• Non ci sono risultati.

In A più voci, Adriana Cavarero osserva che i testi scritti si prestano a «un’organizzazione visiva» basata su un «processo spaziale, lineare, analitico, rivedibile e caratterizzato dalla permanenza»123.

Nel secondo racconto della raccolta Mutterzunge, dal titolo

Großvaterzunge, La lingua di mio nonno, si fa riconoscibile il registro

visivo della lingua, quando la protagonista prende lezioni di arabo, a Berlino Ovest, dal maestro Ibni Abdullah, e la corporeità della lingua si lega in modo evidente alla scrittura124.

123 Cfr. Adriana Cavarero, A più voci: filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, 2003, p. 94. 124

La «Schriftzimmer», la stanza di scrittura, è essa stessa un corpo vivente agli occhi della ragazza. Animata da lettere dell’alfabeto, da testi e da parole che si esprimono visivamente. Un ambiente, che nella sua umanità, talvolta le può apparire addirittura sonnolento. I riferimenti alla madre e alla maternità suggeriscono che la stanza è una metafora dell’utero. È un luogo chiuso dove la protagonista trova rifugio e da dove talvolta non riesce a uscire. Rappresenta il punto di partenza di una rinascita: è qui che la giovane cerca di riappropriarsi della sua lingua madre imparando la lingua del nonno.

La protagonista s’accosta alla lingua con gradualità. Le prime cinque lettere dell’alfabeto arabo – la prima lezione, il primo impatto – la ragazza le tratta come corpi, come materia. Non sono impresse staticamente su un foglio. Immagina di portarle con sé, nell’“altra” Berlino, a Berlino Est, nel parco davanti al Berliner Ensemble. È lì che le vuole studiare, vicino alla statua di Brecht – Brecht, va ricordato, è l’artista grazie al quale si era recata in Germania. È l’artista che rappresenta una parte importante del suo passato125.

I caratteri-corpi dell’alfabeto arabo sono raccontati come fossero oggetti a cui lei si avvicina durante le lezioni o nei momenti dedicati allo studio.

L’accompagnano anche nella vita quotidiana, l’accompagnano anche nei luoghi per lei significativi.

La giovane li tiene costantemente vicini a sé per interiorizzarli. Col tempo, le appaiono sempre più eloquenti. Esprimono il mondo circostante. Evocano le figure più varie: alcuni assumono le sembianze di uccelli, altri di un cuore trafitto, di una carovana, di cammelli, di fiumi, di alberi, di serpenti, di sopracciglia, di pezzi di legno, di sederi di donne. Quindi, la protagonista vede in loro animali, parti del corpo umano, parti di un paesaggio. A volte si dotano di un’intensa espressività, raffigurano rabbia o tristezza, piangono126.

Altre volte diventano personificazioni, che l’attendono nella

Schriftzimmer. La loro vista e il loro udito corrispondono a quelli degli

esseri umani. La voce narrante racconta ciò che vedono e ciò che sentono. Talvolta alcune parti del corpo umano danno l’impressione di essere esse stesse lettere dell’alfabeto. Come il volto di Ibni Abdullah, che assume la

126 Birgit Haines e Margaret Littler, che affermano che le lettere arabe nel racconto hanno una

vita a sé, considerano queste immagini come rievocazioni del sentimento religioso della nonna raccontato anche nel romanzo Das Leben ist eine Karawanserei, Cfr. Brigit Haines and Margaret Littler, Emine Sevgi Özdamar, ‘Mutter Zunge’ and ‘Großvater Zunge’, in Eaed., Contemporary Women’s Writing in German. Changing the Subject, Oxford University Press, Oxford 2004, pp. 118-138, qui p. 125. Beate Baumann afferma che la scrittura araba evoca alla protagonista una serie di immagini legate alla sua infanzia e alla cultura arabo-islamica. Per la studiosa il ricorso alle “immagini delle parole” ha lo scopo di rintracciare l’identità individuale e collettiva. Cfr. Beate Baumann, “Ich drehte meine Zunge ins Deutsche, und plötzlich war ich glücklich.” Sprachbewusstheit und Neuinszenierungen des Themas Sprache in den Texten Eine Sevgi Özdamars, in Polyphonie - Mehrsprachigkeit und literarische Kreativität, hrsg. von Michaela Bürger-Koftis, Hannes Schweiger, Sandra Vlasta, Praesens, Wien 2010, pp. 225-250,

parvenza di una lettera adirata o di una lettera che chiede l’elemosina in ginocchio127. O come le mani della protagonista stessa, che a un certo punto sono descritte come «Buchstaben ohne Zunge», lettere dell’alfabeto senza lingua, paralizzate128.

Ci può essere comunicazione, con la scrittura. Quando la protagonista e i testi si guardano negli occhi e i testi mostrano comprensione per la sofferenza che prova in quel momento129.

Le parole possono raffigurare anche corpi minacciosi, come dopo una discussione con Ibni Abdullah. Corpi che possono anche condizionarla, per un po’, che restano nella stanza dopo che il maestro se ne è andato. Corpi che sono assertivi, piantati sulle gambe, e che lei sente di non essere in grado di contrastare. Le fanno paura e la inducono ad assecondare Ibni Abdullah130.

Ma decisivo è il momento in cui riprende in mano i testi, che non cessa di percepire come corpi (una freccia che trafigge un cuore, un occhio di donna che sbatte le ciglia, un occhio accecato). La convincono a porre fine al percorso intrapreso. È questa la scelta che le corrisponde. Dopo un confronto con un pensiero opposto al suo, è guardando i testi con i propri

127 Özdamar, Mutterzunge, cit., p. 21. 128 Ivi, p. 22.

129 Ivi, p. 38. 130

occhi e senza mediazioni che riesce a superare il timore provato nei confronti delle parole del maestro.

Il legame della giovane con la scrittura araba si fa sempre più forte via via che cresce la storia, e più acute e profonde si fanno le sue riflessioni su di essa.

Il modo di porsi nei confronti dell’arabo è sempre in evoluzione: dopo aver trattato i suoi caratteri come corpi da portare con sé, dopo aver visto in loro elementi legati alla natura o agli esseri umani, con emozioni proprie, dopo averli visti nel corpo dell’innamorato e nel proprio corpo, le pare di sentirne le voci. Voci diverse tra loro che, come notano Birgit Haines e Margaret Littler, eccitano la sua attrazione per il maestro131. Özdamar crea un legame tra la lingua orale e la lingua scritta, attribuendo a quest’ultima caratteristiche solitamente legate alla lingua parlata. E stabilisce anche una connessione tra la scrittura e il corpo. Realizzando la «scrittura ad alta voce», non cerca la chiarezza dei messaggi, ma ha come obiettivo «un testo in cui si possa sentire la grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda»132.

131 Cfr. Haines, Littler, Emine Sevgi Özdamar: ‘Mutter Zunge’ and ‘Großvater Zunge’, cit., p.

127.

Le lettere dell’alfabeto, le parole e i testi diventano strumenti di una comunicazione articolata. La scrittura, che può avere più voci, non si limita a essere oggetto d’osservazione, ma si dota, come si è detto, di una propria sensibilità. La protagonista vi si può identificare, può comprendere se stessa in profondità, di conseguenza riesce a rimanere fedele alla propria autenticità. E nello stesso tempo a non perdere di vista il tragitto che le permette di riavvicinarsi alle radici della sua lingua madre e della sua cultura di provenienza. Le radici della lingua materna, la protagonista non le scopre nella lingua turca così come è nel tempo presente, ma nella lingua araba, che l’ha influenzata. Come si è rilevato, la giovane si propone di apprendere la lingua che, all’epoca di suo nonno, come lingua scritta era presente in Turchia, quando erano usati i caratteri del suo alfabeto, non quelli latini. La riforma di Atatürk, con il passaggio ai caratteri latini, comportò una perdita e uno spaesamento per le vecchie generazioni, cosicché la comunicazione tra nonno e nipote, tra vecchie e nuove generazioni, divenne assai limitata, fu possibile solo quella orale. La protagonista si avvicina al nonno con i suoi ricordi, i ricordi dei suoi insegnamenti di saggezza popolare, i ricordi delle parole arabe, che aveva appreso da bambina. Investe molto in questa figura, la idealizza, tanto che dichiara di esserne innamorata. In realtà si innamora del suo ricordo. È un percorso, il suo, accidentato, non lineare, è un confronto con una visione

della vita lontana dalla sua.

In Özdamar, in molte sue opere, nei personaggi che le popolano, le lingue e il loro apprendimento sono parte rilevante dei loro percorsi biografici. Maria Brunner la definisce «Sprachbiographie»133.

In Großvaterzunge la protagonista, donna emancipata, si confronta e si scontra con la figura maschile di un arabo conservatore. Come vedremo, una relazione cruciale, quella con Ibni Abdullah, anche se la conclusione a cui arriverà sarà la decisione di lasciarlo, di smettere di prendere lezioni per continuare la propria strada. Ibni Abdullah rappresenta, per molti aspetti, il suo opposto. Lei è una donna emancipata, sensibile e istintiva. Esprime il sentimento d’amore che prova per lui, espone le sue emozioni, è interessata alla famiglia, alle relazioni, agli affetti, vorrebbe conversare di filosofia. Argomenti “laici”. Lui rappresenta l’islam ortodosso, è tradizionalista, ubbidiente a ciò che comanda il Corano, si sforza di tenere sotto controllo le sue pulsioni. È timoroso di Dio. Le propone di imparare la lingua dell’islam ortodosso, disapprova che lei si tiri su le maniche e

133 Cfr. Maria E. Brunner, Die Sprachbiographie der Ich-Erzählerin in Emine Sevgi Özdamars

literarischem Werk, in Raumaneignung und Zweitspracherwerb in der Fremde als transnationaler Prozess, Internationale Tagung, Sprach-Rollen-Wechsel. Emine Segvi

gli lasci vedere i polsi134.

Inizialmente, la giovane lo incorpora135. È una metafora che le procura un dolore che le entra nella pelle, nel corpo, “cucendovisi” dentro: la ragazza “assimila” il suo insegnante di arabo e s’innamora di lui. La loro relazione si fa intensa, così come le loro discussioni sulla lingua, sull’amore, sul corpo, sui loro corpi.

Ripete spesso, la voce narrante, nel corso della storia, che Ibni Abdullah è nel suo corpo. Avverte la sua presenza in sé in diversi luoghi di Berlino, come il confine tra le due città, in certe case berlinesi. Sente di condividere con lui la vita quotidiana. Con Ibni Abdullah anche la presenza di nomi arabi a Berlino le appare sempre più evidente.

L’amore è corrisposto, entrambi vedono un legame tra corpo, apprendimento della lingua, uso della lingua. Ibni Abdullah la invita a mangiare insieme le Baklava, una dolcezza che sarà la dolcezza del loro conversare. Le Baklava simboleggiano un tratto di unione fra i due personaggi. L’origine di questo dolce, nelle sue numerose variazioni, si perde nel tempo, ma è diffuso in tutto il Medio Oriente. Accomuna il mondo arabo e la Turchia e, a differenza della lingua araba, ha resistito

134 Cfr. Mutterzunge, cit., p. 17.

135 Cornelia Zierau analizza il principio dell’incorporazione come parte di un processo di ricerca

d’identità. Cfr. Cornelia Zierau, Literatur der “Zwischenräume”: Emine Sevgi Özdamars Erzählungen ‘Mutterzunge und Großvaterzunge’, in Ead., Wenn Wörter auf Wanderschaft gehen… Aspekte kultureller, nationaler und geschlechtsspezifischer Differenzen in deutschsprachiger Migrationsliteratur, in «Stauffenburg Discussion. Studien zur Inter- und

saldamente nella tradizione turca fino a oggi. È una delizia che i due consumano con naturale, identica gola.

Ma non ci può essere convergenza tra due concezioni della vita, due visioni, due lingue in conflitto. La giovane non si adegua alla lingua che il maestro le vuole insegnare. Usa parole sue immaginando di rivolgersi al maestro che ha incorporato, evidentemente diverso da quello reale. Sono parole che esprimono amore ma anche dipendenza. È la sua schiava, gli dice all’inizio, gli chiede di darle ordini. Ibni Abdullah pretende che scriva correttamente, che si attenga alle regole. Ma a questo punto la giovane rifiuta di subirlo. Lei vuole esprimersi liberamente, intende lasciare liberi i suoi sentimenti. La sua lingua è personale, non è codificata da nessun dizionario, è poetica, frutto della sua fantasia. Lei stessa crea alcune parole. Tra i due vi è incomprensione. La ragazza è alla ricerca di parole d’amore che intende, non ultimo, come amore carnale. Vuole che il proprio corpo sia libero di esprimersi. Per contro, la lingua di Ibni Abdullah è quella del Corano. Il maestro ritiene che apprendimento della scrittura e amore carnale si escludano a vicenda. Vuole un amore sacro. Teme il desiderio della ragazza, che potrebbe farlo impazzire136. Nonostante l’amore per il maestro e il timore che prova nei suoi confronti, la giovane non cessa di “raccontare” il proprio corpo. È una

pratica “al femminile”, un tema trattato ampiamente da Hélène Cixous ne

Il riso della Medusa137.

Interloquendo con una figura maschile, a cui si sente molto legata, e che parla con le sue parole di uomo religioso, lei risponde con le sue parole, di donna che si affranca da quella cultura. Non si lascia dominare da un simbolico in cui non si riconosce. Non si sottomette a un modo di esprimersi che un uomo tenta di imporle. Insiste con un uso personale della parola. Alla protagonista si attaglia bene quanto scrive Luce Irigaray a proposito dell’importanza, nell’universo femminile, della costruzione e dell’uso di un autonomo, personale vocabolario138.

Al conflitto sessuato non c’è soluzione. La protagonista non riesce più ad avere quella concentrazione che le permetta di migliorare la conoscenza della lingua araba. «Du lernst jetzt die Schrift schlecht», non stai imparando bene il testo, la rimprovera Ibni Abdullah139. E lei non può che lasciare la casa del maestro. Ma il legame interiore con lui resta quasi intatto, non ce la fa a liberarsene subito, neanche dopo essersi sbarazzata dei testi in arabo.

Un fallimento. Il fallimento della relazione amorosa con Ibni Abdullah. Il

137 Cfr. Cixous, Il riso della Medusa, cit.

138 Cfr. Luce Irigaray, Parlare non è mai neutro (Parler n’est jamais neutre, Paris 1985),

Editori Riuniti, Roma 1991, pp. II-XVI.

fallimento del tentativo di riavvicinarsi alle proprie radici, alla cultura di provenienza. Ma non il fallimento di un’esperienza. Che le ha consentito di recuperare parte delle parole dell’infanzia.

In questo passaggio del racconto – secondo Jürgen Schieve – «l’accesso al suo passato» non è reale, è nella sfera del ricordo140.

A mio avviso, in gioco è un’esperienza nuova. Un’esperienza vissuta con una persona conosciuta da adulta, in una città conosciuta da donna adulta. La giovane non si limita a riascoltare le parole che aveva dimenticato, ma impara la scrittura di una lingua altra eppure sua. È dunque una rielaborazione, la sua, del passato, certo, ma attraverso una lingua consegnata all’oblio e riportata alla memoria con un processo di apprendimento peculiare. C’è lo sguardo di una donna matura, che può fare adesso scelte personali.

Infatti, la sua conoscenza della lingua araba, iniziata nell’infanzia e successivamente dimenticata, ora è diversa da quella di allora. La lingua, quando era bambina, le era familiare: era circondata dai nomi arabi dei propri genitori, dei fratelli, di parenti e conoscenti. Le voci in arabo le aveva sentite per la prima volta alla radio, quando le ascoltava suo padre. Prendere lezioni di lingua per la protagonista non ha significato

140 Jürgen Schieve, Vom Schreiben in der Fremdsprache. Emine Sergi Özdamar und Yoko

riprodurre il passato tale e quale. Oltre ad aver recuperato con la memoria parole e voci della propria fanciullezza, ora è in grado di cogliere e considerare aspetti della cultura di provenienza con una nuova, consapevole percezione. Attenta – si è detto – alla dimensione visiva della lingua. Attenta alle analogie e alle differenze tra le parole turche e quelle arabe e alla presenza di termini di origine araba nella lingua turca. Dissonanze e assonanze di cui cerca di comprendere l’origine, interrogativi che da bambina certo non si poneva.

È del 1927, ricorda Özdamar in Mutterzunge, la riforma della lingua di Mustafa Kemal Atatürk. Da allora, in seguito a quella riforma, rileva Kader Konuk, la conoscenza della cultura e della storia si sarebbe basata su testi scritti in caratteri latini, mentre il sapere legato ai testi scritti in lingua ottomana e grafia araba sarebbe rimasto accessibile a un numero di persone sempre più ristretto. Per i turchi l’arabo sarebbe rimasto soprattutto la lingua e la scrittura dell’Islam141.

La voce narrante è ambivalente a proposito del padre della Turchia moderna. Pianse alla sua morte. Eppure si rammarica di uno dei tratti fondativi della sua politica modernizzatrice, il passaggio della lingua

141 Cfr. Kader Konuk, Die gedrehte Zunge, cit., p. 87. Per questo aspetto del racconto

turca ai caratteri latini: «Dieses Verbot ist so, wie wenn die Hälfte von meinem Kopf abgeschnitten ist», con questo divieto è come se mi avessero staccato metà della mia testa142. La protagonista del racconto, nella sua emancipazione, ha beneficiato di parte delle riforme di Atatürk. Tuttavia, come osservano Birgit Haines e Margaret Littler, non le accetta acriticamente143.

Mutterzunge e Großvaterzunge segnano una tappa significativa del

percorso della protagonista e, con lei, di quel filo narrativo che in Özdamar è costituito dal legame lingua-corpo. Un viaggio «scritto», direbbe Hélène Cixous, con «l’inchiostro bianco»144. Una «languelait», una lingualatte145.

Si è osservato come, in questa sua ricerca, avvenga una svolta nell’incontro e nel rapporto con Ibni Abdullah. Ma in questa complessa e tormentata esperienza retrospettiva al centro non vi è altro che il ritrovamento della sua lingua. È una lingua di parole che raccontano gli affetti, la famiglia, le amicizie, le riflessioni filosofiche. Che raccontano emozioni, sentimenti e desideri. È una lingua a cui attinge attraverso i

142 Özdamar, La lingua di mio nonno, cit., pp. 52-53.

143 Cfr. Haines, Littler, Emine Sevgi Özdamar, ‘Mutter Zunge’ and ‘Großvater Zunge’, cit., p.

120. Cfr. Zierau, Literatur der “Zwischenräume”: Emine Sevgi Özdamars Erzählungen Mutterzunge und Großvaterzunge, cit., pp. 77-78.

144 Cfr. Cixous, Il riso della Medusa, cit., p. 229. 145

canti turchi. Talvolta usa parole che lei stessa conia e che, come si è rilevato, non figurano dunque in alcun dizionario. È una lingua in continua evoluzione, la protagonista è alla ricerca incessante di termini nuovi, che preleva da varie lingue. Impara nuovi vocaboli e li traduce in altre lingue. Tanto che alla fine del racconto, dichiara di essere «Wörtersammlerin», collezionista di parole. Parole sue, parole nuove, parole inventate. Termini attinti da lingue diverse. Un vocabolario plurale, una lingua ibrida, specchio fedele del suo retroterra e del suo tragitto, anch’essi frutto d’incontri tra nazioni distanti, tra culture diverse, vicende di meticciato146. Una storia che rifiuta etichette.