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giorno del giudizio Processo a Nuoro

Il giorno del giudizio arriva per Satta al capolinea, quando la

stanchezza dell’età e i lutti lo colpiscono duramente: «Invecchio rapidamente e sento che mi preparo una triste fine, poiché non ho voluto accettare la prima condizione di buona morte, che è l’oblio»148. Così si confessa nel breve capitolo conclusivo del romanzo – l’unico della seconda parte – in cui ammette la sua colpa: il gesto egoistico di richiamare dalla tomba i personaggi della sua storia nuorese non tanto per liberarli dalla loro vita, ma per rendersi libero, al rischio dell’eternità a cui si esponeva, e che ottenne grazie a questo romanzo. Come a chiudere un ciclo torna al ricordo della neve, lo stesso riportato nel suo primo romanzo La Veranda

Sono stato una volta piccolo anch’io, e il ricordo mi assale di quanto seguivo il turbinare dei fiocchi col naso schiacciato contro la finestra. C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed erano felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna volgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio.149

148Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Milano, Adelphi, 1979, pag. 291. 149 Ivi, pagg. 291-292.

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Riflette sulla consapevolezza della complessità della vita, impossibile da cogliere nella sua interezza fino alla fine, da qui la necessità di una persona che ci resusciti per raccontarci.

Non stupisce quindi la necessità di un narratore onnisciente per poter rendere possibile l’eternità delle vite degli abitanti di Nuoro: perché se nessuno ti ricorda sei destinato all’oblio. Nel processo di rievocazione l’autore, che ha sulle spalle l’arduo compito di riesumare le storie di una comunità, riporta anche alla mente il giovane Salvatore, ma non ne fa il centro della narrazione. Ne racconta la storia con lo stesso distacco destinato agli altri personaggi, con l’unica indulgenza di concedergli la dolcezza dell’infanzia. Non è dunque il suo punto di vista quello importante nella storia.

Quando parla dell’atto di narrare che salva dall’oblio, che salva dal fluire della vita, parla non casualmente di giudizio finale. Come ha esplicitato nel Mistero del processo150 l’atto del giudicare è opposto al

dinamismo convulso della realtà, una battuta d’arresto per l’azione. Non per nulla gli si attribuisce una natura divina, l’atto di giudicare che viene dopo tutto, dopo la vita e la morte, quando non c’è più spazio per esperire. Satta sceglie di essere il giudice, la figura terza, del processo a cui sono sottoposte le azioni dei nuoresi. Azioni nella loro complessità, connubio non solo del dato oggettivo, ma anche della componente determinata dalla coscienza individuale. Per poter quindi rendere pienamente questo elemento lo scrittore decide di riportare con perizia la documentazione dei fatti accorsi e dei personaggi che vi sono coinvolti. Non è altro che la realtà della quotidianità che viene narrata, da qui si disvela la vera essenza dei suoi protagonisti. La tangibilità degli eventi è vista come il più eloquente mezzo di narrazione: d’altronde nel processo dovrebbe parlare l’effettività dei fatti, non è quindi necessario ricorrere a modificare, aggiungere o immaginare.

Anche qui ritorna l’eco della fenomenologia e della filosofia del maestro Capograssi, ritorna la sua idea di diritto e giustizia. Il giurista ripercorre le azioni, ma con esse svela anche la volontà che le accompagna: in questa ottica il giudizio è conoscere e creare, l’atto creativo della

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conoscenza151. Per scrivere il romanzo di una famiglia che non c’è più, di cui lui è l’unico superstite che si vede prossimo alla fine, sceglie gli strumenti a lui congeniali e familiari del diritto. Non stupisce che in questo romanzo si ripercuota il suo bagaglio giudico e che faccia la scelta di percorre la via di una narrazione del quotidiano. Satta non cerca, anche in questo caso, una evasione nella scrittura: è tanto autore quanto giurista, incapace di mettere da parte questa doppia identità. Ancora una volta a dimostrare che il diritto per Satta esiste in funzione dell’uomo e non viceversa, questo processo letterario è anche un processo al diritto e alle manifestazioni in cui l’autore l’ha conosciuto nella sua comunità d’origine. Perché se il diritto è la vita, se il diritto è l’esperienza, bisognerebbe restare in contatto con la volubilità del concreto contro la tentazione di un principio giuridico che tenda all’immobilità: ecco in quest’opera narrativa di Satta l’ennesimo sforzo di avvicinarsi agli individui in carne ed ossa. D’altronde sono loro – secondo Husserl – che si pongono tra diritto e vita, che danno un senso di umanità che dovrebbe comporre il diritto152.

Bisogna ricordare che però per Satta il processo non era percorso semplice, presupponeva un conflitto, la necessità di un intervento esterno e la collaborazione delle parti coinvolte per la ricerca di una verità, spesso nascosta, che si intravedeva appena tra gli elementi raccolti. Soprattutto si presume che la figura che si pone nell’atto di giudicare, il giudice, nel caso della nostra ipotesi di lettura Satta, non possa essere perfetto, perché la perfezione non è di questa terra. Siamo di fronte alla obbligatoria dichiarazione di superiorità di chi giudica sul giudicato, dettata dalla semplice presa di posizione delle parti. Contrapposto a questo rischio vi dovrebbe essere alla base del gesto di giudicare un’umiltà tale da mettere la legge prima di sé, farsi mezzo di essa, suo interprete nel concreto, far sì che l’esperienza si fondi con la forma153.

151 Sul tema: Brunella Bigi, L’autorità della lingua. Per una nuova lettura dell’opera di Salvatore Satta, Ravenna, Longo Editore, pagg. 63-69.

Vanna Gazzola Stacchini, Come in un giudizio. Vita di Salvatore Satta, Roma, Donzelli, 2002, pagg. 124-125.

152Sul tema Antonio Delogu, Giudizio e pena in Salvatore Satta in Aa.Vv., Salvatore Satta, oltre il giudizio. Il diritto, il romanzo, la vita, a cura di Ugo Collu, Roma, Donzelli, 2005, pagg. 165-179.

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C’è da chiedersi se Satta possa essere un giudice imparziale e terzo di questa storia? Sembra che la memoria che è alla base del romanzo sia un mezzo arbitrario, soggetto non solo al passare del tempo e degli eventi, ma soprattutto al punto di vista. La lente sotto cui l’autore racconta la sua Nuoro è distorta, ben lontana dall’obiettività: non sono i ricordi del piccolo Salvatore e probabilmente neanche la visione matura del Satta adulto, ma è un punto di vista sicuramente condizionato da entrambe le componenti. L’opera non è mimesi, non è un’opera verista, è molto più vicina all’autobiografia. Lo scrittore sceglie di usare il discorso indiretto per tutta la narrazione, con finestre di riflessione in prima persona, che rompono il ritmo e ci introducono ai dubbi e alle riflessioni di Satta. La sua voce prevale sui personaggi: è la lingua di Satta, è il suo punto di vista a prevalere, è il suo percorso nella memoria del paese che ha lasciato. Non si può dire che da parte del giurista ci sia una volontà di soppressione, piuttosto quella necessità di riflettere e rielaborare che ormai fa parte del suo bagaglio di studioso. Si innesca in lui un meccanismo creativo, di trasformazione, spesso interrotto dall’io narrante, non tanto a beneficio del lettore, ma del processo dello scrittore di ricordare154. Un percorso che però abbraccia quello del giurista, coerente alle sue posizioni filosofiche e di pensiero, ma questo fa di Satta di giudice imperfetto e fazioso delle anime della sua giovinezza.