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In Emine Sevgi Özdamar le riflessioni sul legame tra lingua e corpo iniziano nel racconto Mutterzunge, La lingua di mia madre106. L’io narrante, una ragazza turca che vive in Germania, si rende conto, proprio grazie a quanto le fa osservare sua madre, di aver perduto la lingua materna e decide di riappropriarsene.

Già il titolo mette in evidenza sia il legame tra lingua e madre sia l’inscindibilità di lingua e corpo107. Lo fa ricorrendo, come si è già ricordato, alla traduzione letterale della parola che in turco indica sia l’organo della fonazione (Zunge in tedesco) sia la lingua/linguaggio

106 Cfr. Özdamar, Mutterzunge, cit.

107 Cfr. Dilek Dizdar, Die Mutterzunge drehen. Erfahrungen aus und mit einem Text, in “Meine

Sprache grenzt mich ab …”. Transkulturalität und kulturelle Übersetzung im Kontext von Migration, hrsg. von Gisella Vorderobermeier und Michaela Wolf, Lit, Wien 2008, pp. 95-110, qui p. 100.

(Sprache)108. L’organo è muscolo senza ossatura, dunque particolarmente flessibile109. Ma quella flessibilità, quella scioltezza che un tempo le apparteneva naturalmente, la protagonista avverte di averla persa a Berlino. A Berlino, la sua lingua, l’ha “girata”, dopo essersi inserita in Germania, dopo essersi avvicinata alla cultura tedesca e averne appreso la lingua, l’altra lingua110. Perdendo così quella lingua che per Luce Irigaray è appresa nel rapporto con la madre111.

La Zunge è legata al nutrimento ma anche all’articolazione delle parole e dei suoni112. Dà la possibilità di esprimersi e di comunicare con gli altri.

108 Cfr. Lucia Perrone Capano, Le storie sulla lingua di Emine Sevgi Özdamar, in Emine Sevgi

Özdamar, La lingua di mia madre, a cura di Lucia Perrone Capano, Palomar, Bari 2007, pp. 7- 13, qui p.7. Eva Maria Thüne, Cosa può fare la lingua. L’esempio di Emine Sevgi Özdamar, in Donne per l’Europa. Atti delle prime tre Giornate per Ursula Hirschmann, a cura di Luisa Passeggini e Federica Turco, CIRSDe, Università degli Studi di Torino, Torino 2011, pp. 87- 106, qui p.102.

109 Secondo la studiosa Jacqueline Gutjahr alla mobilità dell’organo lingua corrisponde la

naturale predisposizione al plurilinguismo, così come la sua flessibilità nel passaggio da una lingua all’altra. Cfr. Jacqueline Gutjahr, Von Sprachen als Monstern und Wörtern im Sanatorium. Phänomene poetischer Mehrsprachigkeit, in Jahrbuch Deutsch als Fremdsprache. Intercultural German Studies, hrsg. von Andrea Bogner, Konrad Ehrlich, Ludwig M. Eichener, Andreas F. Keltert, Hans-Jürgen Krumm, Willy Michel, Ewald Reuter, Alois Widersacher, Barbara Bengel, Band 36 (2010), pp. 233-249, qui p. 242. A questo proposito Dilek Dizdar afferma invece l’impossibilità di padroneggiare una lingua, specialmente una lingua straniera. Cfr. Dizdar, Die Mutterzunge drehen. Erfahrungen aus und mit einem Text, cit., pp. 95-96.

110 Kader Konuk sottolinea che drehen, la parola usata da Özdamar, in turco corrisponde al

verbo çevirmek, che può significare girare, rivolgere, trasferire, tradurre. La traduzione dal turco è dunque lingua “tradotta”. Dunque la lingua girata, per Konuk, non è la lingua madre. Cfr. Kader Konuk, Die gedrehte Zunge, in Ead. Identitäten im Prozeß. Literatur von Autorinnen aus und in der Türkei in deutscher, englischer und türkischer Sprache, Die blaue Eule, Essen 2001, pp. 86-89, qui p. 86.

111 Cfr. Luce Irigaray, Il sesso fatto come segno, in Ead., Parlare non è mai neutro (Le sexe fait

comme signe, in Ead. Parler n’est jamais neutre, Paris 1985), Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 168-169.

112 Cfr. Everdosa, Auf dem Weg zu einer transkulturellen Ästhetik? E. S. Özdamars und Y.

La protagonista tenta inutilmente di capire in quali circostanze è avvenuta la perdita. E, rileva Lucia Perrone Capano, «cerca di ritrovarla nella sua grana»113. Che, come afferma Roland Barthes, è «il corpo nella voce che canta, nella mano che scrive, nel membro che esegue», «la materialità del corpo che parla la sua lingua materna»114, o «un misto erotico di timbro e di linguaggio» che può essere «materia di un’arte: l’arte di condurre il proprio corpo»115.

I ricordi del passato, come le riflessioni sul presente, rivelano quanto la lingua sia parte e ingranaggio della relazione con la madre: nel passato la comunicazione tra loro era fluida, nel presente il rapporto figlia-madre è contraddistinto da forte empatia, anche se le due donne non si trovano fisicamente nello stesso luogo e la comunicazione stessa tra loro attraversa un momento difficile. La relazione della protagonista di

Mutterzunge con la madre è particolarmente intensa. È una relazione tra

donne, per dirla con Hélène Cixous, «non interrotta nel tempo»116.

113 Lucia Perrone Capano, Le storie sulla lingua di Emine Sevgi Özdamar, cit, p. 9.

114 Roland Barthes, La grana della voce, in Id., L’ovvio e l’ottuso (L’Obvie et l’Obtus, Seuil,

Paris 1992), Einaudi, Torino 2001, pp. 257-266.

115 Id., Il piacere del testo, in Id. Variazioni sulla scrittura. Il piacere del testo (Le Plaisir du

texte, Paris 1973), Einaudi, Torino 1999, p. 126.

116 Hélène Cixous, Il riso della Medusa (Le rire de la Méduse, in L’Arc. no. 61, 1975), in

Critiche femministe e teorie letterarie, a cura di Raffaella Baccolini, CLUEB, Bologna 1997, pp. 221-245, qui pp. 229-230.

Scrive Roland Barthes: «L’ascolto della voce inaugura la relazione con l’altro»117. Per i due personaggi femminili questa dinamica si rivela difficile. Il ritmo, certi vuoti, rendono opachi i racconti della ragazza. La madre segue le sue parole, finché non inciampa nel non detto, che salta insieme alla figlia, per poi ricominciare a respirare, in tranquillità, quando il racconto riprende calmo e lineare. Ascolta con tutta se stessa, la madre. Segue la narrazione della figlia con tutto il suo corpo, si adegua all’omissione di elementi importanti, poi in sintonia recupera con lei il ritmo che si confà a entrambe. Tutto è determinato dalla figlia, ma condiviso dalla madre con i movimenti metaforici del corpo (il salto) e con il respiro.

In Özdamar, la voce può coinvolgere chi ascolta, raggiungendo corporeamente l’interlocutore. La madre della ragazza turca, con il proprio corpo, cerca di mantenere un legame stretto con la figlia, oggi che sembra più distante con le sue nuove parole.

Ma l’attenzione, in Mutterzunge, si concentra soprattutto sulla giovane turca immigrata, da tempo lontana dal suo paese, in particolare sulla sua

ricezione della voce materna, ma anche della lingua madre come lingua scritta. Sono elementi, la voce della madre e la lingua materna della protagonista, su cui sarà focalizzato il presente studio.

La dimensione visiva e quella acustica della lingua vanno di pari passo. La voce della madre, percepita oramai come una lingua straniera ben appresa, è associata all’udito, «die Sätze selbst kamen in meine Ohren», le frasi stesse giunsero alle mie orecchie118. La scrittura, che ora le appare tutt’altro che familiare, è associata agli occhi. Udito e vista hanno smarrito la ricettività normalmente propria di ogni individuo verso la lingua materna. Domina un senso di estraneità119.

La protagonista non si adegua a questo suo stato, è una condizione che non accetta ma che cerca di capire. Vuole evitare i racconti fatti solamente con «l’angolo della bocca» – metafora di superficialità – quando il narratore blocca e zittisce quasi tutto il proprio corpo, impedendogli di esprimersi nella voce e reprimendo le proprie emozioni. Intende mettersi in gioco fino in fondo, la protagonista. Vuole comprendere in quale occasione ha perso la Mutterzunge. Ha diverse

118 Cfr. Özdamar, Mutterzunge, cit., p. 7. Cfr. Özdamar, La lingua di mia madre, cit., pp. 18-19. 119 Cfr. Lucia Perrone Capano, Sprachfremde and Fremderfahrung as Acoustic and Visual

Experience in Works by Yoko Tawada and Emine Sevgi Özdamar, in Robert Schechtmann and Shin Roberts (Eds.), Finding the Foreign, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle (UK), 2007, pp. 242-258. Cfr. Gutjahr, Von Sprachen als Monstern, cit.

ipotesi. Forse è accaduto quando si è resa conto di essere notata, in Germania, e quando, per la prima volta, si para davanti a lei il Duomo di Colonia e scopre che la monumentale icona della Germania la sta osservando. La perdita della Mutterzunge pare dunque, a un certo punto, la conseguenza del suo ambientamento in Germania. Vissuto intensamente, con il proprio corpo. Con una ferita liberatoria: quando apre un occhio per guardare l’imponente cattedrale gotica, una lametta entra nel suo corpo e lo percorre. La sofferenza cessa e la donna apre anche l’altro occhio.

L’episodio dà adito a varie interpretazioni. Jacqueline Gutjahr lo considera un “taglio”, un allontanamento dagli ambiti di esperienza legati alla lingua madre, quindi legati alla propria identità120. Secondo Bettina Brandt il taglio del corpo dell’istanza narratrice non ha come conseguenza solamente un’anestesia, ma induce anche un nuovo tipo di lettura, non più condizionato da uno sguardo convenzionale, che qui viene distrutto121. Per Yasemin Yildiz l’episodio rappresenta una cesura temporanea: la lametta, secondo la studiosa, non rimane incorporata. Ciò significa che i “tagli” della violenza dello Stato in Turchia dopo il colpo

120 Cfr. Jacqueline Gutjahr, Von Sprachen als Monstern und Wörtern im Sanatorium, cit., p.

243.

121 Cfr. Bettina Brandt, Collecting Childhood Memories of the Future: Arabic as Mediator

Between Turkish and German in Emine Sevgi Özdamar’s Mutterzunge, in «The Germanic Review», 79 (2004), pp. 295-315, qui p. 299.

di stato negli anni Settanta nei confronti degli oppositori contestatori di sinistra evocati nel racconto e quelli legati all’esperienza della migrazione sono differenti: la violenza dello Stato continua a essere un’ossessione, mentre la migrazione rappresenta un’opportunità, un nuovo strumento affilato122.

E invece poter tenere gli occhi aperti in un luogo nuovo, diverso da quello di provenienza, è una conquista, è una svolta per la giovane. Ma quel ricordo non è di conforto per lei, che si sente ancora lontana dalla comprensione della perdita della lingua madre.

Ripercorrendo il passato, continua la sua ricerca, torna a Berlino Est, dove anni prima aveva lavorato al Berliner Ensemble, spinta dal suo interesse per Bertolt Brecht. Ma anche questo tentativo si rivela inutile e decide di andare ancora più indietro nel tempo. Decide di imparare l’arabo, i caratteri della lingua del nonno, quando il turco scritto non aveva ancora adottato l’alfabeto latino.

Mutterzunge connette la lingua della madre alla voce, e alla sua ricezione

con l’udito, ma la lingua del nonno è quella della vista. Una lingua

122 Cfr. Yasemin Yildiz, Political Trauma and Literal Translation: Emine Sevgi Özdamar’s

Mutterzunge, in «Gegenwartsliteratur. Ein Germanistisches Jahrbuch», hrsg. von Paul Michael Lützeler und Stephan K. Schindler, 7 (2008), pp. 248-270, qui p. 259.

recepita con gli occhi. La scrittrice, prima che il suo personaggio inizi a prendere lezioni di arabo, fa riferimento alle barriere di incomunicabilità create dalla riforma della lingua turca voluta da Atatürk alla fine degli anni Venti, quando a generazioni diverse corrispondevano due scritture diverse. Al punto che, nel caso in cui lei e il nonno fossero stati muti, non avrebbero potuto comunicare scrivendosi. È l’arabo, la scrittura del nonno, la lingua che desidera apprendere per arrivare alla lingua materna.