• Non ci sono risultati.

La Psichiatria e la Grande Guerra

2.4. L’Odissea dei ricoverat

Cosa accadeva quando a un soldato veniva diagnosticato un problema psichiatrico? Qual era la strada da percorrere per poter essere curato e infine congedato? Come venivano descritti i degenti dai medici nelle cartelle cliniche? Espressione attonita, contegno inerte, ottundimento affettivo, percezione tarda, indebolimento mnemonico, ideazione rallentata; ha gli occhi sbarrati, si presenta come terrorizzato da visioni di spavento: così si presentavano in genere i soldati al loro arrivo presso un’Ospedale Psichiatrico militare. Per gran parte di loro questa non era che l’ultima tappa di un lungo percorso fra le varie strutture sanitarie intermedie. Per citare un esempio, il soldato Melchiore Sparano cominciò la sua via crucis il 4 novembre 1915 nell’ospedale n. 0.40, il 17 novembre al n. 0.35, quindi al n. 0.65 e giungere al manicomio di Treviso il 25 novembre70.

Nei primi giorni di ricovero gli ex combattenti, condotti nei villaggetti psichiatrici, avevano potuto far la conoscenza con la realtà dell’assistenza psichiatrica militare71. Qui impararono a convivere con il pesante carico di pregiudizi, timori e violenza che accompagnava la carriera del malato mentale, con la solitudine, con le camere d’isolamento, con la costrizione fisica perpetuata grazie a corpetti di forza e bende per legare al letto il malato, con l’isolamento del filo spinato e delle sbarre di acciaio, con la vigilanza continua, la severità e l’invasività di infermieri e poliziotti, con la violenza e il dolore. Inoltre, la sistemazione dei villaggetti psichiatrici, a ridosso delle prime linee, indicava l’onnicomprensività di un pericolo mortale dal quale non vi era possibilità di fuga: alla guerra non vi era scampo, se non con la morte o con una vera pazzia, accertata in continui e asfissianti consulti alienistici, la quale rappresentava sì, l’uscita dalla realtà bellica, ma significava anche, per molti, la morte civile, la definitiva espulsione dalla società, ben oltre gli stessi limiti temporali del conflitto72.

Una volta giunti nelle strutture speciali territoriali, i folli di guerra avevano davanti a se una degenza che, per legge, non doveva superare i novanta giorni. Durante questo ricovero i folli venivano visitati e osservati per meglio capire la gravità del loro disturbo mentale. A seconda della diagnosi finale, stilata da una commissione di rassegna medica composta da medici del manicomio e da un rappresentante sanitario del distretto militare, si aprivano diverse strade percorribili. Nel caso di una conclamata psicosi, l’individuo, a seguito di riforma militare, era definitivamente internato nel manicomio civile della propria provincia. Al contrario, se la diagnosi riscontrava solamente disfunzioni neuropatiche, senza segni di disturbo psicotico, la commissione

70 A. Scartabellati, Dalle trincee al manicomio, Marco Valerio, Torino 2008, pp. 227-228. 71

Ivi, p. 106.

72

39 ordinava il trasferimento del soggetto presso apposite strutture neurologiche, anche queste sorte, con ritmo crescente, dopo la dichiarazione di guerra del maggio 191573.

Dal gennaio del 1918 i soldati, ricoverati presso il Centro di Prima Raccolta, venivano sottoposti a una severa osservazione e, dopo la formulazione di una diagnosi, venivano dichiarati abili e rispediti al fronte oppure riformati e trasferiti in altri istituti. Il regolamento militare prevedeva, già prima della nascita del Centro, il successivo invio dei soldati riconosciuti malati di mente presso il manicomio di riferimento della propria provincia d’origine. In questa maniera iniziava un processo lento e macchinoso che prevedeva una continua osservazione volta allo smascheramento dei simulatori: i soldati, prima di raggiungere il manicomio più vicino alla provincia d’origine, erano spesso rimbalzati, in un’odissea logorante, da un ospedale militare a uno psichiatrico o viceversa, come accadeva negli anni passati74.

I soldati erano accompagnati nei loro trasferimenti dalle cartelle cliniche degli ospedali di provenienza. Grazie a questo è possibile analizzare il progresso delle osservazioni dei sanitari espresse o durante le fasi acute delle manifestazioni patologiche o subito dopo l’osservazione dei fenomeni di crisi75.

«Alle dolci esortazioni di calma, egli reagisce dopo qualche tempo, con espressione di ansietà. Grida: “Dottore, lei è mio fratello, mi faccia vedere mia madre, la trincea. Tre giorni di bombardamento. La mia posizione, la mia posizione l’ho mantenuta sì; ho obbedito, ho fatto il mio dovere. Quanti morti, povero me”»76.

I soldati ricoverati erano costretti a questo lungo e penoso girovagare per colpa dell’impreparazione del servizio sanitario militare e della gigantesca mole che l’assistenza ai pazzi militari aveva assunto. Fu proprio l’aumento del numero di pazzi militari che rese necessario l’organizzazione di un servizio neuro-psichiatrico diffuso e coordinato tra zona di guerra e ospedali nelle retrovie. Un’organizzazione che spesso e volentieri portò a situazioni spiacevoli, sia per i degenti che per i loro cari.

Erano frequenti i casi di fissazione e paranoia, persecutoria o meno. Diversi soldati, spaventati a morte dall’esperienza del fronte, rimasero traumatizzati per molto tempo. Erano così impauriti da richiedere con ossessione l’esonero, finendo però per attirare

73

A. Scartabellati, Dalle trincee al manicomio, Marco Valerio, Torino 2008, p. 109.

74

V. Fiorino, Le officine della follia, il frenocomio di Volterra (1888-1978), ETS, Pisa 2011, p. 130.

75

A. Scartabellati, Dalle trincee al manicomio, Marco Valerio, Torino 2008, p. 228.

76

40 le calunnie dei commilitoni, degli amici e spesso dei parenti, che ritenevano questi poveri uomini, dei vili e degli infami, onte viventi che avevano macchiato il nome della propria famiglia e l’onore della patria:

«Dice soltanto che tutti gli vogliono fare del male e che, essendo esonerato dal servizio militare, gli è stato tolto ingiustamente l’esonero. Ripete continuamente: “Voglio il mio esonero! Voglio il mio esonero!”»77.

La maggior parte dei soldati però invocava incessantemente casa, i propri cari o i propri averi. Questo pensiero costante, che emerge in tutta la sua potenza dalla corrispondenza e dagli stralci dei diari clinici, era colmo di dolore, tristezza e sconfitta. La massa dei soldati italiani si allontanò, più o meno volontariamente, da una realtà domestica semplice e rurale. Una realtà atavica, materiale e pragmatica, dove una cavalla azzoppata o un raccolto andato male potevano volgere al peggio l’esistenza di familiari e amici. Non è difficile quindi pensare a questi soldati e percepire e vedere, grazie alle testimonianze arrivateci, il loro dolore, la loro nostalgia e allo stesso tempo il loro senso del dovere. Molti soldati colpiti da disturbi mentali più o meno gravi, non pensavano ad altro, spesso nemmeno alla loro condizione e al loro stato di servizio:

«Proietta come unica sua idea quella di riavere i propri cavalli, ne in ciò è possibile avere ulteriori particolari»78.

Altri erano ossessionati dalla traumatica esperienza di guerra, dal dolore provato in trincea, in seguito alla perdita di amici, commilitoni e fratelli di battaglia. La lontananza da casa e la presenza costante della Morte, nelle trincee e lungo le prime linee, concorsero ad alimentare il senso di fraterna amicizia tra i soldati. Un’amicizia che potrebbe assomigliare a quella che si sviluppa, in anni, tra uomini e donne che vivono e condividono le stesse esperienze, come per esempio tra vecchi colleghi di lavoro. Tra i soldati, il medesimo legame ci cementificò e si estremizzò proprio per lo stato di tensione e dolore che costantemente si ritrovavano a vivere e condividere; una sorta di limbo, in cui, in una frazione di secondo, una mina, una pallottola vagante o una distrazione poteva significare l’inferno. Perché morti o meno, molti soldati lasciarono la propria anima là, nei camminamenti lungo il Carso o il Piave.

«Dove sono i compagni miei? Sono tutti morti. Voglio vedere i compagni miei, quando vengono?»79.

77 ASOPLU, cartella clinica 3401-326, 1916. 78

ASOPLU, cartella clinica 3423-348, 1916.

79

41