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In Horat.Carm.I, 2107 non mancano affatto problemi di critica testuale di ogni

sorta, sin dal riferimento mitico a Deucalione e Pirra che suggerisce al Venosino quell’ “ultimate fantasy of traditional adunata”108, di pesci, cioè, al sommo degli olmi e di caprioli nuotanti nelle acque, fantasia che si tradusse in accuse mosse al poeta da vari commentatori al testo oraziano, primo fra tutti Porfirione che ebbe a dire “Leviter in re tam atroci et piscium et palumborum meminit, nisi quod hi excessus lyricis concessi sunt”. Proprio da quest’annotazione dell’antico scoliasta muove una nota osservazione del Bentley il quale mostra, infatti, un certo interesse per la variante palumbis in luogo della lezione columbis registrata al v. 10 del carme.

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Il carme, che Fraenkel ebbe a definire componimento antico, di certo, si distingue per la sua posizione di rilievo, immediatamente successivo all’ode dedicatoria indirizzata a Mecenate e, per questo, facilmente accostabile alla tradizione dei “logoi basilikoi” rivolti a principi, sovrani, tiranni e protettori.

Databile secondo Norberg nel 29 a.C, quando Ottaviano era in Oriente, o secondo Mackay ed il Walckenaer, autore di una ”Histoire de la vie et des poesies d’ Horace”del 1840, nel 27a.C, per i riferimenti all’inondazione del Tevere, di certo l’ode è stata composta dopo gli avvenimenti di Azio in quanto pregna di quel “mood of war-weariness” che sarebbe stato alquanto sconveniente citare prima che la crisi di Azio fosse trascorsa.

Aperto da quell’espressione avverbiale “iam satis” chiaramente desunta da Verg. Georg.I, vv.498 sgg, il carme appare intriso di romanità, di una fantasia commossa in profondo dalla sorte di Roma e del suo popolo. Orazio auspica, infatti, per la sua gente una palingenesi nella pace e nella prosperità che ponga termine ad un ciclo continuo di scelera e di

vitia. Con il riferimento al mitico diluvio cui sopravvissero Deucalione e Pirra, il Venosino si rifarebbe, nel giudizio del

Commager ad un archetipo in base al quale la divinità non interverebbe ”to punish a specific crime” ma per prendere di mira la malvagità di una “whole generation”. La stessa uccisione di Cesare riassume piuttosto che esaurire lo scelus (Horat.Carm. I, 2, 29) dei Romani che come vitium (ibidem v.23) si lega allo spettro di una guerra civile, ove Azio rappresenta il culmine di una guerra ormai centenaria, sin dall’assasinio, cioè, di Tiberio Gracco del 133 a.C..Per un’interpretazione complessiva dell’ode si rinvia a L.Hermann, Nostrum scelus, “Rev. Belge”, XV (1936); D.Norberg,

Eranos 44, 1946, 348ss.; L.MacKay, AJPh 83, 1962, 168ss; S. Commager, Horace, Carmina I, 2, “The American

Journal of Philology”, 80, 1959, pp.37-55; E. Fraenkel, Orazio, ed. it. a cura di S. Lilla con prefaz. di S. Mariotti, Roma,1992, pp.333-345.

Il problema testuale non sarebbe del tutto nuovo ai commentatori del testo oraziano, a lungo segnalato con un οJβελός109 . La variante testuale palumbis sarebbe riportata, annota il Bentley anche dal Codex Battellianus, vantando, così, il supporto di un manoscritto. Sulla scorta, inoltre, di un’osservazione naturalistica, usus alquanto comune nel commentario bentleyano, dal momento che le colombe raramente o mai si poggiano sugli alberi, quo iure - si chiese il filologo- l’ulmus è sede nota alle colombe?

Bentley allora sembrerebbe propendere fideiussoribus palumbis, anche se a tale variante testuale si opporrebbe la frequenza registrata nello stesso Orazio come in Virgilio del termine palumbus quale nome di III, non di II declinazione, come si evince dai seguenti exempla:

Horat. Carm. III , 4, 9-13 Me fabulosae Vulture in Apulo Nutricis extra limina Pulliae Ludo fatigatumque somno Fronde nova puerum palumbes Texere…..

Verg. Buc. I, 57

Nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes

109 L’οJβελός che, in greco, propriamente significa “spiedo” è quel segno critico utilizzato dai copisti per denotare errore

o scritto spurio o, specie nella critica omerica, un’esametro che “meritava di essere infilzato e messo via”. Cfr. C. Del Grande, Storia della letteratura greca I Omero Formazione e tradizione dei poemi e delle opere minori,1938 (

rist.1975) p.85. Esso, già usato da Zenodoto, insieme con asterisco, ceraunio e antisigma rientra tra quei segni

diacritici, apposti sul margine sinistro della colonna di scrittura, noti soprattutto attraverso i grammatici antichi, nonché attraverso il cosiddetto codice A, il Venetus 454 della Marciana di Venezia, manoscritto pergamenaceo del X secolo, rinvenuto nel 1788 dall’abate d’ Ansse de Villison. Per la distinzione tra tali notae si rinvia a J. F. Lockwood, R. Browning, s. v. Filologia greca nell’Antichità, in N.G.L. Hammond - N.H. Scullard ( a cura di) , Dizionario di antichità

Verg. Buc. III, 68-69

Parta meae Veneri sunt munera; namque notavi Ipse locum, aeriae quo congessere palumbes.

Nella tradizione letteraria, non mancano testimonianze di un uso del sostantivo di II declinazione palumbus, -i in Catone ( De re rustica cap. XC), Columella (Res rustica, 8, 9), Marziale ( Epig.,3, 58, 12), Persio (III,16) e ben 25 occorrenze in Plinio il Vecchio.

Da opportune ricerche etimologiche110 si evince che columbus e palumbus avrebbero una similare accezione ornitologica, il cui discrimen si potrebbe evincere dalla nota serviana ad Aen.5.213, dove si legge “de his domesticis columba Vergilius dicit…nam agrestes palumbes vocantur”, così come alla formazione dei termini avrebbero concorso anche opportuni riferimenti cromatici, ascrivibili per palumbus al latino palleo, per columbus, termine che ha persino antiche testimonianze plautine, al greco κελαινός che indica proprio, si legge in Ernout- Meillet, il “noir, sombre”. Tenendo presente la distinctio praticata da Isidoro111, turtur, palumbes e columba sono aves che rientrano tra i colombiformi, spesso presso i Romani oggetto di aucupio, quindi di particolare cura.112

110 Cfr..A.Ernout-A.Meillet, Dictionaire etymologique de la langue latine, Paris,1979, s. v. “columba ,-ae”, p.134 e

“palumbes, -is (et palumbus m., -ba f.)”, pp.477-478

111 Isid., Or.12, 7 de avibus

Recenti studi hanno ribadito come sia difficile distinguere tra specie e sub specie selvatiche, forme semiselvatiche e domestiche113; non a caso pure il Bentley conclude la sua nota al testo ribadendo l’ambiguità della forma che egli non stenta a definire come τò ευδιάβλητον, in quanto sostanzialmente per lui palumbis “is the proper word for wood-pigeons” 114.

Ritengo, però, che la sostanziale concordia dei codici nel riportare la lezione columbis, induce ad accettarla, anche sulla base della tradizione indiretta, essendo il passo già noto a Mario Vittorino.115

113 F. Capponi, Ornithologica, Latomus 29, 1970, 782-789; A. Sauvage, Etude de thémes animaliers dans la

poesie latine. Le cheval- Les oiseaux, Bruxelles, 1975; .F. Capponi, Uccelli, in AA.VV, Enciclopedia Virgiliana, V,

347-353, Roma, 1990.

114 Cfr. R. G. M. Nisbet- M.Hubbard, op.cit.,, p.24 115 GLK, VI, 157