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Anche Almanya narra la realtà turco-tedesca partendo dall’ambiente familiare, dunque da un punto di vista prevalentemente femminile. La voce narrante è di una giovane studentessa universitaria di origini turche, che elabora la storia della sua famiglia e dei suoi singoli componenti. È il

personaggio che meglio ne comprende il passato e il presente. Li racconta da una sua angolazione e conclude la storia con un messaggio che sintetizza la sua idea d’identità, un’identità mobile, dove ogni individuo sceglie cosa vuole essere, non obbligato alla staticità imposta da confini predeterminati. I personaggi del film sono i componenti di un’intera famiglia, una famiglia ordinaria, la trama dà ampio spazio a quelli femminili, in particolare a tre caratteri centrali. Insieme a loro, la voce narrante rompe lo stereotipo della donna turca passivamente sottomessa. Tutte le figure femminili del film si rivelano essere, nella loro unicità, donne con una personalità ben definita, che trascende evidentemente la loro origine e il loro percorso culturale.

Ognuna di loro incarna un tipo diverso di donna di origine turca, ma ognuna vive una condizione in fermento che ne impedisce la stereotipizzazione, se non in certi aspetti esteriori. La migrante di prima generazione, giunta in Germania per il ricongiungimento familiare, non ha ampio margine di azione, fa parte di una generazione di donne da cui ci si aspetta sottomissione al marito. Ma è determinata. Non critica il marito pubblicamente, ma all’interno delle mura domestiche prende posizione con decisione. Talvolta prevale. La figlia raggiunge il padre insieme alla madre e ai fratelli. È più aperta della madre, da piccola impara il tedesco velocemente, s’inserisce nel Paese di arrivo più

facilmente degli altri. Da adulta è una donna emancipata, dà alla figlia un’educazione “libera”. È un personaggio contraddittorio. Neanche da madre di famiglia è sempre sicura delle sue azioni di fronte ai genitori e gliele nasconde. La figlia, immigrata di terza generazione, rappresenta le donne emancipate, vive con il proprio compagno e studia all’università. È una donna in evoluzione, e la sua evoluzione le consente di realizzare anche un riscatto di classe. I vissuti delle donne s’intrecciano tra loro. Nei momenti cruciali le loro relazioni diventano scontri, ma base del loro rapporto rimane un proficuo scambio di vedute, il dialogo tra donne. Con la presenza non marginale di Gaby, tedesca, nella famiglia Yilmaz, la pellicola si arricchisce di un nuovo sguardo, quello di una donna rappresentante della cultura dominante ma inserita in una comunità minoritaria. La sua visione della Turchia si differenzia da quella degli altri personaggi, come la sua idea di identità. Il suo è uno sguardo esterno, Gaby ha un atteggiamento non giudicante ma di curiosità verso il Paese di provenienza della sua nuova famiglia, ama visitarlo. Desidera che i parenti turchi si sentano ben accolti nel suo Paese, per lei sarebbe positivo se si considerassero cittadini tedeschi.

Il tutto avviene all’interno di una famiglia ordinaria. Non vi sono episodi di violenza né esperienze fuori dal comune. Tali elementi si ritrovano nel film di Nancy Savoca True Love32.

Le opere delle tre autrici non sottostanno, come si è già osservato, alla gerarchia centro-margine. Il mondo che esse disegnano non è un paesaggio monocromatico, ma ha colori e sfumature di una realtà costruita da diverse culture. Non c’è un centro né una periferia. Il senso del lavoro delle tre artiste è in sintonia con quanto sostiene Homi Bhabha quando afferma che le culture dominanti non riescono a fagocitare le altre. Queste se ne lasciano influenzare, ma nell’assorbirle le adattano alla propria realtà. Si conferma, così, che la semplificazione duale non è sufficiente a spiegare le relazioni tra dominanti e dominati, perché le culture subalterne, nelle loro opere, non subiscono passivamente quelle ritenute superiori, ma, nell’interazione con esse, ne creano di proprie e di nuove. In una tale alchimia anche il concetto di nazione è tutt’altro che

32 Cfr. Nancy Savoca, True Love, DVD, 104 min., Stati Uniti: Forward Films, United Artists

1989; il film della regista Nancy Savoca propone un nuovo sguardo sulla classe operaia italiana americana rispetto a quello dei film precedenti, uno sguardo di genere, al femminile (Cfr. Anthony J. Tamburri, Italian American Film, The Italian Diaspora Studies Summer School, Appunti dalle lezioni, Università della Calabria e John D. Calandra Italian American Institute,

statico, ma si dimostra spazio ambivalente e mobile in un crocevia di culture che egli definisce «transnazionale»33.

Non vi è un’istanza di riscatto, dal momento che le opere di Özdamar, Ciresi e Şamdereli non si propongono come rappresentative di una cultura minore rispetto a una “alta”, ignorano la dualità maggiore-minore, rappresentano e decostruiscono la visione stereotipata delle loro civiltà di origine, mettono in discussione sia la mentalità del Paese di arrivo sia la mentalità di provenienza. Superano i confini delle culture nazionali e raccontano la società contemporanea nella sua complessità. Le loro opere sono contrassegnate da un’unicità ricca di elementi di tutte le culture con cui sono state e sono a contatto.

La presenza di elementi autobiografici lascia emergere quanto individuato da Schwalm34. Le tre artiste narrano storie di formazione di personalità che, pur nella loro individualità, hanno una rilevanza generale. Raccontano la storia di individui inseriti in un contesto storico. Tra molte difficoltà, vivono una continua ricerca di una propria identità personale, attingendo a tutte le culture con cui vengono in contatto.

33 Cfr. Homi Bhabha, Introduzione: narrare la nazione, in Id., Nazione e narrazione, trad. it.

Antonio Perri, Meltemi, Roma 1997, pp. 33-41.

Una loro catalogazione è problematica. Significativo, a questo proposito, il seminario Rethinking Migration, tenutosi nell’ambito del convegno nazionale del 2014 della German Studies Association35. Già dal titolo si rileva la difficoltà degli studiosi di fronte a un’arte che non dovrebbe essere etichettata. Con l’urgenza di ripensarla. Nel corso del seminario, dopo una lunga discussione, è stato proposto di evitare qualsiasi definizione e di occuparsi solo delle opere. Nello stesso tempo, è stato rilevato che la biografia degli autori è un prezioso aiuto per la comprensione dei loro testi.

Transculturale, termine coniato da Wolfgang Welsch, è a mio avviso il termine che più esprime gli elementi caratterizzanti dell’opera di Özdamar, Ciresi e Şamdereli. Welsch contesta l’idea herderiana di cultura, elaborata, allora, per definire un’identità culturale basata sull’etnia di appartenenza, sulla lingua e sull’origine. Un’idea, secondo Welsch, non adeguata a definire le società postmoderne, multiculturali per le loro intrinseche diversità sociali, regionali e culturali (nel senso di

Alltagskultur, concetto legato alle abitudini della vita quotidiana).

Secondo Welsch nemmeno “interculturalità” si addice alla società contemporanea, perché rivela un’idea di culture collegate solo

occasionalmente, non stabilmente. Allo stesso modo, la parola “multiculturalismo” implica una separazione di diverse sfere culturali, anche se vicine. Entrambi i concetti sono dunque basati sull’idea d’isolamento delle singole culture, anche se non ignorano la loro coesistenza nell’ambito della stessa società né le loro interconnessioni. Per contro, “transculturalità” tiene conto della complessità delle singole civiltà nella loro differenziazione interna e dei processi di ibridazione a cui sono soggette36.

Transculturale è il termine che più dà conto della complessità di Özdamar, Ciresi e Şamdereli, artiste rappresentative della società postmoderna. Lo sono anche nella ricerca e nell’uso di registri narrativi che un tempo sarebbero stati considerati incongrui o irriverenti, inadatti per raccontare vicende che avrebbero preteso, invece, una chiave drammatica.