Vincenzo Marzocchini (Critico e Storico della Fotografia)
Nel 1927, a due anni dalla svolta definitiva nella sua visione foto-grafica suffragata anche dalla scelta di stampare su carte lucide an-ziché al platino, Edward Weston dichiarava: Presentarele superfici, il ritmo, la forma della natura oggettivamente, senza alcun sotterfu-gio o evasione nella tecnica o nello spirito; registrare la quintessen-za dell’oggetto o dell’elemento davanti al mio obiettivo, piuttosto che una mia interpretazione, o una fase superficiale, o un umore che passa: questo è il mio modo in fotografia”. Quando il realismo diventa radicale va da sé che si trasforma in forme astratte, a cui l’occhio non è abituato.
Paul Strandaveva intuito molto prima questa prassi metodolo-gica quando nel 1917 riporta sulla rivista diretta da Stieglitz, Ca-mera Work, l’affermazione: […]l’obiettività è la vera essenza della fotografia, il suo contributo e al tempo stesso il suo limite […]
L’efficacia potenziale di ogni mezzo dipende dalla purezza del suo uso; ogni tentativo volto alla contaminazione porta a dei risultati […] dove l’intervento manuale e la manipolazione sono soltanto espressione di un desiderio impotente di dipingere.
Strand indaga attraverso le pieghe delle cose, per questo la sua fotografia è frutto di lenta meditazione, di quella lentezza richiesta dal grande formato e che facilità l’indagine profonda. Un’altra sua dichiarazione è diventata famosa: “I giovani spesso mi domandano con quale criterio scelgo le cose che fotografo. La mia risposta è che io non scelgo. Sono scelto. Sono le cose che scelgono me. Ad
esem-pio io ho sempre fotografato porte e finestre. Perché? Perché mi affascinano.” Il francese Jean Baudrillard gli fa eco col suo volume È l’oggetto che vi pensa, come pure si sintonizza sulla stessa onda lo statunitense Joel Meyerowitz quando sostiene che, pur non sapendo ancora perché, sente di doversi fermare in un determinato luogo per fotografare John Berger in Modi di vedere chiarisce: Davanti a noi c’è qualcosa e noi, con gli occhi,interroghiamo il suo manifestarsi.
In genere si crede che la cosa guardata sia passiva e che siamo noi, nell’osservarla, a essere attivi. In realtà qualche cosa succede […]è che, a un certo punto, dalla cosa si sprigiona un’energia che è lì per incontrarsi con l’energia contenuta nello sguardo di chi osserva.
Il risultato fotografico va sempre oltre la normale visione uma-na, che è sempre mobile, mentre la fotografia ci offre una realtà sta-tica nella quale emergono i particolari trascurati dall’occhio. Tutta l’opera del pittore e fotografo David Hockney poggia su questo assioma e nei suoi lavori cerca di ricostruire il meccanismo della visione che rivela sempre un’astrazione. La visione umana è com-posita e centrica, l’obiettivo è monoculare e pone gli oggetti sullo stesso piano valorizzando tanto le aree periferiche che quelle cen-trali. Hockney con le sue curiose e originali immagini ci propone la fisiologia della visione.
Con la ripresa ravvicinata Franco Cingolani si pone a metà stra-da tra il naturalismo fotografico e la macrofotografia e le riprese al microscopio con le quali possiamo scandagliare e fissare mondi fan-tastici lontani dalla realtà quotidiana percepita dall’occhio umano.
La fotografia si trasforma allora in metafora. La macchina foto-grafica assume la funzione di strumento epifanico allorché ci per-mette di riconoscere forme evocatrici di altre forme note perché appartenenti all’esperienza quotidiana e che possono variare altresì da individuo a individuo perché il vissuto, il vedere e il percepire sono inderogabilmente personali.
È una fotografia, questa di Franco Cingolani, tutta ascrivibi-le alla tradizione storica tracciata da opere pionieristiche quali Il
mondo è bello di Albert Renger-Patzsch e soprattutto Forme ori-ginarie dell’Artedi Karl Blossfeldt, uscite entrambe nel 1928, che hanno plasmato gran parte della fotografia dalle avanguardie alle correnti impregnate di concettualismo a noi più prossime delle ne-oavanguardie.
Con altri precedenti lavori il nostro autore si avvicina alla filo-sofia dell’effimero e rimane affascinato dalle rivelazioni contenute nel marginale, negli oggetti periferici e di scarso interesse per la comune visione. È un modo di vedere il mondo e di intendere la fotografia che parte da lontano, prende le mosse addirittura dalle realizzazioni di uno dei padri della fotografia, dalle venature del-le foglie di Talbot, la ritroviamo nella composizione dei biglietti dell’autobus di Brassaï, soprattutto la individuiamo nei rifiuti ur-bani di Schwitters e nei mozziconi di sigarette di Irving Penn della serie Street Material che rimanda al lavoro dello stesso Kurt Schwit-ters. L’apparentemente banale (e ribadisco apparentemente, perché la rappresentazione fotografica è sempre enigmatica, la sua rivela-zione dell’inaspettato è sempre dietro l’angolo), il microscopico, lo scarto, l’oggetto ricusato rifiutano la condanna, l’emarginazione e nascondono significati impensati e fluttuanti.
Per queste ammiccanti possibilità nella resa fotografica, Franco Cingolani si accosta all’arte minimale e in seguito alla superficie e alla texture con la serie dei Trittici e dei Volti.
Inserite nei Trittici troviamo alcune emblematiche riprese di escrementi di mucche a Castelluccio, per i più luogo di elezione e di sublimazione del paesaggio composito in piacevoli strisce di colore; egli valuta le forme e le tonalità diverse che l’escremento assume man mano che procede l’essiccazione.
Certamente è un modo anche provocatorio per verificare l’azio-ne del tempo sulle cose, sulla trasformaziol’azio-ne e sulla resilienza.
Con il trittico egli scompone e ricompone il reale: ci offre tre punti di vista parziali, ognuno rivelatore di particolari caratteristi-che, tuttavia complementari per una visione unitaria della realtà.
Con i Prelievi Urbani e le Architetture ritorna a tale proposta. Le composizioni o scomposizioni funzionano visivamente da sole, ma possono essere collegate per restituire un’idea composita del luogo.
Le sue realizzazioni, anche quando si avvicinano a una resa in-formale, raramente sconfinano nell’astrattismo puro; il rimando all’oggettività è sempre presente.
Alcune inquadrature ravvicinate, certi ritagli di cortecce riman-dano agli strappi e alle cuciture dei sacchi di Alberto Burri. Sicu-ramente le somiglianze sussistono, ma un accostamento tra le scre-polate placche di diverso colore di Cingolani e le ricomposizioni di Burri ha ragione d’essere solo in un discorso estetico perché le finalità sono profondamente diverse. L’effetto pittorico dei circo-scritti prelievi fotografici è mirabilmente potente.
Il fotografo recanatese, passato dalla pellicola al digitale, con-serva sempre il rispetto per il mezzo, come sosteneva Garry Wino-grand, lasciandogli fare ciò che sa fare meglio, cioè descrivere. E rispetto per il soggetto, descrivendolo così com’è.
Non c’è trucco, semmai è un naturale inganno dovuto alla dif-ferente visione tra l’occhio che ignora alcune parti e l’obiettivo che tutto discerne. Non a caso al fotografo statunitense, tra gli innova-tori del linguaggio fotografico nella seconda metà del Novecento, viene attribuita un’altra famosa affermazione: Io fotografo per ve-dere come appaiono le cose una volta fotografate.
Franco Cingolani è sempre guidato, oltre che dalla fiducia nel mezzo utilizzato, da una penetrante capacità di vedere, da un alle-nato senso indagatore estraneo al comune guardare. La serie Volti imperniata sulla sovrimpressione del recto e del verso di un viso è mossa dal tentativo di penetrare al di là della superficie e delle apparenze.
Etna anche…vitudda e zappinu,è un lavoro di scandagliamento della corteccia di due alberi tipici della montagna che attecchiscono anche sulle pendici ad alta quota del vulcano siculo.
Vitudda o bitudda è la betulla, zappinu detto anche pigniced dinel
vernacolo locale è il pino. In Arboreto SalvaticoMario Rigoni Stern così descrive la betulla:la Betula verrucosa, più nota come betulla bianca o pendula…Una varietà particolare della verrucosa è la Aet-nensis, endemica dell’Etna, che troviamo a duemilasettecento metri di quota: estremo limite vegetativo di questa famiglia verso il Sud.
Di questi alberi, o meglio di quanto rimane dopo il passaggio della lava, Franco Cingolani fotografa il ritidoma o scorza, la parte più esterna della corteccia. Continua Mario Rigoni Stern: …la cor-teccia è sottile, bianco argento, e il suo colore è dovuto a una sostan-za, la betulina, che impregna il ritidoma; qualche striscia orizzonta-le più scura può interrompere il bianco e, verso la base, nelorizzonta-le piante adulte, si ispessisce e si screpola assumendo un colore giallastro.
Per quei prodigiosi misteri della natura ancora incomprensibili all’uomo, la betulina sembra rimanere immune all’azione lavica. Il contrasto chiaroscurale tra la corteccia della betula pendula e l’am-biente circostante è magico.
Anche l’involucro esterno del pigniceddu, l’alburno, squamoso e più o meno rossastro tendente al grigio a seconda dell’età, che può raggiungere i cinquecento anni, offre combinazioni segniche-che rimandano persino a primordiali simboli e forme genitali ma-schili e femminili. Altre immagini rimandano a bocche aperte in un dramma simili all’urlo dipinto da Munch o a orifizi vulcanici e per analogia all’orifizio umano luogo di deiezione per eccellenza.
Secondo gli antichi miti greco-mediterranei il vulcano contiene tutte le energie creative e la lava che ne fuoriesce tutti gli elementi naturali fondamentali.
Per secoli si è creduto che la vera Arte stesse tutta nell’imitazione della Natura i cui elementi si combinano generando forme infinite.
La fotografia, come quella proposta da Franco Cingolani, può contribuire alla contemplazione di questi arcani, imponderabili fe-nomeni naturali e innescare un viaggio immaginifico nella fantasia individuale.
Marcelli di Numana, febbraio 2020.