Il dibattito psichiatrico sulla “strana malattia”
3.1. Guerra e follia agli inizi del Novecento
Durante lo svolgimento del XIV congresso della Società di Freniatria, nel 1911, le tesi della psichiatria militare italiana risuonavano ancora nuove agli orecchi dei partecipanti. Nonostante la sua novità, la psichiatria militare italiana seguì concettualmente le altre branche della psichiatria: come qualsiasi altro gruppo umano, anche l’esercito aveva il sacrosanto diritto di combattere la formazione e l’ingresso nelle proprie file dei degeneri e dei deboli umani. Furono quindi la profilassi bioantropologica e l’eliminazione degli inutili a rappresentare la quasi totalità degli interventi della nascente psichiatria militare92.
Tra il 1908 e il 1915 aumentarono i saggi e le riviste specializzate che trattavano il problema dell’alienazione mentale all’interno delle forze armate italiane. Nell’incontro tra la realtà militare e la disciplina delle alienazioni mentali, quest’ultima non portò soltanto il suo metodo positivo e sperimentale idoneo all’attivazione della profilassi morale preventiva, ma anche la sensibilità del medico verso il folle, maturata in contiguità con l’opera di Cesare Lombroso. Razionalizzare e pianificare quindi una prevenzione/repressione efficiente, non lasciata alle storture del momento o del caso. Un’opera di tutte le ore e di tutti i giorni alimentata e indirizzata dal significato sociale della follia, vista come una condizione minacciosa per l’ordine della nazione. Una follia minacciosa, per la sua presenza nel cuore stesso della società e per la sua natura
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L. Barzini, Quel che è avvenuto a Oslavia, pubblicato sul Corriere della Sera del 6 febbraio 1916.
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47 sfuggente, che spesso la cela a metà strada tra malattia e normalità, rendendola ardua da circoscrivere preventivamente93.
Con l’utilizzo integrato di tecniche propriamente psicologiche e metodologie quantitative antropometriche le cui radici risalivano all’alba dello sviluppo della disciplina, lo psichiatria militare autolegittimava sé stessa e la propria funzione mirando a un duplice obiettivo: la costruzione di battaglioni combattenti formati da uomini standardizzati per volontà e sentimenti e il raggiungimento di una omogeneità fisico-morale interna ai reparti, capace di concorrere sia in un reciproco adattamento caratteriale dei militi, sia a un loro non traumatico passaggio dalla vita civile a quella militare. Negli anni precedenti alla guerra, il discorso terapeutico e riabilitativo sembrava non interessare troppo. Questo campo di ricerca secondario risultava del tutto estraneo alla quotidiana opera dei medici militari, indotti dai regolamenti e dalle prassi burocratiche a scaricare sul sistema manicomiale civile quei casi d’inadatti manifestatisi nel corso del servizio militare o durante le visite di leva. Furono proprio i severi criteri selettivi adottati dalle commissioni distrettuali ad alimentare l’alto e preoccupante numero dei non idonei per disfunzioni della personalità. Per evitare di perdere tutti questi potenziali soldati, la psichiatria militare italiana decise di costruire apposite sale psichiatriche negli ospedali militari, per soddisfare i bisogni primari e temporanei dell’osservazione continuata. Queste sale psichiatriche, se da un lato si inserivano con perfetta coerenza nell’iter composto da prevenzione dell’anormalità, identificazione del folle e sua neutralizzazione, dall’altro rappresentava la nuova volontà medica con cui si tentava di rintracciare con scientifica certezza i segni del disturbo, per separare i veri ammalati bisognosi d’aiuto, dai simulatori che cercavano di sfuggire alla leva94.
Il giudizio di inutilità riservato al coscritto comportava due effetti. Il primo era l’immediato invio del malato verso le strutture civili. Il secondo, con ripercussioni a lungo termine drammatiche, era il mancato addestramento all’azione terapeutica- psichiatrica di gran parte dei medici militari. L’azzeramento del problema, con l’allontanamento del folle dall’esercito, era di fatto la soluzione del problema stesso. Il mancato incontro della psichiatria militare sul piano terapeutico con uomini e patologie direttamente connaturale all’ambiente militare, peserà negativamente negli anni a venire impedendo ai più di percepire e capire a fondo la carica distruttiva e disgregatrice che la guerra eserciterà sulla personalità umana. Il deficit di conoscenza in merito ai problemi psichiatrici maturati in guerra non era imputabile ai soli psichiatri e psicologi italiani. Specificamente italiana fu invece l’ottusità con cui si respinsero, ancora dopo il 1916, quelle acquisizioni tecnico-terapeutiche che le psichiatrie tedesche e anglosassoni perfezionarono, non gravate, come quella italiana, dalla
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A. Scartabellati, Dalle trincee al manicomio, Marco Valerio, Torino 2008, p. 92-93.
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48 pesante ereditarietà lombrosiana e organicista95. La psichiatria militare anglosassone e tedesca acquisirono infatti la consapevolezza del peso emotivo dell’esperienza di guerra.
Anche lo stesso conflitto russo-giapponese del 1905, presentato dalla storiografia come il punto di svolta e di disvelamento del rapporto guerra/follia per la scienza italiana, in realtà fu analizzato a fondo e rivelato da pochi e giovani studiosi del periodo, tra cui Michele Kobylinsky e Placido Consiglio. La maggior parte degli psichiatri era estranea e non interessata a studiare i legami tra la guerra e la follia. Più che alle dubbie ripercussioni patologiche dei combattimenti, i medici italiani studiarono l’organizzazione delle forze sanitarie russe, pensato per coprire le enormi distanze dello stato zarista e, quindi, potenzialmente riproducibile all’interno della frazionata realtà geografica italiana96.
Eppure, anche in questo ambito, ovvero quello della gestione dei dementi militari, i risultati non erano incoraggianti. L’Esercito scontava un ritardo anche nei confronti della stessa Marina militare, arma che già dal 1910 aveva attrezzato delle sale psichiatriche presso l’ospedale di La Spezia. Oltre alle cicliche lamentele di chi denunciava lo stato di abbandono del servizio, e nonostante l’allargamento della discussione a livello europeo dopo il primo anno di guerra, l’Italia entrerà nel conflitto di fatto priva di un efficiente servizio d’assistenza neuropsichiatrica ai combattenti. Il tempo fu tuttavia recuperato in fretta97.
95 A. Scartabellati, Dalle trincee al manicomio, Marco Valerio, Torino 2008, p. 95-96. 96
Ivi, p. 99.
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