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I criteri di determinazione delle sanzioni

M

ICHELA

C

OLAPINTO

SOMMARIO: 1. Inquadramento.- 2. La legge n. 689/1981 e l’art. 6 della CEDU.- 3. Il principio di proporzionalità.- 4. L’art. 11 della legge n. 689/1981 e i criteri di determinazione delle sanzioni amministrative pecuniarie.- 5. Considerazioni conclusive.

1. Inquadramento.

Non è sempre agevole comprendere il concetto di sanzione, a maggior ragione quando si parla di sanzioni delle Autorità indipendenti.

È stato osservato che il termine sanzione trae origine dal verbo “sancire”, che significa riconoscere. La sanzione, quindi, presuppone un’attività logica di riconoscimento, che precede l’eventuale conseguenza che deriva dall’irrogazione della sanzione stessa [D’AGOSTINO, 1989, 303 ss.].

Una tappa significativa nella costruzione della moderna teoria sanzionatoria è, senza dubbio, rappresentata da Cesare Beccaria il quale, nel suo « Dei delitti e delle pene », introduce il concetto di funzionalizzazione della sanzione all’utile sociale, con la conseguente necessità di graduare le pene (sulla scia del proporzionalismo), creando così uno spazio preventivo per le sanzioni di carattere amministrativo.

Nel secondo dopoguerra si sviluppa, poi, un apparato di sanzioni non penali ma punitive nelle mani dell’amministrazione, fenomeno questo che non trova una consacrazione costituzionale espressa e, per anni, non verrà approfondita né da amministrativisti né, tantomeno, da penalisti [CUOCOLO, 2003, 531 ss.].

Quanto alla difficoltà di approccio del tema sanzionatorio parametrato alla figura delle Autorità indipendenti, questo è dovuto alla mancanza, soprattutto nel panorama europeo, di un quadro normativo comune sulle Autorità indipendenti che permetta di ridurre a unità i diversi fenomeni che, tradizionalmente, confluiscono nei soggetti sopracitati. Quello che, sicuramente, le accomuna tutte, seppure con le dovute intensità e differenze, è la possibilità di svolgere funzioni normative, funzioni esecutive e funzioni che potrebbero definirsi simili a quelle giurisdizionali.

In disparte il discorso se il fatto che un soggetto eserciti i poteri normalmente suddivisi tra Parlamento, Governo e ordine giudiziario violi per ciò solo il principio di separazione dei poteri o se, invece, questi restino separati pur se esercitati da un medesimo soggetto, resta da capire a quale di questi poteri siano riconducibili le sanzioni e, cioè, comprendere se nel momento di irrogazione delle stesse un’Autorità stia esercitando un potere esecutivo o un potere paragiurisdizionale [CAIANIELLO, 1998, 239 ss.]. Quesito, questo, di non immediata intellegibilità e risoluzione se si tiene conto che, da una parte, l’attività esercitata al momento di comminare una sanzione ben si assimila a quella di qualsiasi pubblica amministrazione che eserciti un potere sanzionatorio e, dall’altra, la stessa non si discosta tanto neanche dall’attività tipica di un giudice il quale, dopo aver sussunto il caso concreto nella fattispecie astratta, irroghi la sanzione prevista per una determinata violazione.

Tale dicotomia, in realtà, non fa altro che far emergere un’evidente anomalia concettuale e sostanziale nella previsione di un potere punitivo demandato a una pubblica amministrazione e mette ancor più in evidenza due diverse concezioni della funzione amministrativa, una più classica che la contrappone a quella repressiva demandata all’ordine giudiziario e una più moderna che, invece, tende a dotare le amministrazioni pubbliche, a maggior ragione se indipendenti, di poteri sanzionatori di natura afflittiva.

Quello che è certo è che le sanzioni che possono essere irrogate sono solo quelle amministrative e non anche quelle penali.

Alle Autorità indipendenti è attribuito il potere di irrogare alle imprese sia sanzioni ripristinatorie che sanzioni afflittive. A differenza di queste ultime che sono dirette a punire in modo diretto e immediato il comportamento illecito del soggetto agente, le cd. misure ripristinatorie non hanno un vero e proprio carattere sanzionatorio, posto che mirano a soddisfare interessi pubblici [CASETTA, 1997, 598 ss.]. È pur sempre vero, infatti, che le sanzioni amministrative pecuniarie, ontologicamente differenti da quelle meramente ripristinatorie, volte a reintegrare un interesse pubblico leso da qualsivoglia attività o comportamento, hanno un carattere spiccatamente afflittivo e punitivo [BANI, 2000; sui caratteri generali del potere sanzionatorio cfr., supra, il contributo di LEONARDI].

Si pensi anche, a mero scopo esemplificativo, che la stessa legge n. 689/1981 in tema di sanzioni amministrative è rubricata « Modifiche al sistema penale ». La vera

differenza, allora, tra la sanzione di un’autorità amministrativa e una sanzione penale è che la prima non può incidere in alcun modo sulla libertà di un soggetto (fatto salvo il caso di talune sanzioni irrogate dall’amministrazione militare).

Se questo è vero per le persone fisiche, però, la distinzione viene a cadere nel momento in cui il soggetto da “sanzionare” è una persona giuridica: in questo caso, i provvedimenti sanzionatori delle autorità amministrative avranno un grado di afflittività uguale o addirittura maggiore rispetto a quelli irrogati da un giudice.

Va da sé che anche alle sanzioni amministrative, allora, dovrebbe applicarsi l’apparato di garanzie proprie della pena, a cominciare da un fondamento costituzionale di tale potere punitivo pubblicistico [CUOCOLO, cit.].

Ed invece, spesso, ci si imbatte in ipotesi sanzionatorie caratterizzate da eccessiva vaghezza, in un ventaglio di previsioni comprese tra un minimo e un massimo edittale talmente ampio da far vacillare anche il principio di tassatività della norma sanzionatoria.

In linea generale, certamente, può affermarsi che la potestà sanzionatoria di ogni autorità amministrativa mira a garantire e ad assicurare l’effettività di un precetto: la stretta correlazione che intercorre tra precetto e sanzione serve a far sì che in caso di violazione del primo vengano conseguentemente applicate sanzioni efficaci, effettive, proporzionate e dissuasive.

2. La legge n. 689/1981 e l’art. 6 della CEDU.

Per quanto specificatamente attiene al procedimento sanzionatorio delle Autorità indipendenti, giova ribadire che esistono una varietà di modelli e soluzioni all’interno dell’ordinamento: tale varietà è da ascriversi, anche, all’assenza di previsioni specifiche ed univoche all’interno della Carta costituzionale; la relativa disciplina sarà, quindi, di volta in volta affidata alla normazione primaria o, anche, a quella secondaria.

Questo è quanto concretamente accaduto nel panorama italiano, dove le leggi istitutive di ciascuna Autorità, fonte primaria, hanno poi demandato a successivi regolamenti di attuazione, fonte secondaria, la concreta definizione di regole procedimentali particolari e diverse per ogni singolo soggetto. Accanto a queste previsioni normative, specifiche e speciali, si è utilizzato pure il rinvio alla normativa generale contenuta nella legge n. 689/1981 per la generalità delle sanzioni amministrative pecuniarie, in quanto applicabile.

Il richiamo alla riferita normativa generale e ai principi in essa contenuti consente di riportare a unità i diversi procedimenti sanzionatori delle singole Autorità indipendenti, attraverso l’applicazione di principi comuni per qualsivoglia sanzione amministrativa pecuniaria.

Come affermato nel paragrafo precedente, risulta interessante interrogarsi sull’effettiva qualificazione, penalistica o amministrativistica, delle sanzioni amministrative, stante la stretta correlazione esistente tra una sanzione amministrativa afflittiva e la classica sanzione penale [su questi profili cfr., infra, il contributo di VERNILE].

In linea generale, è stato affermato [ZANOBINI, 1924, 38 ss.] che la sanzione amministrativa, pur se qualificabile in ragione del carattere intrinseco di stretta punitività come « pena in senso tecnico », si caratterizza essenzialmente per essere irrogata da una pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà amministrativa. La sanzione amministrativa viene comminata dall’autorità amministrativa a mezzo di

propri provvedimenti, laddove, invece, quella penale, è irrogata dall’autorità giudiziaria, perché fa capo allo Stato nella sua funzione di giustizia e non riguarda l’amministrazione.

Con l’introduzione della legge n. 689/1981, la quale dettava una disciplina generale e organica della sanzione amministrativa, si metteva in luce come la funzione sanzionatoria fosse stata affidata alla medesima amministrazione chiamata alla cura degli interessi protetti in una data materia; le sanzioni amministrative pecuniarie divenivano, così, uno degli strumenti per la cura dell’interesse pubblico. Il legislatore, in altre parole, dettando una disciplina propria per le sanzioni amministrative pecuniarie, sembrava voler conferire autonomia a tale categoria rispetto ai rimedi penalistici.

Non può essere revocato in alcun dubbio, però, che il sistema delineato dal legislatore nella legge del 1981, seppur dotato di autonomia, si sia in gran parte ispirato a principi penalistici, portando con sé l’intrinseca necessità che il procedimento sanzionatorio, per quanto amministrativistico, riflettesse quanto più possibile il modello del processo, con tutte le relative garanzie a tutela dei soggetti coinvolti [SINISCALCO, 1995].

Gli orientamenti della Corte di Strasburgo sono stati da subito in questo senso, in ordine, cioè, alla natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative aventi una finalità deterrente e punitiva [su questo aspetto cfr., supra, l’introduzione di ALLENA e CIMINI].

Alla luce di tale qualificazione, seppure con le opportune cautele, dovute all’intrinseca diversità ontologica tra i due sistemi, amministrativistico e penalistico, e alla differente finalità che mirano a realizzare, oltre che i distinti interessi che devono tutelare, l’autorità amministrativa e, nel caso che ci occupa, l’Autorità amministrativa indipendente, quando chiamata ad irrogare una sanzione, quale conseguenza di un illecito, dovrà attenersi quanto più possibile ai principi generali e garantistici contenuti all’interno della CEDU in materia di giusto procedimento sanzionatorio.

In ossequio a ciò, le singole leggi istitutive delle diverse Autorità indipendenti, nel prevedere autonomi sistemi sanzionatori, hanno cercato – forse non riuscendoci del tutto, come sarà meglio specificato nei successivi paragrafi, – di rifarsi ai principi sanciti dalla CEDU e, quindi, di prevedere dei criteri di determinazione delle sanzioni che fossero aderenti al sistema delineato a livello comunitario, inserendo garanzie del giusto processo già nella fase, non ancora processuale, ma solo procedimentale, di irrogazione della sanzione.

A tal fine notevole importanza sembrano rivestire le garanzie partecipative della trasparenza e del contraddittorio, quale momento fondamentale di legittimazione e giustificazione dell’indipendenza delle Autorità dal potere di indirizzo politico-amministrativo [PASSARO, 1996, 245 ss.].

La partecipazione è volta a garantire ai soggetti destinatari della sanzione di poter fornire, già in fase procedimentale, elementi tali da convincere l’Autorità a non irrogare la sanzione o, comunque, a minimizzarne gli effetti afflittivi. Il contraddittorio difensivo, quindi, dovrebbe essere sempre garantito anche qualora non espressamente previsto dalle normative di settore; una conferma di questo la ritroviamo anche all’art. 41, comma 2, della Carta di Nizza, laddove viene specificato che rientra nel diritto ad una buona amministrazione quello che ogni persona ha « di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio ».

Analizzando le diverse normative di settore delle singole Autorità, emerge come queste non offrano maggiori garanzie di quelle generali delineate dalla legge n. 689/1981, richiamata, seppure parzialmente, dalle varie leggi istitutive delle Authorities, presentando, semmai, a tratti, dei profili di maggiore criticità e debolezza.

Le richiamate leggi istitutive, come dianzi specificato, hanno riservato alla normazione secondaria, anche regolamentare, la definizione dei propri procedimenti, ivi compreso quello sanzionatorio. Spesso è stato lo stesso legislatore a richiamare principi della CEDU: questo avrebbe fatto immaginare e propendere per un’impostazione più garantista di questo sistema; tuttavia, al di là delle aspettative, tale apodittica affermazione di principio rischiava, e di fatto lo è stato in concreto, di essere smentita dalla realtà: nelle singole Autorità, così, in linea di massima, sembra essere prevalsa la convinzione che un sistema troppo garantista e improntato a una maggiore tutela dei soggetti coinvolti, in termini di partecipazione a un procedimento che deve essere il più possibile trasparente avrebbe, inevitabilmente, finito con l’ostacolare l’effettività e l’efficienza della potestà sanzionatoria, diminuendo l’efficacia dell’azione delle Autorità, con una singolare eterogenesi dei fini.

Alla fine, di fatto, un vero e proprio contraddittorio o non è stato in alcun modo previsto, o è stato subordinato all’autorizzazione dell’Autorità interessata.

3. Il principio di proporzionalità.

La descritta rilevanza del momento sanzionatorio porta con sé come naturale corollario un indispensabile effetto dissuasivo e deterrente dei comportamenti antigiuridici.

Tuttavia, bisognerebbe scongiurare il rischio che si avrebbe ove le imprese, sulla base di una previa valutazione della sanzione massima applicabile, definiscano la propria politica aziendale e, quindi, eventualmente, anche la possibilità di porre in essere un comportamento antigiuridico, dopo aver operato un bilanciamento tra i costi che deriverebbero dall’applicazione della sanzione e dall’eventuale condanna al risarcimento del danno e i benefici conseguibili attraverso una condotta antigiuridica ed elusiva di una determinata norma, per arrivare a decidere se “rischiare” un comportamento illecito: così facendo si arriverebbe al paradosso di avere una sottodeterrenza della sanzione [SABBATINI, 2010].

Problema questo tipico del vecchio Continente e, invece, sconosciuto agli Stati Uniti, grazie all’elevata consistenza delle sanzioni irrogate per gli illeciti, per esempio, antitrust (dove la somma delle sanzioni e dei danni risarciti sono pari a circa il 150% del danno causato dai relativi cartelli) e dei risarcimenti ottenuti dai danneggiati: questo, sicuramente, consente di realizzare un grado di deterrenza maggiore [SAITTA, 2009, 41 ss.].

Se ciò è vero, non può, però, essere dimenticato che in un sistema come il nostro, la sanzione che può essere applicata, deve essere congrua e idonea al raggiungimento dello scopo, ma al contempo essere anche proporzionata e adeguata. Si dovrà, quindi, costantemente operare un equo bilanciamento tra l’interesse perseguito con l’applicazione della misura sanzionatoria e l’oppressione della sfera soggettiva e personale del destinatario della stessa, in modo da evitare che diritti fondamentali, anche economici, vengano sacrificati da aggressioni sproporzionate e in alcun modo giustificate.

Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato, è pressocché unanime nel ritenere il principio di proporzionalità, quale fondamento dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica del cittadino, oltre che della graduazione della sanzione, articolato in tre fasi, distinte, ma tutte convergenti verso la medesima finalità, ovvero quella di garantire effettività al sistema, ma al contempo non creare nocumento a fondamentali princìpi, quale ad esempio quello di adeguatezza o di congruità. La sanzione, nelle parole dei Giudici di Palazzo Spada, deve, così, rispecchiare tre parametri: « a) idoneità, ossia nel rapporto tra il mezzo adoperato e il fine perseguito, l’esercizio del potere sarà legittimo solo se la soluzione adottata consenta di raggiungere l’obiettivo; b) necessarietà, ovvero l’assenza di qualsivoglia altro mezzo idoneo ma tale da incidere in misura minore sulla sfera del singolo: la scelta tra tutti i mezzi astrattamente idonei, dovrà ricadere su quella che comporti il minor sacrificio; c) adeguatezza, cioè tollerabilità della restrizione che comporta per il privato: alla luce di questo parametro, l’esercizio del potere, sebbene idoneo e necessario, sarà legittimo solo se rispecchia una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi, in caso contrario la scelta andrà rimessa in discussione » (tra le tante, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 17 aprile 2007, n. 1736).

Diversamente opinando, l’inflizione di una pena sproporzionata rispetto all’oggettiva entità, oltre che alla gravità del fatto commesso, anche alla luce del danno arrecato, sarebbe comunque oggettivamente ingiusta e, quindi, in contrasto con i fondamentali principi di ragionevolezza e proporzionalità.

Sebbene la teoria economica individui la sanzione ottima e perfetta in quella di entità pari al danno diviso la probabilità di condanna, siffatto calcolo, spesso, risulta essere complesso e aleatorio, rischiando di giungere a una determinazione finale in conflitto con il principio di proporzionalità.

4. L’art. 11 della legge n. 689/1981 e i criteri di determinazione delle sanzioni

amministrative pecuniarie.

Il paradigma normativo rilevante quanto alla determinazione delle misure afflittive irrogabili da ciascuna Autorità, deve integrarsi con la previsione di cui all’art. 11 della legge n. 689/1991, in materia di criteri di determinazione della generalità delle sanzioni amministrative pecuniarie, il quale, espressamente, prevede quattro parametri cui l’Amministrazione deve attenersi per determinare il quantum della sanzione tra il minimo e il massimo edittale previsto dalla legge e, cioè, la gravità della violazione, l’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze della violazione, la personalità dell’agente e le condizioni economiche di quest’ultimo.

Ovviamente, questi parametri riguardano, esclusivamente, la graduazione della sanzione tra il minimo e il massimo, non consentendo in alcun modo di scendere al di sotto del minimo edittale.

La sanzione amministrativa articolata tra un minimo ed un massimo risponde perfettamente ai requisiti di razionalità e garanzia cui deve essere improntata la discrezionalità dell’organo chiamato ad irrogare le sanzioni. In questa cornice di pena edittale invalicabile per l’organo giudicante, si pome comunque uno spazio intermedio apprezzabile ma non troppo ampio entro il quale il riferito organo può determinare l’esatta entità della pena con riferimento ai suddetti criteri previsti e stabiliti dall’art. 11 [CAGNAZZO-TOSCHEI, 2012]. Così facendo si riesce a garantire ex lege la ragionevolezza dello spazio discrezionale affidato all’organo giudicante, che risulta così costretto entro limiti monetari assoluti nonché entro una proporzione tra minimo e massimo.

Il riferito art. 11, pacificamente ritenuto in linea generale applicabile alle sanzioni comminate dalle Autorità indipendenti, è norma espressiva di un principio generale di proporzionalità, il quale, se su un piano generale è teso a massimizzare la tutela dell’interesse pubblico con il minimo sacrificio possibile dell’interesse privato, su quello meramente sanzionatorio, va inteso come principio di giusta retribuzione da osservare nella reintegrazione dell’ordine giuridico violato. La suddetta norma, in altre parole, altro non è che uno strumento di garanzia nei confronti del trasgressore nell’ambito del procedimento di irrogazione della sanzione ad opera dell’autorità competente, nonché in quello giurisdizionale di opposizione, in cui il giudice procede alla rideterminazione della sanzione alla luce dei parametri contenuti sempre nell’art. 11 i quali, nel complesso, rispecchiano la natura sostanzialmente punitiva, e non risarcitoria o ripristinatoria, della sanzione amministrativa pecuniaria, in una prospettiva di prevenzione generale o speciale.

Tradizionalmente è stato ritenuto che non vi sia una vera discrezionalità nelle sanzioni amministrative, ma mera discrezionalità giudiziale, come tale diretta a realizzare, nel caso concreto, la giustizia ordinamentale. Sulla base di tali considerazioni, i provvedimenti sanzionatori vengono liberati dai caratteri della discrezionalità amministrativa e, quindi, dell’autoritatività [RIVA CRUGNOLA, 1982, 475 ss].

Tuttavia, siffatto potere discrezionale non pare discostarsi dalla discrezionalità amministrativa tout court, dal momento che nella discrezionalità sulla commisurazione della sanzione siamo di fronte a un potere di scelta da esercitare non soltanto in vista di astratte finalità di giustizia, tra le quali, sicuramente, spicca quella social-preventiva. Quest’ultima mira a evitare che l’incolpato reiteri l’illecito, restando fortemente connessa con il bene giuridico tutelato dal legislatore attraverso la fattispecie sanzionatoria: la prevenzione, cioè, non è fine a se stessa, ma ricollegata alla tutela del bene giuridico protetto [GOISIS (1), 2013, 79 ss. e, infra, nel presente lavoro collettaneo].

Se il riferimento alla gravità della violazione – la quale va riferita al fatto concreto e desunta globalmente da elementi oggettivi e soggettivi, quindi non in astratto - appare di per sé compatibile con una visione essenzialmente retributivistica, parimenti non può dirsi del richiamo alla personalità dell’agente oltre che alle sue condizioni economiche, i quali, invece, mirano a una rieducazione del sanzionato, inducendolo a non commettere più l’illecito in futuro [MEZZANOTTE, 2010, 203 ss.].

Con precipuo riferimento al requisito della personalità dell’agente il legislatore ha voluto attribuire autonomo rilievo, ai fini della determinazione della sanzione, non solo al comportamento dell’agente anteriore alla trasgressione di cui si tratta, ma ad ogni circostanza soggettiva ritenuta pertinente e utile, quali le qualità sociali o morali, nonché il grado di istruzione e/o cultura.

Il criterio delle condizioni economiche dell’agente, invece, in modo maggiore rispetto agli altri criteri, denota chiaramente la sua finalità di prevenzione speciale e generale in quanto, da una parte, mira a evitare che condizioni economiche floride rendano vano il carattere afflittivo e punitivo della sanzione stessa (prevenzione speciale), dall’altra impedisce che i consociati possano fare affidamento sulle proprie disponibilità finanziarie per ritenere la commissione di una violazione conveniente rispetto alle conseguenze che ne derivano (prevenzione generale) [PALIERO–TRAVI, 1989].

Quanto, invece, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze della violazione, questa sembra ricollegarsi a finalità di cura dell’interesse

pubblico violato: se sotto la minaccia della sanzione, l’agente elimina o attenua la lesione dell’interesse pubblico, l’amministrazione ridurrà la severità della risposta sanzionatoria. In tal modo, l’amministrazione riuscirà a utilizzare la potestà sanzionatoria per imporre alcuni comportamenti al cittadino, in vista della migliore preservazione dell’interesse pubblico. Con riferimento a quest’ultimo parametro, giova precisare che lo stesso assume un valore significativo anche a prescindere dagli utili risultati conseguiti concretamente: in sostanza, non è necessario che l’agente abbia effettivamente eliminato o attenuato il danno, essendo all’uopo sufficiente che egli si sia