non mi sembra tanto difficile, come tutti dicono, penetrare il segreto dell’autorità e della potenza che l’on. Giolitti esercita sul Parlamento – scriveva Schinetti – Mediante il Parlamento Giolitti governa i deputati, mediante le prefetture i deputati governano le province. Questo è il sistema semplicissimo; il quale offre a ciascuna delle forze componenti una vantaggiosa libertà d’azione nell’ambito dei propri collegi [e con cui…] alla Camera Giolitti si può permettere un’ampia varietà di pensieri e di atteggiamenti”338.

Al di là dell’uomo a capo del governo, che tutto sommato risultava “migliore della sua stessa maggioranza”339, la critica al parlamentarismo fatta dai “secolisti” ricadeva sulla mancanza di partititi chiaramente delineati340. Non poteva esserci, a loro avviso, un primo ministro che non fosse espressione di un partito, come non poteva avere forza un primo ministro senza un preciso programma da svolgere in Parlamento341. Si avvertiva di coseguenza chiaramente la mancanza di una organizzazione in grado di tutelare gli interessi dei liberali nel Paese:

“Che cosa sono e che cosa vogliono le classi medie? – si domandava sempre Schinetti – la legislazione italiana ha una fioritura speciale in favore della “piccola proprietà, piccolo commercio, piccola industria”, [c’è] una tendenza a favorire la piccola borghesia di terra o di capitali mantenendole artificialmente per considerazioni di ordine opportunistico. Essendo le classi medie appartenenti a tutti i partiti ed essendo composte da troppe unità individualizzate, distinte, in antagonismo di interessi immediati per potere vedere l’interesse comune, collettivo, superiore e […] dimostrarsi quasi dappertutto impotenti ad una organizzazione duratura, disciplinata, con mire larghe e sicura”342.

Peraltro, dopo la mancata partecipazione al governo di Bissolati, che aveva acceso molte speranze nel giornale343, spingendolo a sostenere il deputato di Cremona anche mediante una campagna stampa per la raccolta dei pareri in campo socialista rispetto alla sua eventuale accettazione di un ministero344, questi redattori subirono un senso di patente delusione perché sembrava loro che la democrazia avesse perso la sua occasione. I redattori si sentirono di appellarsi direttamente al fronte socialista, pur di ricordandogli le proprie responsabilità: dato che la temuta concentrazione

338

Pio Schinetti, L’uomo del momento, in «Il Secolo» 21 maggio 1911. 339

Ibidem. 340

Questione di temperamento?, in «Il Secolo» 28 marzo 1911: “Da molti era giudicata necessaria una vigorosa azione democratica di governo; ma [tale azione era] difficile e quasi impensabile dacché erano venute a mancare in Parlamento quelle forze stimolatrici di riforma che sono le schiette divisioni dei partiti politici [… Dalla] discordia dei partiti si poteva sperare la trasformazione dell’ambiente parlamentare: condizione preliminare ad ogni tentativo di schietta riforma sociale”.

341

Mario Borsa, Effetti e insegnamenti di una vittoria, in «Il Secolo» 12 agosto 1911. 342

Ibidem. 343

Mario Borsa, Il “vero fatto storico”, in «Il Secolo» 26 marzo 1911. Borsa incoraggiò Bissolati quando Giolitti gli propose di partecipare al governo dichiarando sulla sua entrata in un Gabinetto democratico, che l’incontro della Monarchia col socialismo era in fondo “question[e]… elegant[e]”, ma la questione vera, “nella sua disadorna realtà era una sola: il suffragio universale e ciò che ne poteva seguire. In questo fatto storico ciò che conta[va] e d[oveva] contare [era] il programma: ciò che si deciderà di fare, ciò che si potrà fare, ciò che si farà”.

344

A Bissolati era stato offerto un nuovo Gabinetto: il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, che egli in un primo momento si mostrò propenso ad accettare, ma successivamente rifiutò adducendo motivi psicologici che lo avrebbero reso inadatto ad una carica ministeriale. In realtà temeva di spaccare il partito, che giudicava non ancora maturo per la partecipazione al governo.

capitalistica non si era verificata e che – appunto – i ceti borghesi vivevano e si moltiplicavano, i socialisti erano richiamati al compito di prendere parte attiva al governo portando fino al pieno compimento la scelta di difendere le classi proletarie con seri tentativi di riforma democratica. In sostanza, essi invitarono esplicitamente il vecchio partito a liberarsi delle reticenze passate per affrontare la situazione del momento con concretezza. Se per Giolitti Marx era stato messo in soffitta, per i “secolisti” la sua dottrina era morta del tutto:

“[il socialista] come tanti altri partiti è afflitto dalla disgrazia di avere in casa dei morti che non sa come seppellire. Cadaveri di dottrine fallite, di superbie smesse, di illusioni spente. Ammorbano l’aria. Imbarazzano i vivi. Obbligano di parlare a mezza voce. Ma per un certo rispetto, nessuno si decide a buttarli via deliberatamente. A quando la liberazione?”345.

“Il Secolo” dunque, pure entro un quadro di aspettative positive, lamentava all’inizio del 1911 i difetti di un parlamentarismo attuato da gruppi incerti e mutevoli, ancora incapaci di realizzare grandi riforme e altrettanto inabili ad esercitare, con piena sicurezza, le potenzialità della forza democratica. L’atto di accusa più forte fu portato avanti ancora una volta da Schinetti in un articolo che tentava l’analisi retrospettiva del comportamento della democrazia negli ultimi dieci anni, traendone un bilancio affatto positivo:

“[L’esperienza aperta dal ’98] avrebbe dovuto portare tutta l’Estrema sinistra ad un indirizzo logico ed inflessibile di politica riformista […] la democrazia non disse perché non sentì e non vide che la sua ora era già venuta, che molto poteva già pretendere, che volendo essa poteva già considerarsi effettivamente al Governo! […] Li avevamo vinti i reazionari […] Stava a noi promuovere un’audacia diversa, inaugurare davvero una vita nuova nel Parlamento e nel Paese proseguire un ideale, sia pure mestamente, ma con chiarezza d’intenti e con costanza immutabile: a noi, cioè alle opinioni e alle forze vive della democrazia: a quelle che avevano oppugnato il crispismo, superato la negazione del diritto proletario, svergognato l’opportunismo dei conservatori, dissipato le torbide minacce degli ultimi anni del regno di Umberto. Noi fallimmo in gran parte a noi stessi. E in ciò è anche il segreto delle situazioni sempre più strane e difficili che si vengono prospettando alla nostra vita politica. Siamo tutti superati dai tempi. […] Poi certamente si dirà la colpa è di tutti, fuorché di noi stessi”346.

I commentatori più decisi del foglio, in sostanza, contestavano l’immobilismo del partito socialista dato dall’incapacità di assumere una chiara definizione democratico–riformista347, e – a differenza del proprio direttore – rispetto alla propria area, quella dei radicali e giolittiani, sollecitavano la formazione di un partito delle classi medie che potesse dar corpo alla chiarificazione della vita parlamentare rivitalizzando così le sorti del partito e quella di una istituzione che nella sua estrema divisione era lasciata all’iniziativa del Capo del governo.

345

Pio Schinetti, L’uomo del momento, in «Il Secolo» 21 maggio 1911. 346

Pio Schinetti, Storia di dieci anni, in «Il Secolo» 16 agosto 1911. 347

Mario Borsa, Il “vero fatto storico”, in «Il Secolo» 26 marzo 1911. Il richiamo di Borsa era espressamente alle democrazie europee, infatti scriveva: “Oggi, al pari di quello inglese e francese, il liberalismo italiano per non confondersi col conservatorismo, per non morire, per avere anzi ancora una ragione d’essere dovrebbe iniziare l’altra sua missione: dovrebbe fare”.

A disarticolare ulteriormente le posizioni della democrazia e del giornale intervenne la guerra di Libia che, invece di un libero ed ordinato svolgimento della vita economica e civile, cui avrebbe dovuto portare l’opera giolittiana, condusse ad un’ondata di esaltazione nazionalistica, che coinvolse un po’ tutte le gradazioni politiche, e distrasse il Paese dall’intenso lavoro interno di cui aveva bisogno, spingendolo ad un’azione coloniale alla quale i giornalisti del Secolo si opposero con decisione, andando in contrasto persino con la direzione ed i propri rappresentati politici.

Del problema dell’emigrazione si parlava da molto tempo, si trattava di un argomento che si affacciava a ritmo obbligato nelle discussioni politiche, essendo un fenomeno presente in modo continuato in Italia da fine secolo. In linea generale i radicali si erano sempre mostrati favorevoli, per ragioni economiche, ad un certo flusso di migrazione all’estero, sottolineando però, come non dovesse tralasciarsi la così detta colonizzazione interna, ovvero l’impegno a migliorare, in particolare, le condizioni del Meridione348. Ma, nel 1911, com’è noto, cominciò sulla stampa un forte movimento a favore della colonizzazione della Libia, che portò in breve tempo la maggioranza del Paese a sostenere l’impresa di conquista della “terza sponda”: molti giornalisti si abbandonarono alla retorica coloniale, da Bevione, che su “La Stampa” magnificava la fertilità di quella terra raffigurandola come un Eden, a Gabriele D’Annunzio che sul “Corriere” sublimava l’animo nazionalista degli italiani attraverso la sua poetica349; così nell’arco di un paio di mesi, tra l’agosto e il settembre, si articolò un discorso pubblico basato più su elementi irrazionali che sulla discussione di dati reali legati alla conquista350. Si propose la missione tripolina come un’azione necessaria all’Italia per procurarsi una colonia di popolamento da dove veder rinascere il prestigio internazionale del Paese, in seguito ad una conquista vittoriosa e all’incivilimento portato sulle coste del Mediterraneo sulla scia delle gesta della Roma imperiale. In sostanza, patriottismo e retorica si unirono a elementi di xenofobia e ricordi della Roma antica, rendendo l’iniziativa molto popolare presso l’opinione pubblica. Per i giornali favorevoli, lasciarsi andare all’infatuazione coloniale significò un incremento di tiratura a cui non seppero rinunciare nemmeno i quotidiani maggiori351. Mentre per i pochi fogli che rimasero contrari, attenersi ad una linea di coerenza e di ragionevolezza, volle dire rimanere isolati e mantenere con difficoltà il

348

Edoardo Pantano, Il grande malato, nel Mezzogiorno, pel Mezzogiorno, in «Il Secolo» 3 settembre 1911. 349

Ottavio Bariè, Luigi Albertini, cit., p,139. 350

Benedetto Croce, Storia d’Italia, cit., p.287. 351

Il caso del Corriere della Sera è ricordato per aver ceduto all’ubriacatura tripolina nonostante la sua compassata serietà. Lo stesso Luigi Albertini confesserà nelle Memorie di aver fatto come tutti della retorica. Albertini Luigi,

Vent’anni di politica, Bologna, Zanichelli, 1953, vol.II, p.123. Del resto, storiograficamente è accettata l’idea che

buona parte degli italiani, non certo imperialisti, aderirono alla guerra per il clima di esaltazione nazionalistica che i giornali seppero generare. Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia 1860–1922: Tripoli bel suol d'amore (Dal fascismo

a Gheddafi), Roma–Bari: Laterza, 1988, pp.170 sgg.; Giampiero Carocci, Giolitti e l’età giolittiana, Einaudi, Torino

proprio seguito: “Il Secolo” fu indubbiamente uno di questi352.

Quando si iniziò a discutere apertamente dell’impresa tripolina, il giornale espresse il suo netto dissenso attraverso un articolo firmato da Pio Schinetti, nel quale la possibilità di espandersi era definita una “follia”, un gesto che non avrebbe fatto altro che estendere il problema del Mezzogiorno, in cui si pativa già “la miseranda impotenza italiana”353 alla risoluzione delle problematiche interne. Non si poteva celebrare la ricchezza della Cirenaica quando ancora c’era da portare alla luce quella del nostro territorio: “Ecco la follia delle nostre classi dirigenti”. A questo intervento seguì un articolo di Borsa – a cui rimarranno intonati la maggior parte dei contributi successivi – in cui si smontavano una ad una le ragioni della “fatalità storica”354. Facendo leva sul ragionamento, Borsa cercò di analizzare le presunte motivazioni dell’infatuazione tripolina e tentò di contrapporvi argomentazioni valide a dimostrare l’insussistenza di un’avventura di conquista nella regione mediterranea. Dal punto di vista diplomatico, cioè del riconoscimento dei nostri interessi, sollevati dalla vertenza marocchina apertasi tra Francia e Germania (che peraltro egli aveva seguito fin dalla Conferenza spagnola di Algeciras), non c’erano da temere cambiamenti a breve termine:

“Compensi! Compensi! Logicamente voi vi aspettereste che Italia dovesse domandare compensi alla Francia e alla Germania. Niente affatto. Francia e Germania si stanno dividendo un pezzo d’Africa – dicono – a nostro danno e noi esigiamo un compenso… dalla Turchia! […] Ma si osserva, se non andassimo noi, andrebbe qualcun altro. Chi? Noi abbiamo una convenzione con la Francia e con l’Inghilterra per cui questi paesi si impegnano a non toccare Tripoli e a lasciarla a nostra disposizione per il momento che crederemo più opportuno […] la Germania non è una potenza mediterranea […] e prima che arrivi dal Congo a Tripoli attraversando tutto il continente nero e facendo passare il suo corpo d’operazione per il Sahara ci vorrà un po’ di tempo”355.

In campo internazionale inoltre, non sarebbe apparsa giustificata una subitanea impresa militare perché mancavano del tutto i presupposti:

“Andare ora a Tripoli senza un pretesto, senza un incidente: sbarcare un corpo d’esercito in

352

Oltre al Secolo, solo una parte dei socialisti, tra cui Salvemini, e qualche intellettuale come Mosca o Einaudi, rimasero fuori dal coro a presagire la povertà della Tripolitania e l’enorme spesa che la sua conquista avrebbe comportato, ma furono inascoltati. Paradossalmente, tra questi ci fu “La Tribuna”, il giornale di Giolitti, che intervenne a placare più volte gli animi cercando di richiamare al senso di realtà. “Lo statista voleva così premunirsi da ogni sorpresa” sostiene Marcella Pincherle. Id., La preparazione dell’opinione pubblica all’impresa di Libia, in “Rassegna storica del Risorgimento”, a.56, fasc. 3, luglio–settembre 1969, pp.450 e sgg.

353

Pro e contro l’impresa di Tripoli. Polemiche di giornali e smentite ufficiose, in «Il Secolo» 9 settembre 1911. 354

Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti, 1967, pp.234 sgg. 355

Mario Borsa, Democrazia e Imperialismo, in «Il Secolo» 13 settembre 1911. Gli stessi punti sono riproposti da Schinetti in Il costo dell’impresa, in «Il Secolo» 19 settembre 1911: “Un conto è fare della politica coloniale, un altro è fare dell’imperialismo. Il venire ad un accordo con la Turchia perché essa ci faccia in Tripolitania la situazione della nazione favorita: l’avviare colà i nostri capitali – se ce ne sono – ed i nostri lavoratori – se ci vogliono andare –; l’italianizzare la Tripolitania – se proprio ne vale la spesa – gradualmente e pacificamente: l’occuparla anche il giorno che ci fossero delle circostanze plausibili e non fantastiche. Tutto questo sarebbe fare della politica coloniale e discutibile, buona o cattiva, ma contro la quale la democrazia non potrebbe sollevare alcuna obiezione di massima. L’ipotetica avventura tripolina, invece, come la farnetichiamo in questi giorni i nostri nazionalisti sarebbe un’avventura di carattere nettamente imperialista e militarista; sarebbe una violenza che non troverebbe alcuna giustificazione nel codice internazionale; sarebbe un gesto teatrale, una mostra inutile e pericolosa di forza materiale”.

Cirenaica senza nemmeno un articolo italofobo di El Marsad: portar via di punto in bianco alla Turchia sarebbe un atto senza precedenti nella storia coloniale […]”356

Anche passando ad analizzare una possibile soluzione di penetrazione economica, le condizioni dell’Italia sconsigliavano investimenti da sottrarre ad una cauta crescita interna:

“C’è una parte che si mostra meno bellicosa e chiede invece dell’occupazione militare l’occupazione pacifica […] E come? Diavolo, pagheremo. L’Italia è così ricca. Noi abbiamo tanti capitali che non sappiamo come investire! Che volete? Andare a impiegarli nel Mezzogiorno? Fare delle strade in Calabria e degli acquedotti in Puglia? […] Questa sarebbe prosaica politica del piede di casa!” 357

Era evidente, pertanto, che l’impresa, non trovando giustificazioni di sorta nei fattori internazionali ed economico–commerciali, muovesse da motivazioni di ricerca di prestigio e ragioni imperialistiche che non potevano essere avallate: “[la guerra la voleva] soltanto il nazionalismo: una malattia che cova[va] nello spirito italiano da un po’ di anni”. Se lo Stato avesse voluto tentare la via dell’espansione i “secolisti” consigliavano piuttosto di avviare una penetrazione pacifica, graduale e commisurata alle reali forze interessate agli investimenti – i capitali se ci sono e i lavoratori se ci vogliono andare358 – Infine essi chiedvano che qualsiasi decisione fosse meditata, ovvero non mossa da un’ondata di irrazionalismo, come era farneticamente invocata in quel momento, bensì decisa sulla scorta dalla ponderatezza, la sola che avrebbe portato ad un seria politica coloniale. Secondo la loro opinione, infatti, al contrario di quanto prospettato dal nazionalismo, l’Italia aveva soprattutto bisogno di ideali che nascessero dalla prosaica quotidianità359.

“[Tutti coloro che per la loro professione portavano modesti contributi alla formazione delle nostre grandi strutture sociali e morali] – scrivevano – erano i soli e veri imperialisti, che prepara[vano] quella più «grande Italia» che un giorno [sarebbe uscita] non dalla retorica e dall’infatuazione, non da un’azione intempestiva e precipitata, ma dalle forze lentamente e sapientemente conquistate da tutto il suo organismo”360.

La contestazione verso la formazione e le teorie dei nazionalisti, era palese:

Nel documento Mario Borsa: biografia di un giornalista (pagine 73-86)