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Una giornata di Giovanni Brambilla

di Angelo Gaccione

Ad Aleksandr Solženicyn

Giovanni Brambilla si svegliò di buon umore. La giornata si an-nunciava magnifica: le fessure dell’avvolgibile – che aveva l’abitudi-ne di non serrare in modo fitto perché la luce del mattino potesse filtrare nella stanza – annunciavano il giorno e lo spandevano a stri-sce lungo i bordi della bella e soffice coperta di lana che l’anziana madre gli aveva lasciato in eredità dopo la sua dipartita da questo mondo. Un mondo a cui Giovanni Brambilla si era adattato senza particolari difficoltà, con quel naturale cedimento, con quell’arren-devole adesione come fa la forma al suo stampo. Scostò le lenzuola, mise le gambe fuori dal letto e cercò con ambedue i piedi le ciabatte che trovò subito, a memoria, come tutte le mattine nonostante la luce incerta. Le allineava diligentemente appena finiva di mettere in ordine la stanza, ad un lato del letto, ad una spanna o poco più dal comodino, avendo cura di essere quanto più preciso possibi-le. Questa consuetudine risaliva ad una pratica costante ereditata dall’anziana madre con cui aveva da sempre convissuto. Non aveva mai voluto prendere moglie, anche se più volte era stato sollecitato dagli amici e dalla stessa amata madre, man mano che gli anni pas-savano. I bisogni fisici li consumava in albergo, alberghi modesti ma decorosi e puliti, ad intervalli accettabili di tempo e soprattutto non dispendiosi, che gli permettessero di tenere a bada quegli sti-moli che, con singolare espressione, una rivista scientifica in cui si era imbattuto, aveva definito “i morsi della carne”. Fece alcuni movimenti per stirare gli arti e mettere in moto la carcassa, come

amava dire per civetteria, e finalmente si mosse verso la finestra per allungare la mano alla corda dell’avvolgibile. Aprì e lasciò che as-sieme al fresco del mattino polveri sottili, gas e sostanze inquinanti d’ogni sorta, di cui la sua bella città era doviziosamente provvista, attraversassero le cavità nasali e si depositassero nei suoi tessuti e nel suo sistema circolatorio. In bagno fece le abluzioni necessarie con il prezioso liquido proveniente dall’acquedotto comunale ar-ricchito di cloro, glifosato, azoto, fosforo, diossina, metalli pesanti e altri residuati che la civiltà industriale metteva a disposizione, e poi si spostò in cucina per la colazione. Il bel pane bianco di fari-ne super-raffinate il cui grano proveniva da terreni concimati da fanghi tossici, scarti industriali fra i più singolari e prodotti dalle attività umane più diversificate e fantasiose, fu affettato e disposto su un magnifico vassoio di ceramica, materiale refrattario ad ogni riciclo e a qualsiasi reimpiego. Svitò il tappo del barattolo pieno di marmellata, ricavata da frutta con zero vitamine e debitamente trattata con massicce dosi di antiparassitari e irrorata da pesticidi di diverse marche, e la spalmò. Non erano le sole preziose e gustose sostanze presenti nell’amalgama. Conservanti, coloranti, zuccheri, e quant’altro, concorrevano a farne un ottimo preparato. Scaldò il bricco con il latte proveniente da allevamenti intensivi, come la carne che mangiava abitualmente per il pasto di mezzogiorno a cui l’impiego di antibiotici conferiva un magnifico aspetto, e lo accompagnò con una manciata di biscotti. Li pucciava come fanno i bambini. Erano biscotti ricchi di burro, grassi, agenti lievitanti, aromi, deliziosamente friabili. L’avocado e il kiwi che sbucciò per dare all’alito la giusta freschezza, provenivano dall’altro capo del mondo. Non erano a chilometro zero e lui non se ne preoccupò. I boeing che li avevano trasportati, avevano riversato nell’atmosfera la giusta dose di C02, e aiutato ad incrementare il buco dell’ozo-no, il cambiamento climatico, le piogge acide, così salutari per le foreste, il patrimonio boschivo, la fauna che vi risiede. I serbatoi di questi giganteschi uccelli meccanici davano una mano anche per

affrettare lo scioglimento dei ghiacciai, come gli scarichi degli au-toveicoli a benzina, le caldaie delle case, i combustibili con cui la civiltà proseguiva il suo inarrestabile progresso. Si rasò con cura, scelse l’abbinamento giusto dei colori e si vestì. Avrebbe sfoggiato una cravatta a pois che avrebbe fatto ben risaltare la camicia e con-ferito alla giacca la giusta importanza. In strada il traffico era come ogni mattina sostenuto e l’odore del carburante combusto prende-va al naso e alla gola. Trasse la mascherina dal taschino interno della giacca e protesse le vie aeree per l’intero tragitto che lo conduceva all’ufficio. L’ascensore lo depositò al sesto piano e finalmente poté immergersi nel pieno del lavoro, tra pareti a vetri opachi e luci pe-rennemente accese. La pausa arrivò puntuale alle 10,30 e il locale con la macchinetta del caffè, posta a piano terra, si affollò di colle-ghi d’ambo i sessi. In un battibaleno il contenitore dei rifiuti tra-boccò di bicchierini di plastica e di linguette, anch’esse di plastica, tanto utili per mescolare lo zucchero al caffè. Erano il simbolo più vistoso e pervasivo di una civiltà che sulla plastica aveva costruito la sua fortuna, e che sarebbe durata in eterno. Era così familiare quel materiale, così onnipresente, che si era diffuso in ogni dove. Persino dentro i corsi d’acqua, i mari, gli oceani. Si era con il tempo corroso e divenuto così polverizzato questo materiale, da averlo rinvenuto nei posti più insospettati.

A mezzogiorno, se non optava per la carne, anche per Giovanni Brambilla era d’obbligo ordinare una spigola alle nanoparticelle, o una orata al mercurio, e così avvenne anche quel giorno. La ac-compagnò con delle verdure grigliate che il percolato aveva arric-chito delle sue preziose sostanze. Non rinunciò alla frutta e si fece servire una coppa di splendide albicocche provenienti dalla Terra dei fuochi. In quelle salubri e ubertose distese, da anni bruciavano pneumatici, vernici, lastre di amianto, pellami, batterie, carcasse di autoveicoli, e tanta, tanta plastica di ogni foggia e consistenza. La sera non cenò, preferì rimanere leggero. Non voleva essere costretto ad alzarsi in piena notte e ingurgitare strani e dannosi intrugli per

digerire. Avrebbe smarrito il sonno e non si sarebbe più appisolato.

Era sicuro che la quantità di metalli pesanti che aveva assorbito du-rante l’intera giornata, lo avrebbe tenuto sazio fino al mattino, e si tranquillizzò. Si avviò direttamente alla camera da letto e prima di infilarsi sotto le coperte, rivolse lo sguardo commosso alla cornice che racchiudeva la foto di sua madre. L’aveva sistemata lì di fronte sul comò, perché fosse il primo sguardo del mattino e l’ultimo per terminare sereno la giornata. Gli era più facile poi spegnere la luce e chiudere gli occhi per lasciarsi scivolare nell’oblio.

Angelo Gaccione [Milano, 1-2-3- giugno 2021]

Bruno Gallo

Nicotera (Reggio Calabria)