6. I modelli organizzativi nelle piccole e medie imprese.
Le considerazioni svolte fino a questo punto fungono solo da indicazioni generali per la redazione del modello organizzativo, ma certo non esautorano in alcun modo i responsabili di ciascuna azienda dal dare vita ad un sistema di controlli assolutamente aderente alla concreta realtà che caratterizza la singola persona giuridica.
Come è già stato opportunamente evidenziato, è impossibile delineare un modello universalmente valido: «settori merceologici differenti e soglie dimensionali dell’impresa sono, infatti, due tra i fattori che influiscono maggiormente sulle sue caratteristiche, ai fini della funzione preventiva che esso deve svolgere»70.
Il riferimento alle dimensioni dell’impresa segna proprio la problematica inerente l’implementazione del modello organizzativo nelle cosiddette piccole e medie imprese – la cui definizione71, in questa sede, va ricercata nell’essenzialità della struttura interna gerarchica e funzionale, piuttosto che in parametri quantitativi – che costituiscono, peraltro, l’assoluta maggioranza dell’imprenditoria italiana.
Quella della soglia dimensionale è una problematica che riguarda ogni impresa, a prescindere dal settore in cui opera, e influisce sul livello di complessità dei modelli da adottare. È evidente che questioni concernenti l’organizzazione, le deleghe di funzioni e le procedure decisionali e operative dovrebbero assumere un minor rilievo in una piccola impresa, nella quale la maggior parte delle funzioni è concentrata in capo a poche persone; dal che, si fa erroneamente derivare la conseguenza che parlare di modello organizzativo in tale ambito dimensionale sia fuori luogo. Tale conclusione non è corretta,
70 CONFINDUSTRIA, Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del Decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, cit., p. 80.
71 Sul punto, cfr. BARTOLOMUCCI S., Sulla configurabilità del (fantomatico) Modello organizzativo ex d.lgs. 231/2001 dedicato alla P.M.I., in Resp. amm. soc. ed enti, 2010, n. 2, p. 93 ss.
infatti, né sotto il profilo normativo – in alcun modo il d.lgs. n. 231/2001 esclude dalla sua sfera di applicazione le piccole e medie imprese – né sotto un profilo pratico – la gran parte dei procedimenti penali ha interessato proprio società di questo tipo.
Mentre nelle società di rilevanti dimensioni vi è una costante dissociazione tra la posizione della persona fisica e quella della persona giuridica, sicché è ben possibile che la persona fisica agisca in maniera delittuosa solo per soddisfare un proprio interesse, lo stesso non può essere affermato nel caso di società di piccole dimensioni, in cui la compenetrazione tra l’ente e la persona fisica che ha agito in maniera criminosa – spesso lo stesso imprenditore – è così forte che diventa difficile escludere la responsabilità dell’ente, che finisce per identificarsi ontologicamente con chi ha agito materialmente.
Per quanto riguarda la redazione dei modelli organizzativi è stato ritenuto che con riferimento ai reati colposi – essenzialmente quelli in materia infortunistica e malattie professionali – la soglia dimensionale dell’impresa non ha alcuna valenza: in tal caso, perciò, le modalità organizzative dovranno seguire gli ordinari passaggi indicati per qualsiasi impresa, ovvero individuazione dei rischi, indicazione delle procedure di prevenzione, redazione di un codice sanzionatorio, ecc.72.
Per quanto riguarda, invece, i reati dolosi, bisogna operare una distinzione tra società con pochissimi dipendenti (meno di una decina) e società in cui tale soglia sia superata. Nel primo caso, poiché il processo decisionale si concentra tutto in capo ad un soggetto, si sostiene che non abbia effettivamente senso pensare alla predisposizione di un modello di prevenzione dei reati. Nel secondo caso, invece, l’aspetto dimensionale influirà, tuttalpiù, sul processo di gestione dei rischi, potendo l’imprenditore limitare la relativa analisi alle sole
72 Esprime questa opinione SANTORIELLO C., I modelli organizzativi richiesti dal D.Lgs. 231/2001 e PMI. Una riflessione alla luce delle indicazioni di Confindustria, in Resp. amm. soc. ed enti, 2015, n. 1, p. 186.
funzioni aziendali particolarmente soggette al ricorso ad attività illecite ed alla prevenzione solo di alcuni fra i reati considerati dal d.lgs. n. 231/2001, nonché adottare protocolli preventivi e di controllo maggiormente semplificati73.
Per quanto concerne il sistema di controllo adottato dalle piccole e medie imprese e, in particolare, l’Organismo di Vigilanza, si evidenzia come esso possa presentare una minore complessità rispetto al sistema generale sotto un duplice aspetto. In primo luogo, è lo stesso legislatore ad aver tenuto in considerazione le problematiche che si pongono in quella categoria di enti i quali, per la dimensione e la semplicità della struttura organizzativa, sovente non dispongono di una funzione con compiti di monitoraggio del sistema di controllo interno e per i quali, conseguentemente, l’onere derivante dall’istituzione di un organismo ad hoc potrebbe non essere economicamente sostenibile. Da queste considerazioni è originata l’elaborazione dell’art. 6, comma 4, d.lgs. n. 231/2001, in base alla quale nelle società di piccole dimensioni è possibile che il ruolo dell’Organismo di Vigilanza possa essere svolto dallo stesso dirigente.
Occorre, peraltro, rilevare che nelle piccole e medie imprese il funzionamento e i compiti dell’Organismo di Vigilanza sono decisamente minori rispetto a quanto è dato riscontrare nelle aziende di maggiori dimensioni. Infatti, le piccole e medie imprese si caratterizzano proprio per il fatto di indirizzare la propria attività entro ambiti lavorativi ristretti e settoriali e per il fatto di avere alle proprie dipendenze un numero ristretto di lavoratori. Ciò presumibilmente consente di escludere, come pertinente all’attività della piccola azienda, un numero significativo di rischi da reato74.
73 Cfr. SANTORIELLO C., I modelli organizzativi richiesti dal D.Lgs. 231/2001 e PMI. Una riflessione alla luce delle indicazioni di Confindustria, cit., p. 186.
74 A titolo esemplificativo, un’impresa edile di modeste dimensioni vedrà il punto focale del proprio modello organizzativo nella prevenzione degli infortuni sul lavoro, mentre marginale o nullo sarà il rischio della commissione di reati informatici; in un’impresa che realizza software, invece, si verificherà la situazione radicalmente opposta.
C
APITOLOII
LA
SINDACABILITÀ
GIUDIZIALE
DEI
MODELLI
DI
ORGANIZZAZIONE,
GESTIONE
E
CONTROLLO
SOMMARIO: 1. La scelta del modello processuale penale. – 2. La valutazione giudiziale del modello organizzativo e le attuali difficoltà in ordine alla discrezionalità del giudice penale. – 2.1. Il concetto di idoneità rispetto all’adozione del modello organizzativo. – 2.2. La valutazione giudiziale di idoneità del modello adottato ex post. – 2.3. Idoneità del modello in caso di malattia professionale o di infortunio sul lavoro. – 2.4. Il concetto di efficacia rispetto all’attuazione del modello organizzativo. – 3. Idoneità ed efficacia dei modelli nella recente casistica giurisprudenziale: il caso Impregilo. – 3.1. Il caso Thyssenkrupp: composizione dell’Organismo di Vigilanza e idoneità dei modelli organizzativi.
1. La scelta del modello processuale penale.
La scelta di affidare al giudice penale la valutazione del modello organizzativo è rappresentativa dell’intera filosofia che sta alla base del d.lgs. n. 231/2001.
Come già in precedenza analizzato, le ragioni per cui il legislatore delegato ha affidato la cognizione dell’illecito dell’ente al giudice penale possono essere sintetizzate nell’esigenza di assicurare le massime garanzie procedimentali all’imputato persona giuridica. Come noto, tale scelta è stata criticata riguardo all’affidamento al giudice penale dell’accertamento di una responsabilità formalmente amministrativa, alla pretesa inidoneità del giudice penale ad occuparsi di una materia che presuppone conoscenze
multidisciplinari e alla rigidità del meccanismo processuale penale, che non consente scelte di opportunità1.
La scelta del processo penale, quale sede in cui effettuare l’accertamento della responsabilità dell’ente, deriva direttamente dalla legge-‐‑delega (l. 29 settembre 2000, n. 300), la quale, all’art. 11, comma 1, lett. q), prevedeva che «le sanzioni amministrative a carico degli enti sono applicate dal giudice competente a conoscere del reato e che per il procedimento di accertamento della responsabilità si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale, assicurando l’effettiva partecipazione e difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale».
Seguendo tale indicazione, il legislatore delegato, all’art. 34 d.lgs. n. 231/2001, ha fissato un principio generale, secondo cui il procedimento di accertamento della responsabilità degli enti è regolato dalle disposizioni contenute nel Capo III del d.lgs. n. 231/2001 e, in quanto compatibili, dalle norme del codice di procedura penale.
In sostanza, il Capo III del d.lgs. n. 231/2001 disciplina quelle che sono le eccezioni allo schema generale del processo penale, le quali si giustificano in relazione alla natura e alla struttura dell’ente, nonché alle particolari esigenze di garanzia e funzionalità.
Rispetto al codice di procedura penale, si introduce, quindi, una disciplina derogatoria, che prevede un adeguamento del processo penale al nuovo soggetto collettivo, in particolare, con riferimento alla competenza, alla rappresentanza dell’ente, alle vicende modificative nel corso del processo, alle prove, alle misure cautelari, nonché ad alcuni aspetti delle indagini preliminari, dell’udienza preliminare, del giudizio, delle impugnazioni e dell’esecuzione.
1 FIDELBO G., Le attribuzioni del giudice penale e la partecipazione dell’ente al processo, in LATTANZI G. (a cura di), Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano, 2010, p. 435 ss.
Attraverso la clausola di compatibilità di cui all’art. 34, è stata, pertanto, attribuita una valenza sussidiaria alle norme del codice di rito e all’interprete è affidato il compito di valutarne il grado di compatibilità ogniqualvolta si presenti la necessità di un’integrazione della disciplina speciale con quella comune.
2. La valutazione giudiziale del modello organizzativo e le attuali difficoltà in ordine