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Giulietto Chiesa: la Cecenia con gli occhi di un italiano

5 LA QUESTIONE CECENA

5.3 Giulietto Chiesa: la Cecenia con gli occhi di un italiano

Giulietto Chiesa, giornalista de L’Unità prima e successivamente de La Stampa, ha vissuto in Russia per circa diciannove anni. È stato corrispondente da Mosca per i due giornali e ha tenuto una rubrica fissa sul settimanale dei circoli imprenditoriali Kompania. Ha scritto molti libri di storia, cronaca e reportage sull’Unione Sovietica e sulla Russia.

Chiesa è stato più volte in Cecenia come inviato. Ha passeggiato per le strade di Groznyj, sotto gli scoppi delle bombe e i fischi dei proiettili, senza la certezza di «non finire sotto le cannonate dei russi, o divenire bersaglio dei cecchini ceceni»65. E proprio da Groznyj ha scritto, nel

63 A. POLITKOVSKAJA, Proibito parlare, cit., pp. 7-8. 64 Ibidem, p. 155.

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G. CHIESA, Roulette russa. Cosa succede nel mondo se la Russia va in pezzi, Guerini e Associati, Milano, 1999, p. 126.

gennaio del 1995, nel pieno del primo conflitto ceceno, il suo reportage per

La Stampa, la cui sintesi è pubblicata nel saggio Roulette russa66 col titolo

Groznyj, dove la Russia affonda.

Il giornalista arriva nella capitale cecena da Nazran’, racconta il suo viaggio in aereo fino all’aeroporto Mineralnye Vody e il travagliato tragitto in macchina fino a Groznyj, tra le raffiche di proiettili e gli autisti di fortuna che aumentano il prezzo della corsa proporzionalmente al rischio di farsi ammazzare. La desolazione lo accoglie:

Enormi roghi divampano dalle tubature spezzate del gas. Le strade sono coperte di vetri, nessuna casa è intatta [...]. Qua e là, voragini, squarci che rivelano l’intimità di appartamenti deserti. Sembra che siano fuggiti tutti, ma poi scopriremo che altre migliaia ancora rimangono, rintanati nei sottoscala, pronti a uscire a spegnere gli incendi dei loro appartamenti, a vigilare che non gli portino via le masserizie. Ma la gran parte dei rimasti sono vecchi, inabili, uomini e donne, quelli che non sanno dove andare, i più poveri. E molti sono russi, sotto le bombe russe67.

La città è in mano cecena. L’esercito di Dudaev è schierato attorno al palazzo presidenziale, la fascia islamica ben legata attorno alle fronti dei soldati. Chiesa riesce a parlare con qualcuno dell’esercito, lo informano che i russi sono bloccati alla stazione ferroviaria, poco più di un chilometro da loro. I ceceni sembrano sicuri di vincere e, in ogni caso, anche se morissero andrebbero diretti in paradiso, racconta Magomed, uno dei soldati di Dudaev.

Un’infermiera cecena presta soccorso a tre feriti russi, unici

66

Cfr., Ibidem.

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sopravvissuti all’attacco dei tre blindati in cui si viaggiavano. «Dovrei odiarli perché ammazzano i nostri figli – dice – ma mi fanno tanta pena»68.

Due fratelli di Groznyj, si offrono di accompagnare Chiesa per le strade, gli dicono che non è prudente avventurarsi da soli. Lo scenario di devastazione e morte continua a scorrere davanti ai suoi occhi, che, dice lui stesso, non dimenticheranno con facilità quanto hanno visto. I bombardamenti non cessano, sulle strade deserte si scorgono soltanto i cani, che di notte si nutrono dei cadaveri inermi. «Qual è il bilancio di questa guerra?»69, si chiede il giornalista.

Mentre si allontanano dalla città, da dove è impossibile trasmettere visto che non ci sono né luce né telefono, Chiesa ripensa alle parole pronunciate da El’cin qualche giorno prima, quando il capo di stato aveva assicurato che la città non sarebbe più stata bombardata. Menzogne. Così come mente il telegiornale della sera ascoltato da Nazran’, afferma che Groznyj è in mano russa.

Il giorno successivo si ripetono le solite trattative con gli autisti per tornare nella capitale. Ancora esplosioni e il fischiare delle bombe. Anche la periferia, lontana dai palazzi del potere, viene presa di mira. Avvicinarsi alla sede del governo è impossibile, tanto è incessante il fuoco e gli stessi soldati ammoniscono il reporter impedendogli di proseguire: «Ci servi vivo. Ci servite vivi per raccontare quello che succede qui»70.

Gruppi di ragazzi armati di kalašnikov si dirigono in massa a far esplodere i carri armati russi tenuti sotto assedio. I soldati federali sono costretti a rimanere dentro ai blindati da una settimana, non escono mai, o verrebbero fucilati subito. I ceceni non hanno i razzi anti carro, ma soltanto

68 Ibidem, p. 129. 69 Ibidem, p. 130. 70 Ibidem, p. 133.

il mitra, e quando aprono i portelloni per tirare fuori le loro vittime, la puzza è tremenda, tanto che bisogna mettersi i guanti e turarsi il naso, racconta un soldato. E le considerazioni umane si confondono con quelle politiche:

Penso, [...] a come e a quanto tempo occorrerà per riparare ai guasti morali, più che a quelli materiali, che qui si stanno producendo. [...] Anche se vincessero, mi dico, la Cecenia non potrà mai essere altro che una piccola pedina in un gioco molto più grande. Vogliono liberarsi della Russia: cadranno in un’altra dominazione. Ma come dar loro torto sotto le bombe di Mosca?71

Quella di Chiesa è solidarietà verso i più deboli, lo stesso sentimento che prova la Politkovskaja, con la differenza, però, che il giornalista de La Stampa è ben lungi dal percepire questa guerra come una vicenda interna al proprio paese. Ha vissuto in Russia per quasi vent’anni, è vero, ma il suo sangue è pur sempre italiano. Ed è per questo che si sente in diritto di affermare anche che, in ciò che vede con i propri occhi, in tutto il dolore e le ingiustizie che lo circondano, c’è qualcosa che viene da lontano, dalla barbarie, qualcosa di estraneo a lui: qualcosa di non europeo. Prende le distanze, come se non volesse ammettere di far parte di quell’orrore come se volesse essere in parte scagionato da un tale fardello. Ma poi si ricorda, riflette: e l’Europa? Dove si è schierata l’Europa in tutto questo? All’epoca dei fatti, non ha preso posizione, si risponde. «Nell’ottobre del 1993, in fondo poco più di un anno fa, [...] El’cin bombardò il Soviet Supremo della Russia senza che un solo governo occidentale sentisse il bisogno di

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prendere le distanze, anche soltanto di eccepire»72. Anche noi siamo colpevoli dunque, colpevoli di essere rimasti in silenzio.

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