• Non ci sono risultati.

Dalla grande alla piccola Inghilterra

Nel documento Mario Borsa: biografia di un giornalista (pagine 48-64)

CAPITOLO II L’ESPERIENZA AL “SECOLO”

2.2 Dalla grande alla piccola Inghilterra

Borsa nel frattempo – come anticipato – era stato inviato all’estero con l’incarico di corrispondente fisso da Londra. La destinazione gli fu probabilmente assegnata per offrigli maggiori opportunità di crescita, dal momento che in redazione c’era poco spazio, ma anche per evitare che decidesse di lasciare il giornale per il “Corriere” di Torelli Viollier, da cui aveva ricevuto una lusinghiera offerta per ricoprire il medesimo ufficio, che verrà invece affidato di lì a

224

Guglielmo Ferrero, La nuova magna charta italica, in «Il Secolo» 10–11 febbraio 1899. Ferrero aggiungeva che impedendo la pubblicazione dei resoconti nei processi per diffamazione si sarebbero protetti per legge tutte le malversazioni della politica e non si sarebbe potuto più avere un nuovo scandalo della Banca Romana. “Giudic[asse] il pubblico da questo fatto quale arma il governo v[oleva] dare ai potenti”.

225

Contro la libertà, in «Il Secolo» 22–23 aprile 1899; La libertà di stampa abolita, in «Il Secolo» 24–25 aprile 1899. 226

La ragione dell’ostruzionismo, in «Il Secolo» 6–7 giugno 1899. 227

breve a Luigi Barzini e dopo di lui, nel 1900, a Pietro Croci228.

L’Inghilterra era considerata come la patria del liberalismo classico ed era anche il Paese che aveva dovuto affrontare per primo e in proporzioni sconosciute alle altre nazioni, le conseguenze provocate dal rapido sviluppo di una società industriale urbana. I Fabian Essays erano apparsi nel 1889 e negli anni seguenti Bernard Shaw e Sidney Webb avevano pubblicato una serie regolare di opuscoli su questioni sociali ed industriali; mentre nel 1893 si era costituito l’Indipendent Labour Party e già da qualche tempo un nuovo sindacalismo stava affrontando, con la serietà corrispondente all’avanzato grado di trasformazione economico–sociale del Paese, molti dei problemi che in Italia si stavano appena ponendo. Per Borsa, preoccupato dalla questione sociale ed interessato a misurarsi con il grado di maturazione delle altre società, questo nuovo trasferimento era una grande opportunità: non c’era che da apprendere dall’esempio del Regno Unito. Perciò, superato il dolore per il distacco dall’Italia in cui, ormai orfano, lasciava solo la sorella229, egli si offrì al suo “esilio volontario” carico delle aspettative positive di chi si recava come alla Mecca di tutte le idealità politiche, animato da una sorta di anglofilia preconcetta, che Bertacchi ci spiega come “l’avvicinamento impaziente di chi era mosso dall’intento di nutrirsi di sensi nuovi al contatto con una storia più fervida”230. Il suo intento era di “vedere, osservare, studiare”231, imparare presto a decifrare “Il Paese misterioso” che aveva dinnanzi per poterne cogliere le caratteristiche peculiari e rimandare nelle sue corrispondenze il senso di ciò che dall’estero si presentava di utile per l’accrescimento dell’Italia.

La prima tappa obbligata per un simile missione consisteva nell’accostarsi alla produzione intellettuale e culturale anglosassone; pertanto l’impegno maggiore di Borsa nei primi tempi di permanenza all’estero fu di sfruttare ogni occasione di studio e di approfondimento possibile: le sale di lettura del British Museum lo videro diventare un frequentatore assiduo, non mancò mai ai convegni che vi si organizzavano e fu sempre propenso a trovare il modo di conversare con gli interlocutori inglesi. Il compito di prendere dimestichezza con la nuova realtà, tuttavia, risultò ben presto più difficile e lungo del previsto232. L'isolamento, la conoscenza ancora imperfetta della

228

DFB, Proposta di assunzione firmata Torelli Viollier datata 5 giugno 1898. Molto probabilmente dopo averne fatto la conoscenza a Stoccolma, con una missiva in cui gli dichiarava la propria “sincera considerazione”, Torelli aveva offerto a Borsa un compenso mensile di 200 lire in oro per tenere la corrispondenza da Londra del Corriere della Sera. Secondo l’accordo il corrispondente avrebbe dovuto informare telegraficamente il giornale sugli argomenti di maggiore urgenza oltre ad inviare regolarmente almeno tre lettere al mese su argomento politico, letterario, artistico e mondano ed eventualmente rispondere all’interesse del pubblico con pezzi più estesi in caso di avvenimenti di grande importanza. La proposta coincide appieno con il ruolo che Borsa andrà a svolgere per “Il Secolo”.

229

Mario Borsa, La cascina sul Po, cit., pp.96 sgg; ARCHROM, Sez.V Impegno politico, fasc.3 Carceri, doc.2076 Lettere e telegrammi di amici, lettera di Mario Borsa datata 19 febbraio 1898.

230

Giovanni Bertacchi, Due parole di un lettore, cit., p.7. 231

Mario Borsa, Memorie di un redivivo, cit., p.170. 232

Ibidem; Fondazione Corriere della Sera, Archivio Storico, Carteggio giornalisti (da ora FCS), Fascicolo Mario Borsa, lettera a Giuseppe Giacosa datata 19 novembre 1898: “Frequento poca gente perché la vita ha troppe esigenze qui ed io ho troppi pochi quattrini. Passo il tempo dal British Museum al Club […] al teatro vado di rado – costa un

lingua e la diversità negli stili di vita resero il suo processo di adattamento molto lento e faticoso233. Un certo disorientamento si rifletteva anche nei primi articoli, i quali non trattarono d’altro che di piccolissimi rilievi come potevano essere la descrizione delle oziose domeniche delle famiglie inglesi o i racconti sulla varia attualità teatrale, sportiva e culturale registrata nella capitale. Il corrispondente si limitò probabilemnte a ritagliare degli scorci di ciò che andava osservando mentre ancora si dedicava allo studio, in un breve periodo di prova234, preparatorio al più serio confronto con le notizie che da tutto che avrebbe presto imparato a maneggiare.

La piazza di Londra era importantissima dal punto di vista giornalistico, forse anche più importante di Parigi, poiché lo stretto legame con i Dominions la rendeva il punto di riferimento su cui convergevano le notizie provenienti dall’India, dagli Stati Uniti, dal Medio Oriente. Il servizio del Secolo – coperto in precedenza da Paolo Valera – si faceva essenzialmente ancora per telegrafo. Di solito venivano inviate in Italia due brevi note volte al giorno, una al mattino prestissimo, per l’edizione di Milano e l’altra alla sera, per quella di provincia235. Oltre alle note di aggiornamento telegrafico, l’impegno del corrispondente estero consisteva nel produrre altrettanti editoriali mensili. Dovevano essere pezzi cospicui, frutto di studio o di riflessione tratta dai fatti d’attualità, contornati da una serie di articoletti minori, che potevano andare dai 5 ai 10, a seconda dell’nteresse degli avvenimenti in corso e dello spazio disponibile sul giornale. Soprattutto, dalla redazione si richiedeva “indipendenza, esattezza, sollecitudine e criterio” per ogni contributo inviato236. Gli spunti su cui cimentarsi non mancavano: alla fine di aprile era scoppiata la guerra fra gli Stati Uniti e la Spagna per il controllo di Cuba e in Italia se ne seguirono le fasi attraverso occhio del capo! – e del resto, ove si tolgano le riproduzioni di Shakespeare, non ce n’è uno che valga il nostro Fossati”.

233

Ivi, cit., p.175. Borsa, inizialmente, trovò il Paese urtante contro le abitudini, i sentimenti e la mentalità italiana; l'unica sua consolazione fu il cielo: basso e plumbeo, gli sembrava famigliare essendo abituato alle nebbie padane. Significativi in tal senso anche i primi racconti della permanenza all’estero fatti a Romussi appena rientrato dal carcere. “Sono senza più un parente, lontano dagli amici, che sono la mia famiglia. Isolato, tormentato dagli eventi di questo anno maledetto, in lotta con l’ambiente inglese così difficile, così chiuso, così insensato, non ho mai avuto un’ora di sole o di pace”. ARCHROM, Sez.V Impegno politico, fasc.3 Carceri, doc.2076 Lettere e telegrammi di amici, lettera di Mario Borsa datata 19 febbraio 1898.

234

Il riferimento è alla serie di contributi apparsi sotto la testata “Cronache londinesi”. I pezzi sono firmati con lo pseudonimo Restless, probabilmente perché il collaboratore – come detto – si trovava ancora in periodo di prova; ma, alla luce dello stile, dei temi trattati e del periodo di pubblicazione, gli articoli possono essere imputati a Borsa. 235

Mario Borsa, Memorie di un redivivo, cit., p.188; Id., Il castello dei giornalisti, Milano, Treves, 1925, p.21. 236

ARCHROM, Sez.VIII Cesare Cantù, fasc.VII, 2 Scritti vari, doc.3296 Comunicato. Norme imprescindibili per i corrispondenti del Secolo. Riteniamo che un breve stralcio possa dare il senso dell’accuratezza con cui era compilato il giornale: “Il corrispondente del Secolo deve avere come norme imprescindibili: 1) Indipendenza nel riferire le notizie. Non deve cedere né a pressioni, né ad amicizie, né ad influenze, né a sentimento di partito e riferire sempre e scrupolosamente la verità; 2) Esattezza nell’esporre i particolari dei fatti per non alterare la fisionomia degli avvenimenti, astenendosi dai commenti, che sono riservati alla redazione; 3) Sollecitudine nell’inviare le notizie perché sapendo adoperare a tempo la posta, e calcolando le ore di partenza e di arrivo, si può spesso risparmiare il telegrafo. La sollecitudine non deve essere a detrimento dell’esattezza. I fatti li volgiamo accertati con la massima scrupolosità […]; 4) Criterio nella scelta dei fatti, nel raccontarli, nell’abbondare fino all’esagerazione quando si tratta di un avvenimento importante e nel trascurare le inezie”. Ivi, Sez.IX Il Secolo, fasc.1 Il Giornale – la storia, doc.3332 lettera del redattore ai collaboratori del Secolo con elenco di regole di comportamento giornalistico e doc.3333 lettera del redattore capo ai colleghi con invito ad una maggiore serietà professionale entrambe datate 1895.

le informazioni ricavate dalla stampa londinese; sempre dall’osservatorio londinese si assistette al crescente interesse di tutte le Potenze verso il Celeste Impero dopo il conflitto Russo–Cinese del ‘94 e si poterono raccontare le guerre dei governi Unionisti nel Continente Africano, sia quella scampata con la Francia, per il possesso di Fashoda, sia quella a lungo disputata per il dominio sulle repubbliche dell’Orange e del Transvaal. All’estero, dunque, si respirava in pieno il clima bellicista ed imperialista tipico della seconda metà dell’Ottocento.

La prima grande prova da inviato, però, Borsa la ebbe con un servizio alquanto in contrasto coi tempi. Venne infatti incaricato di seguire l’importante conferenza internazionale convocata all’Aja dallo zar Nicola II per il mantenimento della pace ed il controllo sullo sviluppo progressivo degli armamenti. “Il Secolo”, convinto assertore che gli armamenti rappresentassero un terribile onere finanziario, che sviava il lavoro e il capitale dalle loro più naturali e produttive applicazioni, non esitò a mandarlo – dandogli grande risalto237 – a seguito dell’evento. Fin dai primi annunci, la proposta dello zar aveva ricevuto calorose accoglienze nell’opinione pubblica di quasi tutto il mondo238, ma aveva lasciato indifferenti ed ostili i governi, nei cui commenti si avvertiva un senso di scetticismo e di diffidenza, malcelato sotto espressioni di approvazione convenzionale. Borsa cercò dunque da principio di dissipare le facili ingenuità a cui uno scetticismo pregiudiziale poteva indurre: nessuno si aspettava che una pace eterna ed universale potesse scaturire dalla conferenza, si trattava comunque di un primo passo per migliorare la sicurezza tra gli Stati ed orientare le loro ricchezze verso finalità di cultura e di progresso economico239. Le tensioni internazionali, tuttavia, si rivelavano ben presto anche nei retroscena diplomatici degli incontri240, quindi il giovane inviato non poté fare a meno di sottolineare come “potesse darsi che le difficoltà, le opposizioni, le pressioni, le suggestioni e le previsioni [avessero] un’infausta vittoria su ciò che [era] proclamato in nome dell’interesse comune e del buon senso”; egli si sforzò comunque di chiarire gli argomenti oggetto del lavoro dei conferenzieri: il disarmo, l’umanizzazione della guerra, e – soprattutto – di mostrare le enormi potenzialità del progetto sull’arbitrato, che era il terzo e maggiore punto in discussione241.

237

Mario Borsa, Le ingenuità degli scettici, in «Il Secolo» 15–16 maggio 1899. Il giornale faceva seguire al suo primo articolo una nota redazionale in cui metteva in luce lo sforzo compiuto per seguire l’avvenimento e le doti dello scrittore inviato a riferirne: “Come i lettori vedono, Il Secolo, che non ha mai mancato anche in passato di mandare rappresentanti propri ovunque si preparavano o si compivano avvenimenti di grande importanza, ha provveduto in tempo per avere dall’Aja comunicazioni proprie direttissime. Il Signor Mario Borsa, di cui i lettori nostri hanno avuto occasione di apprezzare nelle sue lettere e telegrammi da Londra le rare doti di scrupoloso annotatore dei fatti e di sagace scrittore, ci manderà giornalmente notizie ed impressioni, di tutto quanto si potrà sapere delle discussioni e delle deliberazioni della Conferenza diplomatica e ci darà inoltre la fisionomia vera dell’ambiente e della città dove si sta per compiere uno dei principali avvenimenti del secolo”.

238

La crociata internazionale per la pace, in «Il Secolo» 25–26 aprile 1899. 239

Mario Borsa, Le ingenuità degli scettici, in «Il Secolo» 15–16 maggio 1899. 240

Mario Borsa, Un interessante retroscena diplomatico, in «Il Secolo» 17–18 maggio 1899. 241

La prima commissione, incaricata di occuparsi del disarmo e della tregua negli armamenti, si muoveva dal principio con prospettive molto sconfortanti: l’unico risultato che riuscì ad ottenere fu di proclamare che la

“Fissare le norme generali per una più estesa applicazione degli uffici dell’arbitrato – scriveva – potrà essere la più grande rivoluzione politica che sia stata fatta al mondo. Sarebbe il colpo di grazia dato al militarismo. La cessazione dell’assurda antinomia fra la morale privata e la pubblica […] vorrebbe dire liberare le civiltà dall’eredità barbara della guerra e fare dell’unione dei popoli per il bene comune il fine del nuovo diritto internazionale”242.

Date le questioni aperte in campo internazionale, si poteva facilmente prevedere che nessuna Potenza avrebbe mai acconsentito a sottoporre temi di politica estera ad un giudizio arbitrale obbligatorio: lo si era visto con il caso di Fashoda e sarebbe apparso ancora più evidente nella questione anglo–boera. Ciononostante, le maggiori aspettative del Secolo erano rivolte proprio ad una legislazione che rendesse quanto più raro possibile il ricorso alla guerra. Per questo i risultati della Conferenza, tutt’altro che lusinghieri dopo due mesi di discussioni e proposte243, furono benevolmente elogiati dal Moneta. L’accordo raggiunto sull’apertura di una Corte d’arbitrato permanente a cui le Potenze potevano ricorrere – volontariamente – nel caso che un conflitto armato rischiasse di scoppiare tra di loro244 era abbastanza per il giornale, in quanto – sosteneva il direttore – se non altro la sua esistenza faceva sperare in un più intenso intervento di uffici diplomatici prima del ricorso alle armi.

Il pacifismo rimaneva dunque una costante tra le pagine del Secolo, anche se a livello internazionale veniva stemperato dalla consapevolezza che le cause delle crisi avevano radici ben profonde, rintracciabili nello sviluppo del capitalismo. Gli armamenti e le rivalità coloniali – chiariva Ferrero – derivavano dalle necessità di aprire nuovi mercati, per questo si poteva prevedere che “l’insaziabile fame della civiltà bianca” avrebbe almeno risparmiato scontri militari all’Europa:

“[…] sinché il cosmopolitismo della produzione e del consumo sarà la grande funzione della civiltà nostra; sinché il saccheggio industriale della terra darà spoglie sufficienti ai desideri demoniaci dei presenti, la probabilità delle grandi guerre europee sarà piccolissima, perché le grandi guerre imporrebbero a tutti, ai vinti e ai vincitori, privazioni ed astinenze che toglierebbero secondo il nostro modo di sentire ogni valore alla vita. Gli uomini vogliono oggi fare delle ferrovie, non delle guerre; le classi e i popoli che vogliono e sanno essere potenti cercano di appropriarsi della maggior parte della crescente produzione del mondo ed hanno orrore di tutto ciò che possa distruggerne quantità troppo ingenti”245.

limitazione dei pesi militari che gravano sull’Europa sarebbe stata ottima per il benessere materiale e morale dell’umanità. La seconda commission, impegnata a trovare mezzi per umanizzare la guerra, muovendosi in un campo in cui c’erano già state alcune dichiarazioni internazionali, come la Convenzione di Ginevra per il trattamento dei detenuti e quella di Pietroburgo, sul limite all’uso degli esplodenti, fu l’unica che riuscì a far impegnare diversi Paesi ad osservare alcune norme umanitarie nella condotta delle ostilità di guerra. La commissione sull’arbitrato, infine, diede indicazione di ricorrere sempre alle mediazioni tra le diplomazie ed istituì una Corte d’arbitrato permanente; tuttavia, essendo il suo intervento facoltativo per le parti, in concreto si limitò a derimere solo pochi casi di controversie.

242

Mario Borsa, La riunione della Conferenza, in «Il Secolo» 18–19 maggio 1899. 243

Mario Borsa, Memorie di un redivivo, cit., p.221. 244

Ernesto Teodoro Moneta, La conferenza dell’Aja giudicata da un ottimista, in «Il Secolo» 3–4 agosto 1899. 245

Ma se sotto la spinta delle ragioni economiche lo scenario continentale poteva dirsi al sicuro, poiché le grandi Potenze puntavano a creare spazi commerciali fuori dai Paesi europei spostando lì le loro attività e gli eventuali conflitti che ne potevano scaturire, il problema della competizione militarista e del colonialismo in sé sussisteva e portava l’analisi del giornale su un piano ulteriore di giudizio, quello della maturità dei sistemi politici–economici che lo esercitavano. Nel Secolo era riconosciuta la necessità delle Nazioni più sviluppate di esportare merci e capitali; tale esigenza era resa ancora più evidente dai goffi tentativi italiani di inserirsi in una competizione internazionale per cui – sotto un profilo finanziario e commerciale – non era ancora pronta:

“Dunque l’Italia ha messo piede in Cina mi pare di aver letto in qualche giornale – rimproverava Borsa – per tutelare gli interessi dei nostri connazionali colà. Quali interessi? Non i presenti. Che io sappia noi abbiamo laggiù poche forme commerciali ed un sindacato anglo–italiano al quale il signor Luzzatto ha dato il nome e gli inglesi i capitali. Si capisce che l’Inghilterra, la Francia, la Russia, la Germania, il Belgio, il Giappone parlino di interessi dei loro connazionali da salvaguardare perché prima dei loro incrociatori arrivarono realmente nei porti del Celeste impero i loro mercantili e iniziarono imprese minerarie, o ferroviarie, o impiegarono nel traffico capitali che hanno realmente il bisogno di essere protetti. Ma il dire ora che l’Italia applicherà l’open door nella baia di Sun Mun, fa sorridere. L’open door, cioè la libertà di commercio, ma per quali energie? […] il capitale in Italia non ha di questi slanci. I precedenti non sono incoraggianti”246.

Il nostro Paese, con gravissimi problemi interni, avrebbe dovuto impiegare le proprie forze nella costruzione interna prima che nell’espansione247. Per quanto riguardava le nazioni più solide e ricche invece, si operava un discernimento tra quelle come l’Inghilterra, libero–scambiste, industriali e commerciali, la cui storia aveva dato prova della fattività di un colonialismo “costruttivo” e le altre:

“Disraeli fu il primo imperialista […] fu lui che fece la Regina Vittoria imperatrice dell’India; fu lui che parlò per primo della majesty of England e della missione conquistatrice dell’Impero […] erano quelli i tempi più gloriosi dell’Inghilterra liberale e l’avversario di Disraeli, il Gladstone esercitava un fascino suggestivo anche sulle masse. Allora alcune grandi linee morali formavano il credo del popolo: mantenere salde le basi democratiche interne ed esercitare all’estero una politica di giustizia, di civiltà, di pace, portando e proclamando ovunque la libertà di commerci, difendendo i deboli e gli oppressi, aiutando la ricostruzione delle nazionalità, combattendo le correnti reazionarie dei governi dispotici. Allora l’Inghilterra era la grande pioniera del

246

Mario Borsa, L’Italia in Cina, in «Il Secolo», 8–9 marzo 1898. La domanda di cessione della baia di Sun Mun era stata inviata con l’avallo dell’Inghilterra, ma venne respinta per disguidi linguistici. Quando si tentò la spedizione militare l’atteggiamento del Secolo fu ancora più duro. Allora Borsa scriveva: “Concessioni militari non ce ne verranno, allora si farà lo sbarco a Sun Mun […] A questo punto siamo arrivati in questa impresa la quale per la leggerezza con cui fu condotta costituisce a mio avviso uno dei più grossi scandali della politica italiana degli ultimi tempi”. Seguito da una Nota redazionale che diceva: “è anche l’avviso di tutti gli italiani che in politica amano calcolare le conseguenze di una impresa prima di accingervisi”.

Nel documento Mario Borsa: biografia di un giornalista (pagine 48-64)