5 LA QUESTIONE CECENA
5.4 Il reportage di un esule: Petr Vajl’ in Cecenia
“Mai nessuno potrà convincermi che la guerra non sia il male peggiore sulla terra. Purtroppo la nuova generazione dei ceceni l’ha conosciuta non dai libri o dai film – essa ha attraversato come un turbine terribile i nostri destini, le nostre vite”.
Zurab Idalov, provincia di Groznyj, villaggio di Čiški, 8ª classe73 .
Petr Vajl’ si reca in Cecenia nella primavera del 1995, Giulietto Chiesa a gennaio dello stesso anno. Eppure, confrontando i loro reportage di guerra, sembra che i due abbiano viaggiato insieme. La somiglianza dei loro racconti è sicuramente dovuta al fatto che si trovano a descrivere lo stesso scenario. Leggendo le loro righe, colpisce come entrambi trovino quasi le stesse parole per raccontare la loro esperienza a Groznyj, che paragonano all’Inferno dantesco:
Quella che mi si para davanti è una via crucis di morte, dove le stazioni sono carri armati sventrati. Due chilometri danteschi, che non potrò mai dimenticare74.
72 Ibidem, p. 136. 73
Cfr. F. GORI (a cura di), La Cecenia dei bambini, Einaudi, Torino, 2007, pag. 37.
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По колено в осколках, по грудь в доблести, по уши в лапше, по пояс в грязи дантовского размаха, расползающейся по огромной стране75
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Anche Vajl’, come Chiesa, parla della sorte dei più deboli piuttosto che perdersi in considerazioni personali, che comunque non sono del tutto assenti, sulle responsabilità del conflitto o su chi sia giusto punire o meno.
Raccoglie le testimonianze della gente, costretta a vivere negli scantinati, descrive meticolosamente, talvolta avvalendosi di paragoni rubati alla storia dell’arte, la distruzione e il saccheggio di cui è testimone. Anche quando sembra preparare il lettore ad un giudizio obiettivo sui fatti, come nel capitolo intitolato “Den’gi Vojny”, lo ritroviamo a parlare di diritti umani o di come siano attenti all’eleganza alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine.
Lo scrittore russo divide i suoi scritti dalla Cecenia in sei piccoli capitoli e in ognuno di questi affronta un tema inerente alla guerra. Il suo punto di vista, tuttavia, sembra sempre essere filtrato dagli occhi della popolazione. Vajl’ ascolta le storie della gente, ricostruisce la loro vita quotidiana da quando la città è stata messa sotto assedio, descrive le esplosioni e gli attentati a cui ha assistito, ricordando le persone che vi sono morte, chi erano, dove stavano andando e spesso, in mezzo a tanta miseria, il pensiero di New York affiora spontaneo alla sua memoria:
[...] ночевать надо, потому что ездить в темноте – самоубийство: воронки, мины, снайперы. Можно завалить тюфяками оконные проемы и навалить тюфяки на себя – а про Москву, не говоря Нью-
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Йорк, вспомнить некогда76 .
La guerra per Vajl’ è moralmente, più che politicamente ingiusta. Egli fa suo il dolore delle persone che incontra nel suo cammino. Come il vecchio Musa, a cui era stato ucciso il nipote mentre portava fuori il bestiame, o i coniugi Jachievyj, che si preparavano a lasciare la loro casa coscienti che non vi avrebbero fatto ritorno.
La sofferenza che tutto avvolge e compenetra è ben rappresentata dalla metafora del fango, che ricorre attraverso tutta la narrazione. È una poltiglia informe che passa dallo stato solido a quello liquido a seconda delle condizioni atmosferiche e che raccoglie detriti, immondizia, vetri e schegge ricoprendo ogni angolo della città e della periferia.
Щегольство сочетается с безразличием ко всепроникающей, точнее – всеохвотывающей – грязи. К ней привыкают. Даже франтоватый омоновец легко мирится с огромной, вроде коровей лепешки, грязевой нашлепкой на штанах77
.
Il fango si incolla addosso, e a nulla valgono gli scarponi con la rassicurante scritta “water resistant” comprati a New York. Lavarlo via è impossibile, come la guerra.
Ma con la guerra, ci dice Vajl’, si può vivere. Anzi, si può vivere con l’abitudine alla guerra, come i giovani che con essa sono cresciuti e che, per mezzo della forza, risolvono ogni conflitto.
Dopo aver imparato che agli scontri armati ci si può anche assuefare, c’è una cosa che ancora non convince lo scrittore: «В чем же и как же
76
Ibidem, p. 313.
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должны были провиниться эти люди, чтобы их так наказали? И есть ли на свете такая вина?»78. È una sorta di empatia la sua, quella che prova un
essere umano, senza distinzioni di bandiere, di fronte ad un suo simile che soffre. Eppure la sua coscienza, in alcuni momenti, si ricorda delle proprie origini e, davanti a tanta distruzione:
Тут проникаешься отвращением к себе, но и ты ведь – порождение той же ксенофобской цивилизации, и разгром мусульманского Шали, хочешь не хочешь, воспринимаешь как-то естественнее, чем разгром Аргуна, где русских было восемьдесять79
.
Il capitolo conclusivo è, in parte, estraneo ai precedenti. Qui Vajl’, dopo alcune riflessioni sull’essenza dell’anima islamica e sulla natura del suo fatalismo, incomprensibile per chi non lo vive in prima persona, riporta lunghi brani della poesia Valerik di Lermontov, in cui il poeta descrive la battaglia avvenuta presso l’omonimo fiume nel 1840 e a cui lui stesso prese parte. I versi, scritti oltre un secolo prima e che si riferiscono alla guerra del Caucaso, sono totalmente attuali e potrebbero essere recitati anche per la guerra odierna. Al suono delle parole di Lermontov, Vajl’ fa scorrere davanti ai suoi occhi le immagini della Cecenia di cui lui è stato testimone e prova disgusto per l’orrore che ha vissuto, «Наверное, я мог бы обойтись в жизни представлениями на сцене»80
.
La lotta tra ceceni e russi è protagonista di tanta letteratura russa dell’Ottocento. Anche Tolstoj, che a ventitre anni prestò servizio in Caucaso, decide di raccontarla attraverso una storia singolare e avvincente
78 Ibidem, p. 330. 79 Ibidem, p. 323. 80 Ibidem, p. 334.
dal titolo Chadži Muràt, come il nome del valoroso combattente le cui gesta erano già famose ai tempi in cui lo scrittore era militare in Georgia. Chadţi Murat abbandona i suoi compagni impegnati nella lotta contro la tirannide dello zar e, per rivendicare la propria autonomia, passa al nemico russo. Tale scelta, nonostante la sua eroica resistenza, lo condurrà inesorabilmente verso una tragica fine81. I conflitti di ieri sembrano quelli di oggi.
Nella prefazione alla nuova edizione di Karta Rodiny, l’autore sente l’esigenza di spendere ancora qualche parola sulla sua visita in questo lembo di Russia segnato dalle avversità, visita che, ripete egli stesso più volte, lo ha segnato e scosso in maniera indelebile. Riflette, a distanza ormai di più di dieci anni, su come siano diversi tra loro il primo e il secondo conflitto ceceno e su come quest’ultimo si sia inasprito in seguito all’accentuarsi della componente islamica, ancora latente negli anni Novanta. Le sue considerazioni, probabilmente, sono dettate dalla necessità che il lettore non si confonda e non perda di vista le coordinate storico- temporali della sua narrazione, ben più lontana dalla contemporaneità. I fatti, dichiara il giornalista, sono soltanto la conferma che il Paese è ormai regredito al Medioevo, dove la grande potenza non è quella che assicura il benessere alla propria popolazione, bensì quella che uccide e devasta la sua gente. Se, infatti, l’occupazione dell’ospedale di Budѐnnovsk del giugno del 1995 può essere considerata come un diversivo bellico, quanto è accaduto al Dubrovka e all’asilo di Beslan è puro terrorismo82
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Alcuni brani delle sue impressioni di viaggio sulla Cecenia, oltre che essere contenute in Karta Rodiny, sono apparse, in occasione del sessantesimo compleanno dell’autore, sul sito di Radio Svoboda. Nella breve introduzione che li precede, Vajl’ confessa che quella del marzo del
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Cfr. L. TOLSTOJ, Chadži Muràt, Mondadori, Milano, 1994.
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’95 per lui è stata un’esperienza molto forte, che la sua memoria non cancellerà mai e che la storia contribuisce a tenere viva: «Каждый день приносит все новые сообщения, из которых ясно то, что, в общем-то, ясно было и прежде: война продолжается, ожесточение нарастает, проблемы усложняются83». 83 http://www.svobodanews.ru/content/article/1838918/html