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Mappa di un viaggio a ritroso: Karta Rodiny di Petr Vajl'

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Ero in partenza per Mosca la prima volta che ho sentito il nome di Pѐtr Vajl’. Avevo soltanto una vaga idea di chi fosse, mentre lo cercavo incuriosita tra gli scaffali delle librerie di Novij Arbat e della Tverskaja. Non sapevo bene cosa aspettarmi, ogni volta che chiedevo a qualche russo se lo conoscevano ottenevo riposte concise e sfuggenti. Certo, ne avevano sentito parlare, ma non si sbilanciavano. Lo avevo cercato, invano, tra i manuali di letteratura, sperando di trovare un giudizio che mi permettesse di inquadrarlo come personalità e come intellettuale: nessun risultato.

Decisi, allora, di provare a rispondere da sola alle mie domande, visto che nessuno sembrava in grado di aiutarmi. E così, un freddo pomeriggio di marzo del 2009, ho acquistato Karta Rodiny e ho dato inizio a questo percorso.

La lettura, devo ammetterlo, non è stata delle più semplici. I riferimenti culturali presenti e nascosti in tutto il testo mi hanno creato spesso difficoltà e, in molti casi, ho dovuto documentarmi accuratamente per comprendere le parole di Vajl’, troppo intrise di storia e di tradizione per la mia mente giovane e ancora poco esperta.

Ho capito solo dopo perché non riuscissi a trovare il nome dell’autore nei manuali di letteratura. Vajl’, scomparso pochi mesi fa proprio mentre scrivevo, non era soltanto uno scrittore, bensì una personalità variegata, un intellettuale a tutto tondo. Giornalista, critico d’arte, conduttore radiofonico, ma soprattutto uomo dotato di una grande sensibilità e umanità, sempre schierato dalla parte di chi subisce gli abusi del potere, di qualsiasi colore esso sia.

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I problemi che ho incontrato dal punto di vista traduttivo sono dovuti anche al fatto che, per la prima volta, mi sono trovata ad affrontare un testo non letterario, non inquadrabile neppure in un genere preciso. All’inizio non sapevo bene su cosa dovesse basarsi la scelta dei brani da tradurre. Ho imboccato varie strade, mi sono persa nei meandri della narrazione e delle congetture, ma alla fine ho trovato una direzione.

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2 LA VOCE DI UN INTELLETTUALE IN FUGA

2.1 Letteratura e dissidenza nel Novecento

L’ultimo secolo di storia culturale russa è stato caratterizzato da alcuni flussi migratori che videro fuoriuscire dai confini della madre patria milioni di cittadini russi in cerca di una sorte migliore.

Parlando di emigrazione russa in occidente, secondo Andrews1, si distinguono principalmente tre grandi volny, tre ondate: la prima sarebbe cominciata nel 1917, la seconda si colloca alla vigilia dell’ultimo conflitto mondiale, la terza e ultima avviene intorno agli anni ’70.

Il primo spostamento fu una conseguenza della rivoluzione del 1917, con l’ascesa al potere dei bolscevichi. Il carattere inizialmente provvisorio di questo primo fenomeno migratorio fece sì che fossero predilette le mete più vicine ai vecchi confini russi, anche se, seppur in numero ristretto, alcuni esuli raggiunsero persino l’America. Il nucleo più consistente di fuggiaschi scelse come meta la Francia e la Germania e fu proprio a Parigi e a Berlino, infatti, che si manifestò con vigore la vita letteraria e artistica della Russia al di fuori dei propri confini.

Della seconda ondata, invece, fecero parte i cittadini che, alla vigilia della seconda guerra mondiale, con il risvegliarsi dei sentimenti nazionalistici dei paesi che li avevano accolti durante il primo flusso

1

Cfr. D.R. ANDREWS, Sociocultural perspectives on language change in Diaspora, John Benjamins Publishing Company, 1999, pp. 1-6.

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migratorio (si veda, ad esempio, il caso della Polonia), decisero di dirigersi verso gli Stati Uniti e l’Australia.

La terza ondata, conosciuta anche come “emigrazione ebraica”, era composta in maggioranza da ebrei che, animati dal movimento sionista, volevano tornare in Israele. A causa delle difficili relazioni diplomatiche tra Unione Sovietica e Israele in seguito al conflitto arabo-israeliano del 1967, furono preparati i visti di uscita attraverso l’ambasciata danese, che rappresentava gli interessi israeliani a Mosca. Gli emigranti raggiunsero poi Vienna, da dove il loro esodo verso Israele doveva essere approvato. Molti di loro arrivarono a destinazione, altri fecero rotta verso gli Stati Uniti. Il governo americano garantì loro lo status di rifugiati e anche la comunità ebraica li accolse aiutandoli nel processo di integrazione.

Dal punto di vista letterario, invece, la vita artistica della Russia d’esilio, a dispetto di un contesto storico che non sembrava favorirla, fu vivace e feconda. Nel momento in cui si iniziò a parlare di letteratura russa d’emigrazione, sorsero subito dibattiti sulla sua natura e sul destino della vita artistica al di fuori dei confini della madre patria che, soprattutto all’inizio, non ispirò la fiducia della critica e contribuì ad alimentare il pessimismo della prima generazione di scrittori come Bunin, Kuprin e Mereţkovskij. Tali polemiche presero il via nel 1924 sulle pagine di due importanti riviste del circuito europeo: la praghese “Volja Rossii” (La libertà della Russia) e la parigina “Sovremennye Zapiski” (Gli annali contemporanei), considerata la più autorevole rivista letteraria dell’emigrazione. La questione riguardava sia l’esistenza stessa di una vita culturale per gli artisti lontani dalla patria e dalla realtà russa, sia la

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possibilità di continuare a parlare di una letteratura russa all’indomani degli sconvolgimenti della rivoluzione2.

Gli anni Trenta, tuttavia, dimostreranno che insicurezze e dubbi erano del tutto infondati poiché, nonostante la precarietà delle condizioni storico-economiche e nonostante fosse «nata a forza l’arte della Russia trapiantata viveva certamente di lotte, ma, lungi dal morire di libertà, [...], ne traeva il massimo profitto possibile, senza farne le smorfie come alcuni intellettuali occidentali [...]»3.

Mentre in Unione Sovietica nasceva nel 1934 la corrente del realismo socialista, che mirava a unificare lo stile artistico in modo che fornisse uno strumento di propaganda al partito comunista e ogni produzione letteraria diveniva pertanto uno strumento in mano allo Stato, gli scrittori russi si facevano sentire al di là dei confini natali, soprattutto a Parigi, Praga, Berlino e Varsavia, dalle testate di giornali e riviste.

Due grandi quotidiani parigini, “Poslednie Novosti” (Ultime Notizie) e “Vozroţdenie” (Rinascita), già attivi dagli anni Venti, continuarono ad animare i dibattiti e ad informare i lettori sugli avvenimenti della vita culturale russa, non si limitarono al mondo letterario degli immigrati, ma si occuparono anche delle novità della Russia Sovietica e di quelle dei paesi in cui essi avevano trovato rifugio4. I più importanti collaboratori di queste riviste furono, rispettivamente, Georgij Adamovič e Vladislav Chodasevič, il primo repubblicano-democratico e il secondo schierato a destra. I quotidiani si occupavano anche di presentare ai lettori le anteprime delle opere degli autori esuli. Così Ivan Bunin, Zinaida Gippius, Konstantin

2 Cfr. C.RENNA, Il dibattito critico degli anni Venti sulla letteratura russa di emigrazione e la

“nota praghese”: M. Slonim e A. Turincev, in «eSamizdat», 2004 (II), 1, pp. 23-31, qui pp. 23-24.

3 R. GUERRA, L’emigrazione russa dagli anni Trenta agli anni Sessanta, in AA. VV., Storia

della letteratura russa. Il novecento, vol. III, Einaudi, Torino, 1991, pp. 127-150, qui p. 127.

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Bal’mont, Marina Cvetaeva, Boris Zajcev e molti altri vedevano regolarmente pubblicate parte delle proprie opere. Gli scrittori emigrati, durante il loro isolamento, che spesso li portava a vivere in condizioni di miseria (la Cvetaeva perse addirittura la figlia più piccola, che morì di stenti in un orfanotrofio), si arricchirono dal contatto con la cultura occidentale e ne furono influenzati.

Alla fine della seconda guerra mondiale, lo scenario parigino mutò notevolmente e lo splendore che lo aveva visto protagonista negli anni Trenta scomparve quasi del tutto. Molti dei suoi rappresentanti, nel frattempo, erano morti o erano stati deportati e la cultura russa d’oltrefrontiera si era trasferita a New York.

In quegli anni tra i fuoriusciti si erano create due correnti contrapposte: una di ispirazione patriottica, favorevole cioè all’Unione Sovietica in quel momento alleata degli Stati Uniti in guerra contro la Germania hitleriana; l’altra, di stampo antisovietico, che difendeva i valori dell’emigrazione. Nel 1946 Stalin promulgò una legge con cui concedeva l’amnistia agli esuli offrendo loro la possibilità di ottenere la cittadinanza sovietica se fossero tornati in patria e, adulati da un’abile propaganda che prometteva loro grandi cambiamenti, alcuni decisero di rientrare; altri, pur rimanendo all’estero, collaborarono attivamente con l’Unione dei patrioti sovietici e promossero una arriva propaganda a favore della Russia. Solo nel 1947 fu possibile avere un organo apertamente antisovietico che difendesse i valori dell’emigrazione, la “Russkaja mysl’” (Il pensiero russo)5.

5

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Negli anni Cinquanta, New York divenne la nuova capitale delle letterature russe in esilio, grazie anche alla pubblicazione di decine di opere di scrittori rappresentanti delle due emigrazioni.

La letteratura del terzo disgelo6, così come la definisce Zolotusskij, è caratterizzata da una mescolanza di idee, tempi, nomi e generazioni, riuniti sotto l’unico vessillo della rinuncia all’idea di violenza, della libertà di parola di cui tutti, morti e vivi, esiliati e non, devono godere.

Tale ideale di non violenza è maturato nella letteratura russa in tempi abbastanza recenti, in quanto fin dalla metà del XIX secolo, gli scrittori vivevano in opposizione a qualsiasi regime, capitalista o socialista che fosse. La violenza era reputata uno strumento necessario al progresso che trovò seguaci disposti a metterla in pratica, ma che fu combattuta da scrittori quali Puškin, Gogol’, Tolstoj, Čechov e Dostoevskij che per questo subì la deportazione.

La letteratura russa non si basava su un ideale di violenza, ma su una graduale evoluzione della continuità storica e su uno sviluppo naturale che non si deve opporre all’uomo e alla natura. Questa visione culturale si interruppe con gli eventi della rivoluzione del 1917. Tutti gli insegnamenti lasciati dai grandi classici russi rimasero inascoltati e l’unica risposta alla repressione e alla disuguaglianza sociale fu la violenza. «L’intelligencija fu più o meno annientata, e con l’intelligencija furono annientati l’esercizio della libertà di spirito, e pertanto la letteratura7», che fu sostituita da un’altra gestita dallo stato.

In seguito a ciò alcuni scrittori si allontanarono dall’Unione Sovietica, altri scelsero il silenzio, altri ancora furono uccisi. Nel corso

6 Cfr. I. ZOLOTUSSKIJ, La letteratura del terzo disgelo, in AA. VV., Storia della letteratura

russa. Il Novecento, vol. III, Einaudi, Torino, 1991, pp. 1019-1039.

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degli anni successivi si assisté ad una frattura: da una parte iniziava una nuova era, dall’altra la storia faceva ancora sentire i propri effetti e molti letterati si rifugiarono nella letteratura del passato, quella del XIX secolo. Il regime, però, rifiutò entrambe le correnti. Simbolo della ribellione alle imposizioni ideologiche furono Solţenicyn per la prosa e Brodskij per la poesia, le cui opere furono messe al bando e loro stessi furono esiliati.

L’apparente successo delle teorie governative portò alla ribalta scrittori come Michail Alekseev e Anatolij Ivanov, premiati da numerose onorificenze, ma che in realtà non godevano dell’approvazione del popolo. Il confronto esplose tra una letteratura governativa, di parata e di servilismo, e una priva di costrizioni imposte dall’alto. «La seconda si diffuse grazie all’esistenza di scrittori che non esitarono ad affrontare lo Stato e uscirono vittoriosi dallo scontro8».

Questa contrapposizione vide schierati da una parte i romanzi dei dissidenti che rimasero nella clandestinità e dall’altra la critica dei tempi, attraverso la descrizione delle sofferenze del popolo durante e dopo la guerra. Ma questo vittorioso conflitto a cosa aveva portato?A nulla, visto che si continuava a soffrire nella povertà e il regime si era fortificato.

V. T. Šalamov ne I Racconti di Kolyma afferma che la gente che tornava dalla guerra per essere mandata nei campi era diversa, non più disposta a sottomettersi alla polizia politica che tentava di evadere e insorgere contro i carnefici.

Un inferno, il lager, che per Šalamov è fatto a somiglianza del mondo, così che lo scrittore – a differenza di Solţenicyn – non sviluppa nei suoi testi

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invettive o considerazioni politiche, ma indaga il processo di disumanizzazione di cui è permeato l’universo concentrazionario9

.

Questi racconti furono pubblicati durante la nuova era delle riforme di Gorbačѐv, ma risalivano ai primi anni Settanta quando Chruščѐv cercò una nuova apertura che, tuttavia, fu osteggiata. Il tentativo di diffondere uno spirito di sottomissione non attecchì, il pensiero divenne più libero rispetto agli anni Trenta e la macchina dello Stato cominciò a perdere colpi.

Alla fine degli anni Settanta, nonostante la volontà di apertura e di riforma che Gorbačѐv impresse alla propria politica, gli scrittori lanciarono segnali di malcontento ed il terzo disgelo ebbe inizio.

Quest’ultima emigrazione coinvolse soprattutto dissidenti ed ebrei in fuga dall’URSS in seguito al clima discriminatorio che si era diffuso nel paese. Grazie alla promulgazione del Jakson-Vanik amendment10, che dal 1974, permetteva alle minoranze religiose soprattutto di origine ebraica di abbandonare l’Unione Sovietica, migliaia di cittadini poterono raggiungere gli Stati Uniti11.

9 S. GARZONIO, in «Il Manifesto», 08/01/2010.

10 Il Jackson-Vanik amendment, promosso dal senatore H. M. Jackson e da C. Vanik, aumentò le

tasse doganali ai paesi che impedivano ai propri cittadini di emigrare liberamente.

11

M. PEROTTO- C. AMBROSI, Emigrazione e bilinguismo. Realtà russofone a confronto, in «Studi Slavistici», Firenze VI (2009), pp. 171-195, qui p. 173.

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2.2 Pёtr Vajl’

«Петя – просто как Человек эпохи Возрождения – Говорил обо всем»

Ivan Tolstoj (Radio Svoboda)

Il 7 dicembre 2009, proprio mentre stavo completando il lavoro di

stesura della presente tesi, Pѐtr Vajl’ moriva all’età di sessant’anni, nel suo letto d’ospedale di Praga, dove era in coma da circa un anno per gravi disfunzioni cardiache.

Nelle pagine iniziali di Karta Rodiny, Vajl’ presenta se stesso:

Я родился в первой половине прошлого века. Так выглядить 1949 год из нынешних дней. Так время помещает тебя без спросу в епос. В пространство – в историю. Москвич-отец с эльзаскими корнями и ашхабадка-мать из тамбовских молокан поженились в Германии, я родился в Риге, много лет прожил в , я родился в Риге, много лет прожил в Нью-Йорке, эти строки пишу в Праге12 .

Scrittore, giornalista, conduttore radiofonico, redattore generale della sede russa di Radio Svoboda, dove ha lavorato per più di vent’anni, era molto amato e rispettato dai colleghi che lo ricordano come una mente brillante e saggia, la cui partecipazione ai dibattiti dell’etere era sempre richiesta da tutti i conduttori.

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Si laurea presso la facoltà di editoria dell’Università statale di Mosca nel 1975 e da giovane svolge i mestieri più vari: dal pompiere allo scaricatore, dall’artigiano all’attrezzista. Svolgere lavori umili, tuttavia, non era considerato un disonore per gli intellettuali che, così facendo, si guadagnavano da vivere e potevano dedicare il proprio tempo libero alla cultura. Per tre anni lavora come giornalista presso la redazione del giornale lettone in lingua russa Sovetskaja Molodёž’.

Nonostante i giovani di buona famiglia non entrassero quasi mai a far parte dell’esercito perché questo per loro era considerato uno spreco di tempo e un’attività poco degna, Vajl’ decide di arruolarsi all’età di vent’anni, quando, sostiene lui stesso, «у меня еще не было настоящего доверия к жизни, я был увежден, что попал в беду13».

Nel 1977, seguendo la scia del terzo disgelo, si trasferisce negli Stati Uniti e vive a New York fino al 1995, dove lavora per diversi giornali e riviste russe, tra cui il Novij Americanec diretto da Dovlatov, un altro scrittore e giornalista di spicco emigrato in America alla fine degli anni Settanta.

Dal 1988 collabora con Radio Svoboda, all’inizio in qualità di freelance, successivamente come collaboratore stabile della sezione di New York, di cui diviene direttore nel 1992, dalla quale conduce i programmi Poverch Bar’erov e USA Today.

Quando gli chiedono perché se ne fosse andato dalla Russia Vajl’ risponde che non sono stati di certo i motivi economici a spingerlo ad emigrare. Uno dei motivi principali, racconta, era che «[...] я очен хотел видеть, то что мне хочется видеть, и читать то, что мне хочется читать.

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И то и другое в Советском Союзе было невозможно14». Ancora un’altra

ragione lo ha convinto ad andarsene, il fatto che a ventisette anni, tanti ne aveva quando ha lasciato la patria, se fosse rimasto in Russia avrebbe potuto prevedere lo scorrere della sua vita fino alla fine. Non poteva vivere con una simile consapevolezza, perché se c’è qualcosa di bello nella vita è il suo essere imprevedibile.

In una delle sue ultime interviste15, rilasciata un paio di anni fa, Vajl’ racconta di quando è arrivato in America insieme alla moglie e al figlio. Non era spaventato, ricorda, ancora a casa si immaginava a cercare lavoro presso le redazioni dei giornali russi di New York. Magari persino alla casa editrice Čechov, che negli anni Cinquanta aveva pubblicato molte opere di scrittori delle due precedenti emigrazioni e, nel 1953, una nuova antologia della poesia russa, Na Zapad16. Una volta là, scoprì che la Čechov era stata chiusa, ma nonostante ciò, il giornalista riuscì ugualmente a trovare lavoro:

Буквално через пару дней после нашего приезда я взял две байки, которые написал еще будучи в Италии в ожидание американской визы, и с сынишкой пошел пешком – денег на транспорт не было – довольно-таки далеко, кварталов пятьдесят, в русскоязычную газету “новое русское слово” – орган еще первой вольны эмиграции, махровая антисоветская газета была. Статьи взяли, а уже через две недели приняли в штат17 .

Se solo leggendo degli appunti che aveva scritto, Vajl’ è stato assunto nella redazione di un giornale significa che, di certo, non era uno da

14 «Российская Газета», Федеральный выпуск № 4722 от 6 августа 2008 г. 15 Cfr. www.aif.ru/culture/article/31528

16

Cfr., R. GUERRA, L’emigrazione russa dagli anni Trenta agli anni Sessanta, cit., p. 148.

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poco – commenta il giornalista che lo stava intervistando dopo una tale risposta. La carriera che il nostro autore intraprenderà in questi anni ci dimostra che aveva ragione.

Oltre ai numerosi articoli e saggi che scrive per i giornali, pubblica anche molti libri, sia da solo che in collaborazione con il suo amico letterato Aleksandr Genis, anch’egli emigrato negli Stati Uniti poco prima di lui. Tra i tanti ricordiamo Stichi pro menja (2006), in cui Vajl’ parla di letteratura, degli autori e dei testi che hanno influenzato direttamente la sua vita; in Genij Mesta (1999), ossia quello che i Romani chiamavano genius loci, cioè il legame tra Genio e luogo fisico, l’autore compie interessanti parallelismi tra alcune città e le personalità importanti a cui queste hanno dato vita, Joyce è inevitabilmente legato a Dublino, Gaudì a Barcellona e via dicendo. Insieme ad Aleksandr Genis ha scritto Russkaja kuchnja v izgnanii, una raccolta di saggi e di componimenti che, prendendo spunto dal tema gastronomico, tracciano una breve storia delle tradizioni legate alla cucina russa, priva di una letteratura inerente a tale tema; Rodnaja Reč’ e Amerikana.

Con il collega e amico Genis scrive anche 60-e Mir Sovetskogo Čeloveka, testo che si propone di ricostruire l’immagine dell’uomo sovietico ai tempi del disgelo. Ogni capitolo analizza uno degli aspetti culturali che hanno plasmato la vita e la visione del mondo nella Russia degli anni Sessanta. Gli autori descrivono l’atmosfera di quell’epoca iniziata con il XXI Congresso del PCUS nel 1961 che dà il via all’era delle utopie: «Коммунизм, будучи в основе своей литературной утопией, осуществлялся не в делах, а в словах18

». Il naufragio decisivo delle

18

P. VAJL’ – A. GENIS, 60-e. Mir Sovetskogo Čeloveka, Novoe Literaturnoe Obozrenie, Moskva, 2001, p. 312.

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ideologie degli anni Sessanta avviene nel 1968, con l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia.

Nel 1995 Vajl’ si trasferisce a Praga, diventa l’assistente del direttore della sezione russa per l’informazione di Radio Svoboda e in seguito presenta un ciclo di programmi dal titolo Geroi Vremeni. Qui continua a lavorare come giornalista e conduttore fino al 2008, quando le sue condizioni di salute si aggravano improvvisamente e lo conducono al coma.

Nel 2007, durante un lungo viaggio in Italia con la moglie, Vajl’ inizia a lavorare al suo ultimo libro, Kartiny Italii, che purtroppo non vedrà mai la luce. Il titolo, racconta la vedova in un’intervista a Radio Svoboda, ha un duplice significato: Kartiny come produzione artistica e come ritratto dell’Italia contemporanea, che l’autore amava molto. Si era dedicato in particolare al Trecento e al Quattrocento da cui era molto affascinato. Soltanto tre capitoli sono stati ultimati: Giotto, Simone Martini e i fratelli Lorenzetti.

Quando il giornalista è entrato in coma, un anno prima della sua morte, per problemi cardiaci, molti dei suoi amici hanno voluto ricordarlo con le parole dell’ultimo capitolo, intitolato Serdečnyj Pristup del suo libro Stichi pro menja, parole che sembrano quasi un presagio a quella che sarà la sua triste sorte:

Однажды в Москве, к тому же для досадного извращения не где-нибуд, а на любимых Патриарших Прудах, у меня случился приступ межреберной невралгии. Полдня я был уверен, что это инфаркт. [...]

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Все близкие и дорогие мне люди именно так и помирали: отец, мать, Юрка Подниекс, Довлатов, Бродский. Не лучше же я их. Так что возникло ощущение чего-то вроде наследственности19

.

2.3 Karta Rodiny

Karta Rodiny viene pubblicato in due diverse edizioni: la prima è quella del 2002; la seconda, su cui mi sono basata per la stesura del mio lavoro di tesi, esce presso la casa editrice KoLibri nel 2008, modificata e arricchita dall’autore.

L’opera può essere definita, analogamente al precedente Genij Mesta, un esempio di prosa di viaggio. Tra le due, però, c’è una differenza: mentre in Genij Mesta l’autore ci parla di città straniere, in Karta Rodiny, invece, il viaggio viene interamente compiuto attraverso il “perimetro dell’impero”, come egli stesso intitola una parte della sua prosa, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo.

Le impressioni di viaggio sono distribuite in nove sezioni, ognuna delle quali raccoglie gli appunti di una delle zone visitate da Vajl’. L’impostazione dei capitoli sembra seguire un ipotetico percorso circolare che, partendo dalla Russia europea, lo vede tornare a Mosca dopo aver attraversato gran parte del Paese. Da ovest si sposta verso est, attraversa la Siberia, l’Estremo Oriente e la penisola della Kamčatka; si spinge a sud, oltre i confini federali, dove tocca i territori di Georgia, Azerbaigian e Cecenia. L’anello si chiude con la capitale, una “fetta di pianeta”, la

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definisce lui. Nella parte conclusiva, invece, l’autore ripercorre la storia della propria famiglia fin dalle origini e la sua storia personale, fatta anch’essa di continui spostamenti.

Nella prefazione all’edizione del 2008, Vajl’ descrive così le condizioni in cui, a suo parere, versa oggi la Russia:

Нынешняя страна – причудливая смесь из 90-х, когда наметился путь к цивилизованной норме, и прежних советских времен. Нельзя не замечать расцвета предпринимательства, но и кукольного парламента и обилия изображений первого лица. Свобода передвижений по миру и невиданное разнообразие бесконтрольного книжного рынка сочетаются с удручающе знакомым единообразием телеканалов и журналистской самоцензурой20 .

Non c’è da stupirsi, pertanto, se molta della critica ufficiale ha storto un po’ il naso quando Karta Rodiny ha fatto la sua comparsa sulla scena. La pungente ironia e il sarcasmo dell’autore, che osserva la Russia attuale e quella sovietica dall’alto della sua posizione di fuoriuscito, non possono che attirare l’antipatia dei filogovernativi. Anche chi, come la giornalista Elena Fanajlova, che lo elogia come scrittore e come intellettuale, afferma: «[...] многие на Вайль рассердились: в эпоху нового патриотизма писать о России так критически стало немодно21».

Secondo Vajl’, l’equilibrio sociale coincide con la comprensione dei concetti di nazione, stato, cultura e popolo. In Russia queste categorie non

20

P. VAJL’, Karta Rodiny, cit., p. 10.

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sono mai state connesse tra di loro, sono solamente coesistite. Per questo la patria si può amare, ma rispettarla diventa difficile22.

Mentre la visione della realtà di Gor’kij, in visita alle Solovki, è offuscata dalla lente delle lacrime, quella dell’autore sembra essere nitida e priva di quella mancanza di consapevolezza storica che caratterizza parte degli intellettuali russi del Novecento e che conduce inevitabilmente a negare la propria libertà di espressione. Questo è dovuto sicuramente al fatto che Vajl’ se ne era andato da quel Paese che definisce “patria” e che adesso osserva attraverso il filtro della cultura occidentale, la quale gli consente di avere una visione più oggettiva degli eventi del passato.

La solidarietà incondizionata verso chi è oppresso, la condanna della stupidità umana, l’idea della Russia come insieme di popoli diversi che il potere si ostina a tenere insieme. Questi sono alcuni dei temi maggiormente trattati nelle pagine di Karta Rodiny, il cui stile è difficilmente annoverabile in un genere preciso: vicino alla cronaca giornalistica, potremmo definirlo, ma imperniato anche di una soggettività semi-poetica che crea un effetto spesso straniante nel lettore.

La narrazione è intrisa di annotazioni e commenti che sembrano non avere un legame concreto con il flusso del discorso, ma che, invece, colorano il testo con le impressioni personali dell’autore. Quando, ad esempio, Vajl’ cammina per le strade della devastata Groznyj, osserva: «[...] дома разрушенные гораздо больше похожи друг на друга, чем целые дома23

». Tale affermazione non vuole essere soltanto una mera constatazione di quello di cui l’autore è testimone, bensì una sorta di correlativo oggettivo del suo stato d’animo.

22

Cfr. P. VAJL’, Karta Rodiny, cit., p. 10.

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Altro elemento ricorrente nello stile dello scrittore è quello dell’ironia tragica, del pungente sarcasmo che non risparmia mai niente e nessuno e pervade di amarezza l’intero racconto. Se nella tragedia classica questo procedimento era il presagio della catastrofe, qui diviene quasi un memento, che fa nascere un fugace sorriso sulla bocca del lettore, subito spento dalla rottura della momentanea illusione. Il breve capitolo sulla visita al museo di Stalin nella cittadina georgiana di Gori è tutto giocato sulla messa in ridicolo della figura del leader, le cui crudeltà ed efferatezze vengono poste in secondo piano. Tuttavia, anche quando il tono del racconto è dichiaratamente drammatico, come nel caso della guerra in Cecenia o dei lager alle isole Solovki, il sarcasmo non manca. Il primo capitolo sulla guerra in Cecenia, ad esempio, si apre con un’amara constatazione: «Мы с коллегами-журналистами не раз попадали под беспокоящий огон, но не знали, что это так называется24

». Anche la descrizione dell’ostentata eleganza degli OMON ai posti di blocco, volta a comunicare una parvenza di disciplina e di autocontrollo, desta una certa ilarità: il loro stupido bisogno di prevalere emerge perfino dalla attenzione che prestano al proprio abbigliamento.

A Vajl’, tuttavia, non piace generalizzare: non ritiene che un popolo possa essere ritenuto colpevole degli errori dei propri governanti, anzi è convinto che le singole voci siano più importanti del coro. Questo suo pensiero emerge in maniera evidente in un passo di Karta Rodiny, in cui il giornalista inserisce un interessante flash-back nel racconto di una sua visita in Bielorussia, dove era stato invitato in occasione di una cerimonia commemorativa. L’autore, come premessa al suo pensiero, ricorda un episodio che gli è capitato in America all’inizio degli anni Ottanta, mentre

24

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attendeva il suo turno per giocare a biliardo insieme ad alcuni suoi connazionali in un locale del West-Side. I russi, che di solito preferiscono giocare “all’americana”, si erano sentiti apostrofare così dagli avversari: «По своим правилам будете играть в Афганистане!25». Servendosi di questa introduzione, Vajl’ ci racconta la presa di posizione di Kundera in seguito all’occupazione sovietica di Praga: lo scrittore ceco, attribuendo un giudizio di valore negativo a tale azione militare, arriva a screditare persino la letteratura, simbolo di quel popolo. Si rifiuta, quindi, di comporre un adattamento dell’Idiota di Dostoevskij e scrive su di lui un articolo polemico in cui lo giudica addirittura ripugnante. La risposta di Brodskij, dunque, non tarda ad arrivare:

Шок Кундеры [...] вызывает сочуствие, но только до того момента, когда он начинает пускаться в обобщения на тему этого солдата и культуры [...] Страх и отвращение вполне понятны, но никогда еще солдаты не представляли культуру, не говоря уж о литературе, - в руках у них оружие, а не книги26 . 25 Ibidem, p. 261. 26 Ibidem.

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3 ARMONIA E ORRORE NELLA RUSSIA DEI LAGER

3.1 L’arcipelago delle Solovki: dai santi ai dannati

Le Isole Solovki si trovano nel Mar Bianco, a circa 160 Km dal Circolo Polare Artico. Secondo alcuni studiosi, per lungo tempo, il suo territorio è rimasto privo di insediamenti stabili: nella coscienza degli antichi le isole sorsero dal Caos nell’atto della creazione e rappresentavano, quindi, il confine tra il mondo terreno e l’aldilà, tanto che vi si poteva accedere soltanto per compiervi dei rituali sacri, oppure per la sepoltura di sovrani ed eroi27.

Nonostante le antiche credenze, all’inizio del XV secolo, per la precisione nel 1435, sull’arcipelago fu eretto un monastero ortodosso. Grazie all’opera del monaco Savvatij e dello starec German fu istituita la prima fondazione ai piedi del monte Sekira, dove oggi si estende la località di Savvatievo. Dopo la morte di Savvatij arrivò sull’isola l’eremita Zosima che decise di edificare un monastero proprio nel luogo in cui, secondo la leggenda, ebbe la visione di una chiesa sospesa nei cieli. Cominciò, dunque, con la costruzione della Preobraženskij Sobor (Cattedrale della Trasfigurazione).

Nel XVI secolo, san Filipp Kolyčev fu egumeno28 finché non venne eletto metropolita di Mosca nel 1566. San Filipp curò molto l’edilizia del monastero: nel 1552 fece costruire la Uspenskij Sobor (Cattedrale della Dormizione della Vergine), il refettorio e l’economato. Fu giustiziato nel

27 Cfr. J. BRODSKIJ, Solovki. Le isole del martirio, La Casa di Matriona, Bergamo, 1998, p. 9. 28

Nella chiesa ortodossa, la figura dell’egumeno (o igumeno) svolge la funzione di guida del monastero, come l’abate per la chiesa cattolica.

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1569 dal boia Maljuta Skuratov per aver condannato i crimini di Ivan il Terribile il quale lo sospettava di tradimento.

Le isole, da desolate che erano, divennero in poco tempo meta ambita di pellegrinaggi per monaci e laici, tanto che, per difendere il proprio territorio, il monastero fu costretto a mantenere un esercito, emanare delle leggi ed erigere un tribunale che si sostituì a quello statale.

Per otto lunghi anni, dal 1668 al 1676, le truppe delle Solovki si trovarono costrette a fronteggiare il contingente moscovita inviato dallo zar A. N. Romanov (1645-1676), sostenitore della riforma religiosa del patriarca Nikon, contro gli starobrjadcy, i vecchi credenti, che il monastero difendeva29. Il tradimento di uno dei monaci, Feoktist, che rivelò ad un boiaro dello zar il passaggio segreto nelle mura, portò alla capitolazione del monastero che, tuttavia, vista l’ingente quantità di viveri e di acqua, avrebbe potuto sopravvivere ancora a lungo.

All’inizio del XX secolo, la situazione economica delle Solovki era decisamente fiorente: l’arcipelago possedeva una flotta, una delle prime centrali idroelettriche, un’ampia rete di industrie e una stazione radio. Nel 1904, un gruppo di soldati reduci dalla sconfitta di Port Arthur della guerra russo-giapponese, si unì alla comunità religiosa tentando di conquistare il potere nel monastero. Riuscirono a deporre il superiore, Ioanniki, e ne elessero un altro, Veniamin, che, tuttavia, non risultò essere di loro gradimento e pertanto la battaglia continuò. La venuta dei bolscevichi fu vista dai monaci come un aiuto da parte del potere sovietico per l’organizzazione della vita monacale. I frati non avevano previsto che,

29 Nella seconda metà del XVII secolo, si era diffusa una nuova corrente che portò alla divisione

della Chiesa russa in Chiesa ortodossa ufficiale e movimento dei Vecchi Credenti. Il patriarca Nikon, promotore della riforma, mirava a riportare in vigore la tradizione greca e a ristabilire l’uniformità di quest’ultima con la tradizione antico-russa. Nikon trovò molti oppositori: coloro che condannarono i suoi principi innovatori presero il nome di vecchi credenti.

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invece, la venuta dei comunisti avrebbe significato la fine delle consuete forme di vita30.

E fu così che nel 1920, sul territorio del monastero fu creato un campo di concentramento per i prigionieri della guerra civile e questo, nel 1923, fu trasformato nel complesso dello SLON, i “Lager a Destinazione Speciale delle Solovki”. Scrive Solţenicyn:

Tacquero le campane, si spensero i lumini davanti alle icone e le candele, non risuonarono più messe e vespri [...], ma in compenso ardimentosi čekisti con i cappotti lunghissimi, fino alle caviglie, [...] arrivarono nel giugno 1923 per creare un lager modello, di esemplare durezza, orgoglio della Repubblica operaia e contadina31.

La “specialità” dei lager delle Solovki consisteva nel fatto che i detenuti che vi soggiornavano erano considerati una minaccia per l’ideologia sovietica. Qui giunsero, infatti, tutti coloro che avevano una formazione estranea a quella comunista e che avrebbero potuto favorire la nascita di un’opposizione forte, i cosiddetti “controrivoluzionari”. Tuttavia, ricorda il prigioniero Širjaev32, era difficile trovare una persona che conoscesse con precisione il motivo della sua deportazione: c’erano camerieri sospettati di aver collaborato con gli insorti, prostitute, liceali con la sola colpa di essersi riuniti nel giorno della festa studentesca, marinai anarchici e professori.

I deportati giungevano nell’arcipelago ammassati nelle imbarcazioni come bestie e, non appena approdavano sull’isola, senza neanche dar loro

30 Cfr. J. BRODSKIJ, Solovki. Le isole del martirio, cit., pp. 12-13. 31

A. SOLŢENICYN, Arcipelago Gulag, Classici Mondadori, Milano, 1975, vol. II, p. 34.

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tempo di capire dove erano finiti, dovevano subito iniziare a lavorare, redarguiti dalle urla incessanti delle guardie. «Lavoravano tutti, sani e malati, giovani e vecchi, senza sosta e fino a completo esaurimento delle forze...»33.

Il duro lavoro, che superava le dodici ore al giorno, non era il solo fardello che i condannati dovevano sopportare. Le punizioni inflitte per “inadempienza della norma” erano ai limiti della tolleranza umana, morale e fisica insieme: chi non riusciva a mantenere il ritmo veniva trattenuto nel bosco al gelo per ore, spesso dopo averlo spogliato, al malcapitato veniva gettato addosso un secchio d’acqua che gelava a causa delle temperature polari, che oscillavano costantemente tra i meno venti e i meno quaranta. D’estate, invece, si veniva esposti alle torture delle zanzare, di cui sull’isola sopravvivevano più di trenta specie differenti e che mordevano a sangue i corpi nudi.

Ben più temuto delle consuete punizioni fisiche, era l’isolamento punitivo sul monte Sekira, che in russo significa “la scure”. Chi riusciva a sopravvivere alle torture di solito ne usciva fuori molto provato, ridotto quasi ad una larva umana. La leggenda vuole che nel XV secolo gli angeli avessero frustato una donna che era arrivata sull’isola per tentare i monaci. In memoria di tale prodigio, sulla cima del colle venne edificata una cappella e, nel XIX secolo, una chiesa34. Nella cattedrale erano allestite le celle di rigore, in cui ai detenuti venivano somministrate pene infernali. Come quella delle “pertiche”, cioè lunghe tavole di legno infisse da un muro all’altro su cui bisognava stare seduti tutto il giorno, ad un’altezza tale che i piedi non toccavano mai terra. Chi cadeva veniva picchiato. Famosa era anche la “scala”: un uomo veniva portato su una scala di 365 gradini

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J. BRODSKIJ, Solovki. Le isole del martirio, cit., p. 52.

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che i monaci avevano costruito per collegare la cattedrale al lago, veniva legato ad un tronco e lasciato rotolare giù35. Quello che arrivava in basso era un cadavere emaciato e con le ossa rotte.

Ad aggravare le condizioni di salute dei prigionieri era anche la scarsa alimentazione che, secondo la testimonianza di Zajcev, forniva soltanto la metà delle calorie all’organismo umano non sottoposto a fatica fisica36. Chi riceveva dai familiari soldi o razioni di cibo, riusciva in qualche modo a sopravvivere, gli altri erano condannati a morire di stenti o di malattie, come lo scorbuto, legate alla scarsa assunzione di vitamine.

Altra insidia per la vita dei deportati erano le crudeltà e le efferatezze che alcuni comandanti delle postazioni di lavoro si divertivano ad infliggere ai reclusi. I nomi di due di loro, gli aguzzini più scellerati del lager, sono spesso ricordati nelle memorie dei detenuti: Potapov e Nogtev. Il primo, che aveva sotto al suo comando la squadra di addetti al taglio dei boschi, uno dei lavori più massacranti soprattutto a causa delle basse temperature, era solito accendere un falò per riscaldarsi e si sedeva lì accanto con la sua arma in bella vista. Se qualcuno osava accostarsi, non esitava a sparare. A volte si divertiva a giocare alla “fucilazione”: sparava dei colpi a bruciapelo vicino all’orecchio o ai capelli di un prigioniero e poi lo costringeva a seppellirsi nella neve37. Nogtev, invece, viene rammentato da Širjaev come una persona dalla cui fantasia psicotica «ora ebbra ora cupamente sobria, dipendeva non solo ogni nostro passo, ma anche la stessa vita»38. Ogni qual volta arrivava un contingente di nuovi prigionieri, egli uccideva a caso uno o due dei nuovi arrivati, tanto perché tutti capissero che, oramai, nessuno

35 A. SOLŢENICYN, Arcipelago Gulag, cit., vol. II, pp. 39-40. 36 Cfr., J. BRODSKIJ, Solovki. Le isole del martirio, cit., p. 74. 37

Ibidem, p. 119.

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aveva più via di scampo, né godeva più di alcun diritto o di possibilità di protesta: doveva soltanto sottomettersi ed obbedire alla legge delle Solovki.

Nel 1929, una visita importante destò speranze e illusioni tra i detenuti: giunse nell’arcipelago Maksim Gor’kij. Lo scrittore era stato inviato sull’isola dal regime per smentire alcune voci che si erano diffuse in Europa in seguito alla fuga di un prigioniero dal porto di Kem’, di fronte alle Solovki. Il fortunato, la cui evasione divenne celebre, conosceva l’inglese ed era riuscito, dunque, a mettersi d’accordo con i britannici che lo avevano nascosto. Successivamente, in Inghilterra era uscito un libro, L’isola infernale di S.A. Malgazov, che aveva lasciato sotto shock l’intera Europa, in quanto contraddiceva totalmente l’opinione comune sul lager che il governo aveva diffuso pubblicando album di fotografie con accoglienti celle39.

Tra i reclusi delle Solovki si fece largo la convinzione che Gor’kij avrebbe posto fine alle loro angosce e oppressioni, che non avrebbe taciuto. In previsione del suo arrivo, le autorità si erano date da fare per far apparire il lager al meglio in modo che lo scrittore non sospettasse di nulla: avevano fatto pulizia, dimesso i malati dalle sezioni sanitarie, avevano addirittura lavorato la terra. Sul monte Sekira, il luogo in cui si svolgevano le efferatezze più crudeli, tolsero le “pertiche” sostituendole con dei tavolini su cui posero dei giornali e ordinarono ai detenuti di far finta di leggere. Molti, allora, tennero i giornali capovolti. Gor’kij se ne accorse, ma non disse niente: girò il giornale di uno di loro e se ne andò40.

Tutti erano convinti che lo scrittore avrebbe parlato. «Lui non lo infinocchiano»41, ricorda il prigioniero Nikonov. A dare conferma ai

39 A. SOLŢENICYN, Arcipelago Gulag, cit., vol. II, p. 62. 40

Cfr., J. BRODSKIJ, Solovki. Le isole del martirio, cit., p. 189.

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sospetti dell’ “inviato speciale” fu il racconto di un ragazzino di quattordici anni che pagò con la propria vita l’amore per la verità. Il giovane lo prese da parte e gli chiese se volesse davvero sapere come stavano le cose, perché tutto quello che gli avevano fatto vedere fino a quel momento non corrispondeva alla realtà. Gor’kij disse di sì, voleva sapere, e tutti ebbero l’ordine di lasciarli da soli, non solo i detenuti furono fatti allontanare, ma anche le guardie. Il quattordicenne non tralasciò nessun particolare, riferì tutto: delle zanzare, delle pertiche, di come gli aguzzini spingevano quei poveracci giù dalla scala42. Il povero scrittore si commosse, uscì dalla baracca in lacrime, ma non salvò la vita del ragazzo. Lo lasciò al suo triste destino, che fu compiuto non appena il letterato salpò dall’isola.

Il 1929 fu anche l’anno delle prime fucilazioni di massa a cui le Solovki assisterono. I tentativi di fuga furono molti e, quasi sempre, si concludevano con esito negativo: i prigionieri, infatti, venivano catturati dalle autorità e a quel punto o li si mandava sul Sekira, oppure venivano uccisi sul posto. Proprio uno di questi tentativi fu preso a pretesto da alcuni ufficiali per mettere in atto una fucilazione di massa. I detenuti venivano giustiziati sul bordo della fossa comune, spesso scavata da loro stessi, su cui poi ricadevano cadavere43.

Sempre nello stesso anno la direzione del lager si trasferì sulla terraferma, dove avevano sede i numerosi cantieri che questa aveva in gestione. I detenuti, in seguito alla sconfitta dell’opposizione trockista e buchariniana, moltiplicarono notevolmente. Negli anni Trenta, fu iniziata e portata a termine la grande opera intitolata a Stalin, che prevedeva la costruzione di un’arteria fluviale tra Mar Bianco e Mar Baltico44

.

42 A. SOLŢENICYN, Arcipelago Gulag, cit., p. 65. 43

Cfr., J. BRODSKIJ, Solovki. Le isole del martirio, cit., pp. 201-6

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Verso la fine del 1937, le autorità del campo decisero di eliminare il contingente principale dei prigionieri presenti sull’isola. In questa seconda ondata di fucilazioni di massa, vennero uccisi molti intellettuali, tra cui anche padre Pavel Florenskij, sacerdote ortodosso, filosofo e matematico a cui si attribuiscono numerose invenzioni nel campo della tecnica.

Nel lager si prevedevano grandi cambiamenti: il campo di concentramento, infatti, tra la fine del ’37 e l’inizio del ’38 venne trasformato in una prigione a regime ferocissimo, dove i detenuti non erano altro che un numero. Nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, per ordine di L. P. Berija, il carcere fu evacuato e il territorio dell’arcipelago fu utilizzato per organizzare una base della marina militare45.

Oggi le isole Solovki sono meta di pellegrinaggio per i fedeli che giungono a visitare il monastero e per i turisti che vogliono ammirare i capolavori architettonici e lo splendido paesaggio nordico.

3.2 Il dualismo delle Solovki: nell’arcipelago dove tutto è

possibile

La visita di Pѐtr Vajl’ nell’arcipelago delle Solovki comincia come un normale viaggio verso una meta qualunque: l’aereo che fatica a decollare per problemi di vento, i discorsi dei passeggeri sul treno. Improvvisamente in lui si fa strada la consapevolezza che quarant’anni prima l’esiliato Brodskij ha compiuto esattamente lo stesso percorso in una notte d’estate, quando il sole di mezzanotte non scende mai sotto alle palme del bosco.

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La prima impressione che l’autore ci comunica è quella di un luogo avvolto nella meraviglia della natura, quasi mistico per la sua bellezza, intriso di storia e di sacralità. Tali elementi positivi, tuttavia, si prestano sempre ad una duplice lettura. L’equilibrio della natura con i suoi laghi piatti circondati da betulle ondeggianti, i suoi licheni rossi e la varietà di bacche, la sottolineata assenza dei serpenti, stride con la presenza di altrettanti elementi che ne esaltano la negatività. Come ad esempio le specie di zanzare presenti sull’isola che sono più di trenta e il ghiaccio che ricopre il paesaggio per gran parte dell’anno e rende la vita particolarmente difficile. Il contrasto tra la natura e le brutalità di cui questa è spettatrice viene espresso dall’autore tramite l’inserimento di un inciso apparentemente illogico nel quale, passando da esotici alberi ondeggianti e scenografie da spettacoli di bambini, i tronchi di betulle bianchi e crema si trasformano improvvisamente nel triste giallo paglierino che, secondo Gogol’, non “dona” alla Mar’ja Antonovna del suo Revisore. Da qui prendono il via le considerazioni che l’autore compie sulla dissonanza che divide l’armonia delle Solovki dal comportamento umano in questo luogo.

Per quanto riguarda la sacralità, le cupole del monastero di Zosima e Savvatij dalle quali si osserva un panorama sorprendente nascondono, tuttavia, funesti presagi: in un’icona che raffigura i due santi si staglia un simbolo trapezoidale contenente una finestra con un’inferriata. «ещо одно пророчество о лагере?46

», si chiede Vajl’. I locali del monastero furono da sempre adibiti a prigione e il loro utilizzo come celle di reclusione per gli zek dello SLON ne conferma il triste destino. A sottolineare la dualità dell’aspetto religioso che convive con la brutalità degli eventi l’autore dichiara: «Нет больше на свете места, где исступленная легкая

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жестокость так неразделимо перемешалась с памятью о подвигах веры, с томительной природной прелестью, с рукотворным каменным величием47

».

A questo punto si impone una lettura storica degli eventi che si sono susseguiti nell’arcipelago e che rivelano il destino tragico profeticamente annunciato nei segni interpretati da Vajl’. Il primo episodio bellico che si ricordi è la battaglia farsesca che avvenne tra la flotta inglese e l’esercito del monastero durante la guerra di Crimea che si combatté dal 1853 al 1856. I britannici, che avevano la sola intenzione di acquistare viveri e rifornimenti dal monastero, avevano cercato di avvertire i monaci con degli spari a salve; questi, però, avendo frainteso le loro intenzioni avevano aperto il fuoco dando inizio ad una battaglia che si concluse con la ritirata dei presunti invasori. L’unico vero combattimento che ebbe luogo alle Solovki si svolse, tra russi e russi, quando il monastero si rifiutò di accettare la riforma di Nikon che lo zar voleva imporgli.

Ma è con la trasformazione dell’arcipelago in lager che si apre la funesta storia della Russia del Novecento, che ha visto troppo spesso in lotta tra loro gli abitanti di questa terra.

Все на соловецкой земле кажется знаком и пророчеством. За два с половиной столетия до СЛОНа (Соловецкие Лагеря Особого Назначения) здесь убивали соплеменников и отказывали единоверцам в погребении48

.

La visita di Vajl’ ai campi di concentramento è scandita dalle parole di una guida che non entra nelle simpatie dell’autore. La ragazza, forse a

47

Ibidem, p. 88.

48

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causa della sua giovane età o per i filtri che la storia ha imposto a questo Paese, non percepisce il lager con la stessa intensità e vaglio critico del nostro giornalista. Non le piace menzionare gli avvenimenti del recente passato e trova più importante non sradicare i fiori piuttosto che informare i suoi turisti sulle condizioni in cui versavano i prigionieri del lager. Vajl’ rimane interdetto da questo comportamento e trova stridente il contrasto tra nontiscordardime e ninfee e un luogo che ha visto uccidere migliaia di persone.

Le Solovki, per come appaiono oggi, sembrano aver perso ogni traccia delle efferatezze che sono accadute tra i suoi boschi di betulle danzanti. I campi di concentramento del resto d’Europa conservano le testimonianze e i segni degli eventi drammatici in essi accaduti: le baracche dei prigionieri, i forni crematori, le camere a gas, i tanti documenti fotografici sono lì a ricordarci a quale grado di bestialità e violenza può giungere la perfidia umana.

Alle Solovki tutto ciò si ha l’impressione che scompaia. Le baracche degli zek sono abitate, ancora oggi, dalla popolazione locale che raggiunge il migliaio di residenti, in una di esse c’è una scuola dipinta di azzurro, l’ufficio postale, la banca e la stazione telefonica. Ogni traccia tende ad essere cancellata, anche attraverso quella che Vajl’ definisce epurazione geografica nella quale i nomi dei luoghi si adeguano alla storia dell’ultimo secolo: il lago “Beloe” diventa “Krasnoe”, quello “Krestovatoe” si trasforma in “Komsomol’skoe”.

Ma questo scenario di apparente normalità non inganna Vajl’, che si dimostra attento conoscitore della storia di questo lager. Prendendo spunto da ciò che vede intreccia il presente con il passato, come se davanti ai suoi

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occhi, sul pontile di Kem’, scorressero i deportati costretti a contare i gabbiani fino allo sfinimento per compiacere le guardie. «Выбранная жертва должна была во всю силу легких кричать: “Чайка – раз! Чайка – два! Чайка – три!” - и так до обморка от надрыва. Не просто, не тупо, с выдумкой, с полетом. Народ-поэт49». Un poeta del popolo, commenta

ironicamente Vajl’.

E ancora, vediamo la signorina Sima entrare in un negozio di generi alimentari col suo nuovo completino giallo comprato a Kem’, un tempo campo di transito in cui i prigionieri attendevano di essere trasferiti alle Solovki.

Le informazioni più crude sulle condizioni di vita nel campo dell’arcipelago sono dettagliatamente riprese dal libro di Jurij Brodskij “Solovki. Venti anni di destinazione speciale”, che il nostro giornalista ha avuto l’occasione di sfogliare quando era ancora in forma di manoscritto. Dalle testimonianze dei prigionieri emergono torture aspre e crudeli che avrebbero indignato chiunque. La condanna di Vajl’ emerge anche dal suo pungente sarcasmo che non risparmia nessuno e che è sempre presente, anche nei momenti più drammatici. Mentre si apprestava a salire sul monte Sekira, ad esempio, ribadisce la scarsa sensibilità storica dell’accompagnatrice turistica, più attenta ai nontiscordardime che alla memoria delle sofferenze subite in questo luogo.

Anche Gor’kij era stato sul Sekira nel 1929 e, come la guida, ne aveva notato le bellezze paesaggistiche e la solerte opera di chi vi aveva lavorato. Accenna soltanto alla presenza di furbetti e ai sorrisi falsi negli occhi dei detenuti. Questa volta la critica è aperta: «Где он был? Что за помрачение ума и таланта, которыми был наделен этот человек?

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Отчего не насторожила фальшь в глазах, если уж ее заметил?50».

Vajl’ rimprovera a Gor’kij di aver taciuto la verità di cui era sicuramente a conoscenza e addirittura di aver affermato che i lager come le Solovki sono indispensabili. Poiché lo status di uno scrittore avrebbe consentito a questo di esprimere giudizi sul potere, l’atteggiamento dell’araldo del regime non viene perdonato e le sue lacrime contribuiscono soltanto ad offuscare la visione della verità.

Anche il prigioniero Volkov, uno dei testimoni più citati nel libro di Brodskij, rimprovera allo scrittore Michail Prišvin, giunto in visita nell’arcipelago, di non aver saputo dar voce ai deportati, bensì di aver composto soltanto un polpettone servile. Lo stesso detenuto, in contrasto con la posizione del compagno Lichačѐv, sostiene che per sopravvivere alle Solovki fosse importante mantenere un’apparente normalità nei gesti quotidiani come lavarsi le mani, salutarsi tutti i giorni e non bestemmiare. La vita al campo, secondo Volkov, si basava sulla vendetta e sulla sua applicazione. Proprio su questo si è incrinata la sua fede: se, dopo aver assistito a persecuzioni e torture avesse fatto ricorso a preghiere solo consolatorie, non gli sarebbe stato possibile neppure farsi il segno della croce e credere in un Dio che permetteva un simile orrore.

La perdita della fede è legata anche alla consapevolezza che per riuscire a sopravvivere è necessaria una diversa soglia di moralità, la quale consente di giustificare piccoli peccati quali la delazione, la menzogna e il tradimento, che all’interno dei lager conducono a conseguenze drammatiche per gli altri, ma che a te consentono di sopravvivere senza guardarti troppo dentro, «знать о себе мерзости и с ними мириться51». Non si parla, ci dice l’autore, di nosci te ipsum, bensì di mors tua vita mea. La storia dei

50

Ibidem, p. 93.

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campi è dunque una storia di resistenza.

La storia della Russia, invece, è divenuta «[...] примером того, как не надо [...], Россия, [...] сыграла и играет роль подсознания52

», in quanto monito per l’Occidente che, guardando ai suoi eventi ha potuto capire che cosa sarebbe accaduto se non fosse stato per gli sforzi della religione, della morale, della legge e della civiltà.

La crudeltà umana raggiungeva il suo culmine sul monte Golgota, nell’isola di Anzer. In questo luogo la cui bellezza nulla ha da invidiare al resto dell’arcipelago, risiedevano i monaci più ricchi, quelli che potevano permettersi di acquistare da soli le proprie celle. Qui ci sono i resti degli scambi commerciali iniziati dal metropolita Filipp, numerose proprietà agricole e un fiorente commercio via mare. Questa ricchezza rende ancora più truce il paradosso con quanto è avvenuto su quest’isoletta all’epoca dei lager, contrasto reso ancora più evidente dal nome con cui fu contrassegnata l’altura: Golgota, che da semplice cimitero dei monaci divenne un unico grande sepolcro per le vittime del campo. Sul monte vennero compiute le efferatezze più crudeli, nessuno dei prigionieri che vi veniva inviato aveva la fortuna di fare ritorno.

Lungo la strada del rientro Vajl’ scorge delle alghe messe ad asciugare al sole, raccolte per produrre lozioni e creme di bellezza. Ancora una volta lo scrittore dà prova del suo sarcasmo affermando che, evidentemente, questo doveva essere lo scopo degli SLON.

La natura, che non si cura dell’uomo, ha inconsapevolmente fornito un “diversivo”: i visitatori delle Solovki tornano a casa dopo aver acquistato elisir di giovinezza, dimenticando per un momento le celle di rigore. La sua indifferenza è simile a quella che il Leopardi descrive nel “Dialogo della

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natura e di un islandese”, nel quale il viaggiatore, avendo cercato di sfuggire alle sofferenze provocate da questa al genere umano, si sente rispondere che per Lei la sorte dei singoli è completamente indifferente: ciò che deve perseguire è la conservazione della specie. Allo stesso modo, la natura delle Solovki prosegue impassibile il suo corso, mantenendo intatto il proprio mito «отсекая что не нужно, что мифу мешает. Не нужен - лагерь53».

A bordo dell’imbarcazione che lo riconduce sulla terraferma, Vajl’ ascolta, come all’andata, i discorsi dei suoi compagni di viaggio. Il cerchio si chiude con gli stessi futili argomenti uditi sul treno che lo portava ad Archangel’sk, quasi ci volesse far credere che quanto hanno appreso da questa visita necessiti di catarsi. La presenza dell’ “uomo di partito”, rende ancor più surreale il rientro. Il commento positivo sui prezzi bassi applicati nell’arcipelago rispetto a quelli kenioti, le corrette abitudini culturali dei tempi passati e la splendida luce che illumina le notti, sembrano un’ulteriore beffa all’esperienza appena vissuta. L’importante è non riconoscersi colpevoli della realtà dei lager, come la protagonista del film di Marina Goldovskaja che non individua la propria immagine riflessa nello specchio se non come “adulatoria distorsione”.

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4 IL MUSEO DI STALIN A GORI

Il capitolo in cui Vajl’ racconta la sua visita al museo di Stalin nella cittadina georgiana di Gori è sicuramente uno dei più ironici e divertenti di tutto il libro. È contenuto nella sezione Imperskij Perimetr, in cui l’autore racconta i suoi viaggi nelle ex Repubbliche sovietiche e nelle zone di confine della Russia meridionale.

La descrizione del museo in sé per sé non è molto particolareggiata, sembra quasi un pretesto che Vajl’ utilizza per parlare dei leader sovietici e di come questi apparissero agli occhi della gente. Una sorta di iconografia, volta a mettere in luce la loro immagine. La società di massa, che si è diffusa a partire dai primi decenni del Novecento, ha sicuramente favorito questo processo: l’apparenza, per i leader, diviene un elemento fondamentale nella costruzione del loro mito, quasi un supporto mediatico in grado di favorire un giudizio positivo da parte del popolo.

Questo concetto relativo ai valori della società di massa, che mettono in risalto il culto della personalità, sembra essere piuttosto di matrice occidentale. Stalin in realtà lo aveva ben recepito, in quanto, attraverso una delle sue battute, rimprovera il commissario dell’istruzione Bubnov di aver dichiarato che la storia è fatta dalle masse e non dai singoli. Il leader, invece, sottolinea il fatto che Napoleone non fosse soltanto una torta.

Stalin, nonostante fosse brutto, era dotato di grande carisma. Chi lo incontrava, come ci racconta Mikoša per bocca di Vajl’, non poteva che rimanerne inspiegabilmente ipnotizzato. Tuttavia, non era soltanto la sua forza ad attrarre così tanto.

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Finché fu vivo, Stalin fu circondato da una romantica aura di leggenda. [...] la sua immagine veniva rappresentata in pittura, letteratura, teatro, cinema e naturalmente in poesia. Stalin, in quanto natura romantica, al momento opportuno ricorreva lui stesso a modi di dire o a immagini capaci di far leva sui sentimenti; era assai benevolo e compiacente nei confronti di coloro che sapevano utilizzare bene i mezzi dell’arte e della parola scritta per descrivere la storia della sua vita, per interpretare le sue idee e le sue aspirazioni54.

Anche lui, assecondando il gusto letterario per scrittori come Bulgakov e Pasternak, si cimenta nella scrittura di poesie che soltanto l’omaggio alla sua statura politica, e non il loro valore artistico, gli hanno valso la traduzione in quattro lingue. Non basta sperare che in georgiano suonino più musicali, il contenuto dei versi è realmente di poco conto. L’unica annotazione rilevante è l’attenzione per la propria terra, per la quale si augura un futuro di pace e si spinge a definirla patria in un momento in cui non poteva ancora prevedere il futuro che lo attendeva come guida della Russia.

Il leader sembra essere consapevole di come questo processo di esaltazione della sua personalità sia il frutto di una artificiosa costruzione, come lui stesso tiene a sottolineare: «Должен вам сказать, товарищи, по совести, что я не заслужил доброй половины тех похвал, которые здесь раздавались по моему адресу. Я вынужден поэтому восстановить подлинную картину того, чем я был раньше [...]55

».

Le battute e le barzellette di Stalin fanno parte del suo carattere carismatico, è una comicità funzionale la sua, attraverso la quale incrementa

54

B. S. ILIZAROV, Vita segreta di Stalin, Boroli Editore, Milano, 2005, p. 158.

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la sua popolarità. Qualunque argomento poteva essere presto a pretesto per scatenare la sua ilarità, che ha volte rasentava la crudeltà, come nel caso dello scrittore Gide che fu definito un Giuda per aver cambiato opinione sulla Russia sovietica del ’37. Stalin, secondo Vajl’, faceva dello spirito dall’alto in basso. Questo era consentito dal ruolo che il leader rivestiva e che costringeva il popolo a divertirsi suo malgrado.

Tuttavia, non è soltanto il capo georgiano ad essere dotato di senso dell’umorismo: anche Chruščѐv aveva la sua dose di spirito, ma «он оказывался ниже и ближе56

». La comicità dei capi sembra essere dovuta al potere di vita e di morte che esercitano sulla gente. Man mano che questo potere si affievolisce, anche il loro umorismo perde forza. Il popolo non è più obbligato a ridere e di Breţnev si può senz’altro affermare che non si ricorda nulla di divertente nei suoi diciotto anni di governo. Da Gorbačѐv in poi questa teoria prende ancora più forza, «смех может оставаться, но он больше – не верховный57».

Tutti questi aneddoti sono serviti a costruire un’iconografia dei leader susseguitisi nella storia della Russia, rendendoli migliori agli occhi del popolo. Solo in anni recenti si è potuto parlare di loro in maniera diversa. Con la solita ironia, Vajl’ sottolinea la precisione di German nel film Chrustalёv! Mašinu!. Il regista ha saputo ricercare i particolari che ci permettono di conoscere Stalin sotto un aspetto più umano: «он злодей, он в аду будет грызть собственные кости, может быть, и сейчас грызет, но в этот момент я хотел, чтобы было жалко умирающего человека58».

La sua morte è quella di un uomo qualunque, con le stesse sofferenze e

56 Ibidem, p. 236. 57

Ibidem, p. 237.

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debolezze. Tutto questo contrasta nettamente con l’immagine ufficiale che emerge dalla visita al museo di Gori, dove ogni oggetto è simbolo della considerazione di cui godeva il dittatore.

Nel film di German la morte di Stalin è un semplice punto di partenza dal quale la Russia sembra riemergere con una vitalità nuova. Ma è solo un illusione, solo un sogno, di cui tutto il popolo è protagonista. Le vicende che hanno interessato il popolo russo nel XX secolo rappresentano il tentativo di realizzare il sogno nel quale aveva creduto anche Vajl’ e che lo ha visto costretto ad andarsene una volta che questo si è infranto contro la dura realtà storica. «Сон каждого, кто родился и вырос на этой земле, которую можно любить, но уважать не выходить59». L’amarezza di

questa affermazione è sottolineata dalla convinzione che non sia possibile la realizzazione di questo desiderio se non sotto un eterno avvicendarsi di potere. E dal museo di Gori la maschera funebre sembra ammiccare ai visitatori, quasi a conferma di questa triste consapevolezza.

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