S
CILLAV
ERNILESOMMARIO: 1. Introduzione: il diritto penale amministrativo.- 2. Funzione e finalità delle sanzioni amministrative.- 3. Il principio di specialità tra illecito penale e illecito amministrativo.- 4. Argomenti a sostegno della tesi dell’unitarietà del fenomeno sanzionatorio: la depenalizzazione.- 5. La successione impropria tra sanzioni penali e sanzioni amministrative.- 6. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione: il diritto penale amministrativo.
Con l’espressione “diritto penale amministrativo” si fa riferimento al sistema punitivo creato dal legislatore mediante l’introduzione di numerose sanzioni amministrative derivanti talvolta dal processo di depenalizzazione, talaltra dalla necessità di garantire il rispetto di specifiche previsioni amministrative [NUVOLONE, 1968; RUFFO, 2004]. Ciò avviene in diverse aree del diritto amministrativo, ma soprattutto in importanti settori di rilevanza economica, ed è proprio in questo contesto che si collocano le sanzioni delle Autorità amministrative indipendenti, oggetto del presente studio.
Sebbene il lavoro complessivo sia dedicato allo studio del potere sanzionatorio delle Autorità indipendenti e delle sue peculiarità, in questa sede si tratterà in generale del tema delle sanzioni amministrative e del loro rapporto con il diritto penale: sotto questo profilo, infatti, le sanzioni delle Authorities non paiono presentare elementi di spiccata specialità, se non per il fatto che la loro portata afflittiva risulta acuita dalla misura spesso ingente delle pene applicate, tanto che, come si vedrà, soprattutto con riguardo a questa specifica tipologia di sanzioni, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha espresso la necessità di estendere le garanzie proprie del diritto penale.
Le misure punitive adottate dalle Autorità indipendenti, al pari di quelle irrogate dagli altri enti pubblici, partecipano, infatti, di molti dei caratteri delle sanzioni penali: da ciò deriva la necessità di affrontare la questione del rapporto tra potere sanzionatorio amministrativo e potere sanzionatorio penale.
Prima di procedere in tal senso, un’ulteriore specificazione si rende necessaria al fine di delimitare l’ambito della ricerca che ci si propone di svolgere. Le sanzioni amministrative cui si farà riferimento sono esclusivamente quelle che presentano caratteristiche tipiche del potere punitivo e che, di conseguenza, sembrano le sole a rientrare in quella categoria definita dalla dottrina in termini di « sanzioni amministrative pure » [SANDULLI M.A., 1983], in virtù della loro portata afflittiva anziché riparatoria. Nonostante esulino dall’oggetto della trattazione, si deve, infatti, dare contezza dell’esistenza anche di misure ripristinatorie, volte sì a sanzionare il mancato rispetto di un precetto, ma soprattutto finalizzate a rimuovere le conseguenze derivanti da detta violazione.
Tuttavia, al di là delle difficoltà sollevate in dottrina [CASETTA, 1997] circa la possibilità di inquadrare i provvedimenti volti a ripristinare lo stato antecedente la commissione di un determinato fatto nel novero delle sanzioni, nel presente contributo ci si soffermerà sulle misure precipuamente punitive, le uniche a poter essere ricondotte al così definito “diritto penale amministrativo”, con l’ovvia precisazione che si tratterà, perlopiù, di misure che incidono sul patrimonio del trasgressore [PAGLIARI, 2012], più che di misure restrittive della libertà personale dell’autore dell’illecito (si consideri,
infatti, che vi sono casi particolari, come nell’ambito dell’amministrazione militare, nei quali pure l’amministrazione può irrogare sanzioni detentive).
D’altra parte, solo le sanzioni amministrative pecuniarie, e non anche quelle riparatorie, appaiono rispondere a finalità di carattere prettamente deterrente e afflittivo, venendo così in rilievo la comunanza di scopi tra il potere sanzionatorio amministrativo e quello penale. In entrambi i casi l’effetto voluto dal legislatore sembra consistere nella punizione del trasgressore di un determinato precetto, anche al fine di evitare una ripetizione del comportamento illecito (in ciò consiste la funzione special-preventiva) e di garantire in tal modo l’osservanza delle regole poste a tutela di interessi ritenuti prevalenti dall’ordinamento (in ciò consiste la funzione general-preventiva).
Se l’effetto prodotto è essenzialmente punitivo e deterrente sia nell’uno che nell’altro caso, maggiori perplessità sorgono in ordine all’individuazione delle ragioni dell’attribuzione di un simile potere e dell’interesse protetto dalle diverse tipologie di sanzioni, penali e amministrative, e alle conseguenze che ne derivano.
La trattazione successiva sarà, dunque, volta a vagliare le diverse posizioni sostenute in dottrina circa la specifica funzione del potere sanzionatorio amministrativo e ad esaminare gli argomenti, tanto di diritto positivo, quanto frutto dell’interpretazione giurisprudenziale, addotti a suffragio delle stesse, senza trascurare le possibili conseguenze che derivano dall’accoglimento delle varie tesi.
2. Funzione e finalità delle sanzioni amministrative.
L’individuazione della funzione svolta dalle sanzioni amministrative è strettamente correlata alla tipologia di interesse protetto.
Fermo restando quanto si è detto in precedenza, in relazione all’effetto punitivo prodotto sia dalle sanzioni penali sia da quelle amministrative (almeno da quelle pecuniarie), è necessario interrogarsi su quale sia l’interesse perseguito dal legislatore con l’attribuzione del potere sanzionatorio alle pubbliche amministrazioni, almeno ogniqualvolta la sanzione abbia natura meramente afflittiva e non ripristinatoria.
Secondo una prima ricostruzione, le sanzioni amministrative, pur presentando un carattere punitivo, sarebbero principalmente espressione di una potestà amministrativa, distinguendosi in questo dalle sanzioni irrogate dall’autorità giudiziaria [ZANOBINI, 1924; TESAURO, 1925]. La linea di demarcazione dovrebbe, infatti, essere individuata proprio nel diverso potere di cui le sanzioni costituiscono manifestazione.
La possibilità riconosciuta alle pubbliche amministrazioni di adottare, in determinate fattispecie, misure afflittive non rappresenterebbe una mera deroga alla competenza normalmente attribuita all’autorità giudiziaria, ma troverebbe il suo fondamento nell’esercizio di un potere amministrativo [SANTI ROMANO, 1930].
Viceversa, secondo altra dottrina, sarebbe diverso l’interesse protetto dalle due tipologie sanzionatorie. In particolare, le sanzioni amministrative sarebbero volte a tutelare il solo ordinamento amministrativo, di natura “derivata” e dotato di un sistema punitivo autonomo rispetto all’ordinamento generale, a presidio del quale sarebbero, invece, preposte le sanzioni penali [OTTAVIANO, 1958].
La diversità di interessi in gioco appare ancora più marcata nelle ricostruzioni di chi ha ricollegato l’esercizio del potere sanzionatorio al perseguimento dell’interesse specifico affidato alla cura di un dato ente pubblico. A detta tesi, peraltro, sembra debbano essere ricondotte sia le posizioni di chi ha inquadrato il fenomeno sanzionatorio nell’ambito del più generale potere di autotutela [BENVENUTI, 1959], sia
le interpretazioni che attribuiscono al potere in esame natura complementare agli altri poteri amministrativi.
Il potere sanzionatorio, infatti, sarebbe finalizzato in maniera diretta al soddisfacimento dello specifico interesse affidato al soggetto pubblico, collocandosi in una posizione di strumentalità rispetto ai poteri di amministrazione attiva di cui l’ente già dispone per tutelare quel particolare interesse [TRAVI, 1983].
Le sanzioni amministrative si configurerebbero, dunque, come uno strumento ulteriore per la realizzazione dell’interesse pubblico, in aggiunta alle altre funzioni già svolte dall’amministrazione preposta alla cura dello stesso. Secondo questa tesi, l’autorità amministrativa, attraverso l’esercizio del potere sanzionatorio, non perseguirebbe un interesse generale all’osservanza dei precetti posti dall’ordinamento, ma si farebbe portatrice di un interesse suo proprio, quello specifico ad essa attribuito dalla legge [TRAVI, 1983].
Il potere sanzionatorio contribuirebbe, così, a garantire l’effettività dell’azione amministrativa [PAGLIARI, 2012], non ponendosi come obiettivo la mera punizione di chi abbia violato l’ordine giuridico, bensì la piena attuazione dell’interesse pubblico, che si otterrebbe anche tramite misure volte a evitare l’elusione delle regole dettate a protezione dell’interesse in rilievo.
La sanzione amministrativa non troverebbe, allora, il suo fondamento esclusivamente nella violazione di un precetto, ma nella lesione di un interesse di cui l’amministrazione sarebbe titolare. Quest’ultima non sarebbe portatrice di un generico interesse all’osservanza delle prescrizioni normative, ma avrebbe un interesse particolare all’esercizio del potere sanzionatorio, in virtù della sua complementarietà rispetto alle altre funzioni amministrative [TRAVI, 1983].
Ne consegue che le sanzioni amministrative pecuniarie non potrebbero essere valutate esclusivamente alla luce di una prospettiva propria del diritto penale, strettamente connessa alla finalità preventiva e punitiva perseguita, poiché in tal caso andrebbero semplicemente a “completare” il sistema punitivo penale, restando amministrative soltanto da un punto di vista formale, in quanto attribuite alla competenza di un’autorità amministrativa. In questo modo, infatti, si rischierebbe di confondere il “contenuto” della sanzione con la finalità [PALIERO – TRAVI, 1988].
Le sanzioni amministrative, invece, afferirebbero all’attività della pubblica amministrazione di perseguimento e di realizzazione di un dato interesse, dovendosi conseguentemente escludere una distinzione troppo netta tra misure punitive e ripristinatorie, essendo entrambe espressione del medesimo potere attribuito allo scopo esclusivo di dare piena attuazione all’interesse pubblico tutelato [TRAVI, 1983].
All’autorevole tesi appena richiamata si contrappone, però, l’opinione per cui il potere sanzionatorio amministrativo svolgerebbe la medesima funzione dell’equivalente penale [SANDULLI M.A., 1983]. La soddisfazione dello specifico interesse pubblico affidato alla cura di una data amministrazione sarebbe, invero, esclusivamente indiretta, dovendosi ravvisare il proprium del fenomeno sanzionatorio nella portata afflittiva dei relativi provvedimenti, al fine di garantire il rispetto dell’ordine giuridico.
A seguire questa impostazione, l’attribuzione del potere di adottare misure punitive all’autorità giudiziaria ovvero agli enti pubblici dipenderebbe, quindi, in via esclusiva dal disvalore riconosciuto dal legislatore a un comportamento antigiuridico, discendendone conseguenze differenti in ordine al trattamento del trasgressore. E anzi, sarebbero proprio le specifiche conseguenze repressive che seguono la commissione dell’illecito a determinarne la riconducibilità nell’ambito del penalmente rilevante
ovvero nell’ambito dei campi civile o amministrativo, non assumendo rilievo l’identificazione degli interessi lesi o tutelati [CASETTA, 1999].
La qualificazione in termini penali ovvero amministrativi della sanzione deriverebbe, pertanto, esclusivamente dalla valutazione sostanziale dell’infrazione da parte del legislatore e, in particolare, dalla valutazione del tipo di responsabilità che si riconosce in capo all’autore dell’illecito, a seconda della rilevanza all’interno dell’ordinamento dello specifico precetto violato [SANDULLI M.A., 1983].
Tanto le sanzioni penali che quelle amministrative sarebbero volte a punire l’autore dell’illecito, con finalità preventive e deterrenti, e non assicurerebbero in maniera diretta la realizzazione dell’interesse pubblico, fermo restando che tramite la misura repressiva di natura amministrativa si dimostrerebbe la “riprovazione” dell’inosservanza di un dovere posto a garanzia dell’ordine giuridico amministrativo e, in particolare, dell’interesse di volta in volta protetto [SANDULLI M.A., 1983].
Infine, pure non riconoscendo piena omogeneità tra sanzioni penali e amministrative, queste ultime si distinguerebbero dagli altri atti amministrativi, posto che la finalità repressiva degli illeciti contribuirebbe a conferire ai provvedimenti sanzionatori una certa autonomia rispetto agli altri poteri amministrativi, evidenziandone, invece, i profili comuni ai diversi strumenti di reazione alle violazioni dell’ordinamento, siano essi penali o civili [CABIDDU, 2004].
La tesi dell’unitarietà del fenomeno sanzionatorio sembra, peraltro, suffragata dalle previsioni contenute nella legge 24 novembre 1981, n. 689, che ha rappresentato e rappresenta tuttora il testo normativo più completo in materia di sanzioni amministrative pecuniarie e che ha imposto l’applicazione al potere sanzionatorio delle pubbliche amministrazioni di una serie di garanzie tipiche del diritto penale, proprio in ragione della portata afflittiva che le accomuna.
In ogni caso, nonostante siano trascorsi oltre trent’anni dall’entrata in vigore della legge da ultimo citata, il dibattito sul rapporto tra potere sanzionatorio amministrativo e penale continua a essere attuale, anche in forza di nuove considerazioni giurisprudenziali e dottrinali.
L’unitarietà del fenomeno sanzionatorio pare, infatti, trovare sostegno in molte pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha più volte manifestato l’esigenza di superare le qualificazioni formali e interne ai singoli ordinamenti, in favore di una lettura sostanziale delle misure afflittive.
Il ragionamento dei giudici di Strasburgo muove dall’affermazione dell’indifferenza della qualificazione nazionale delle sanzioni come penali ovvero amministrative, al fine di evitare facili elusioni della Convenzione da parte dei singoli Stati e di promuovere una equiparazione sostanzialistica delle misure di portata afflittiva. Secondo la Corte EDU, infatti, la mancata qualificazione in termini penalistici della sanzione all’interno del singolo ordinamento non esclude la necessità di applicare gli artt. 6 e 7 della Convenzione, rispettivamente dedicati all’equo processo e al principio di irretroattività. Ciò che rileva è, dunque, soltanto la portata intrinsecamente afflittiva della sanzione (cfr. Corte eur. dir. uomo, 23 novembre 2006, Jussila v.
Finlandia).
D’altra parte, fin dalla sentenza Engel ed altri v. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, i giudici di Strasburgo hanno chiarito che la qualificazione interna di una sanzione come “penale” rileva solo da un punto di vista formale e relativo, richiedendosi alla Corte un accertamento che va ben oltre. Le garanzie previste in materia penale devono, infatti, essere assicurate sempre quando l’illecito abbia natura sostanzialmente afflittiva, ossia
incida pesantemente nella sfera soggettiva del destinatario, per es., perché la pena prevista sia particolarmente gravosa.
La tesi sembra, peraltro, oggi accolta anche dalla giurisprudenza costituzionale. Nella sentenza n. 196 del 2010, si legge, infatti, che dall’esame delle pronunce della Corte EDU « si ricava il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto ».
Sulla scia di detti approdi giurisprudenziali, anche la dottrina più recente è tornata, dunque, sulla questione del rapporto tra sanzioni penali e amministrative, con nuove suggestioni.
In particolare, la negazione di una distinzione sostanziale tra le diverse sanzioni muoverebbe, altresì, dalla identità della valutazione effettuata dall’autorità giudiziaria e da quella amministrativa in sede di determinazione della sanzione [GOISIS, 2013].
Non vi sarebbe, infatti, alcuna differenza, se non su un piano soggettivo, tra la discrezionalità “giudiziale” e quella amministrativa. E invero le due attività si sarebbero nel tempo ulteriormente accomunate: da un lato, perché i criteri stabiliti dall’art. 133 c.p. per determinare il quantum della pena non sono idonei a rendere la valutazione del giudice penale più prevedibile di una decisione amministrativa; dall’altro, perché sono state ampliate le garanzie proprie del diritto amministrativo, così riducendo i margini di scelta dell’amministrazione, chiamata a motivare le decisioni adottate e, in ogni caso, a rispettare importanti principi giuridici, oggi richiamati dall’art. 1, l. n. 241/1990 [GOISIS, 2013].
E ancora, la comunanza di funzioni tra sanzioni penali e amministrative sarebbe, altresì, dimostrata dal fatto che entrambe appaiono finalizzate alla cura di un dato interesse. La retribuzione non rappresenterebbe, infatti, l’unico scopo del potere sanzionatorio penale che non sarebbe esercitato per mere ragioni di giustizia, ma anche per realizzare obiettivi di interesse pubblico e, in particolare, quello social-preventivo. Seppure in via indiretta, dunque, la prevenzione speciale perseguita dalle sanzioni si ricollegherebbe sempre alla tutela di un dato bene giuridico [GOISIS, 2013].
Ricostruite così le diverse tesi sul rapporto tra sanzioni penali e amministrative, si procederà, nel prosieguo della trattazione, all’esame di ulteriori argomenti che appaiono idonei a supportare la tesi dell’unitarietà del fenomeno sanzionatorio [per lo studio dell’estensione delle garanzie sancite dal nostro sistema penale anche alle sanzioni amministrative cfr., infra, il contributo di PANTALONE].
3. Il principio di specialità tra illecito penale e illecito amministrativo. L’art. 9 della l. n. 689/1981 è rubricato « principio di specialità ».
Ai sensi della citata norma, « quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale ».
L’articolo in commento riproduce un principio generale dell’ordinamento giuridico, in base al quale se una stessa condotta è disciplinata da più disposizioni deve trovare applicazione quella di maggior dettaglio, al fine di evitare inutili sovrapposizioni. Espressione del divieto di bis in idem sostanziale, il principio di specialità è previsto nel sistema penale dall’art. 15 c.p., per cui se la medesima condotta
è regolata da più norme penali prevale quella speciale, pure laddove disponga l’applicazione di una sanzione meno grave.
Si configura, infatti, in questi casi un concorso apparente di norme, perché l’unica previsione applicabile è quella che introduce elementi specializzanti rispetto alla norma generale [MARINUCCI – DOLCINI, 2006]. La controprova del rapporto di specialità è data dal fatto che in assenza della disposizione di dettaglio la condotta sarebbe comunque sanzionata, rientrando nella previsione generale.
Nessuna difficoltà si riscontra nel comprendere le ragioni alla base della codificazione del principio di specialità nell’ambito del diritto penale. Il legislatore ha inteso evitare che il medesimo fatto venga punito più volte: infatti, pure in presenza di un comportamento che integra gli estremi di più disposizioni, la violazione è unica e unica, pertanto, deve essere la punizione [CONTI, 1958].
L’estensione del principio anche al caso in cui la stessa condotta sia presa in considerazione da disposizioni di natura differente, penale e amministrativa, riporta, però, in luce la questione della funzione svolta dal potere sanzionatorio amministrativo. La configurabilità di un rapporto di specialità anche tra illeciti penali e illeciti amministrativi sembra, infatti, idonea a confermare l’unitarietà del sistema punitivo e l’identità tra le due misure sanzionatorie, almeno da un punto di vista sostanziale [SANDULLI M.A., 1992; ID., 2013].
Solo ammettendo che le sanzioni penali e amministrative svolgano la medesima funzione deterrente e punitiva può giustificarsi l’individuazione e l’applicazione di un rapporto di specialità. Laddove, invece, si ritenesse che le sanzioni amministrative, pure non ripristinatorie, perseguano un interesse diverso da quello proprio del potere penale, dovrebbe sostenersi che la medesima condotta vada assoggettata alle conseguenze previste da entrambe le branche del diritto, al fine di tutelare interessi differenti [COLUCCI – DIMA, 2012].
La scelta del legislatore di ritenere un bis in idem anche il caso in cui il medesimo fatto sia considerato tanto dalla legge penale che da quella amministrativa è, invece, indicativa del riconoscimento di una natura comune, favorendo l’interpretazione a sostegno dell’unitarietà del fenomeno sanzionatorio.
4. Argomenti a sostegno della tesi dell’unitarietà del fenomeno sanzionatorio: la
depenalizzazione.
Un ulteriore argomento a supporto della tesi dell’unitarietà del potere sanzionatorio si individua nel fenomeno della depenalizzazione, per il quale un fatto, in precedenza previsto come reato, viene escluso dall’ambito del penalmente rilevante.
La depenalizzazione può, però, esplicarsi secondo due modalità differenti. Nel primo caso si rende lecito ciò che prima non lo era; nel secondo, di gran lunga più frequente, il legislatore si limita a “trasferire” una determinata fattispecie dal campo dell’illecito penale a quello dell’illecito amministrativo, sicché la condotta conserva il carattere contra ius, ma mutano le conseguenze previste dall’ordinamento per il compimento di quel determinato fatto.
Nell’ultima ipotesi considerata, la condotta mantiene una portata offensiva, dovendosi pertanto continuare a pretendere una “reazione” da parte dell’ordinamento che, però, non è più di tipo penale, ma di tipo amministrativo.
Alla luce di una serie di ragioni, che spaziano dalla necessità di adeguare la “punizione” all’evoluzione dei valori etico-sociali alla constatazione, almeno in alcuni
settori, della maggiore efficacia deterrente delle sanzioni amministrative rispetto a quelle penali [SINISCALCO, 1995], il legislatore, pure continuando a riconoscere l’antigiuridicità di un fatto, ne muta le conseguenze, escludendo l’applicazione di sanzioni di natura penale, comminate dall’autorità giudiziaria, in favore di misure di natura amministrativa, di competenza degli enti pubblici.
Il passaggio dell’illecito dall’ambito del penalmente rilevante a quello amministrativo non sembra idoneo a far venir meno la funzione afflittiva della previsione di una conseguenza sfavorevole per chi abbia tenuto una condotta antigiuridica.
Vero è, infatti, che la scelta dell’amministrazione competente a irrogare le sanzioni deriva dal compito alla stessa affidato di curare proprio l’interesse pubblico messo a repentaglio dalla condotta illecita e che, di conseguenza, l’applicazione delle sanzioni consente di tutelare, quantomeno in maniera indiretta, lo specifico interesse in rilievo. Tuttavia, non sembra si possa sostenere che la portata precipuamente punitiva della misura sanzionatoria venga meno per il sol fatto che è mutata la sua qualità.
Tutte le sanzioni, siano esse penali, amministrative o, non si dimentichi, civili, hanno carattere eminentemente afflittivo, rappresentando la conseguenza del comportamento antigiuridico posto in essere [CASETTA, 1997]. Tutti i provvedimenti che puniscono il trasgressore di un dato precetto possono, infatti, essere ricondotti al novero delle sanzioni in senso tecnico, restando escluse soltanto le misure ripristinatorie che non contengono una componente afflittiva.
L’essenza del potere sanzionatorio amministrativo sta, dunque, nel punire, e prima ancora prevenire, le condotte che siano potenzialmente idonee a porre in pericolo il bene