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I nomi dell’essere e la relazione col finito

1. Della circolarità tra il nome di bene e di verità

I nomi della terra sono nomi secondi, abbiamo detto. Non hanno, cioè, la perfezione del nome primo, l’essere che è, perché nell’esperienza dell’uomo la relazione tra il nome di verità e di bene si mostra con un grado di perfezione inferiore rispetto a quella che è possibile e necessario pensare. Un primo modo in cui la relazione tra verità e bene si mostra, è quello secondo cui il nome di verità è connesso al bene in quanto salva: salvare è, infatti, attività di significare nel senso di dare significato, e quindi dare verità. Anche, verità e bene sono intrecciati tra loro nella misura in cui la verità rappresenta la sola possibilità di incontro degli uomini tra loro, il solo luogo in cui è possibile il vero incontro, quello profondo, nell’anima. In questo senso verità dà significato nel modo di dare vita di comunicazione.

Il legame tra verità e bene si mostra anche nella riflessione secondo cui la verità non è considerata come una categoria neutra ma come un valore, e perciò strettamente connessa al bene. E sta, la verità connessa al bene, alla maniera di un traguardo, toccato il quale si può dire di aver vinto, anche se si è arrivati ultimi. Poiché si tratta di un traguardo uguale per tutti, unico eppure tale da donare il titolo di vincitore a tutti coloro dai quali esso è raggiunto.

La verità salva dunque, perché la verità è un valore. Ed è un valore perché essa è connessa al bene.

La verità è connessa al bene nel senso per cui la verità è, in certo modo, da sempre anche interpretazione della verità: verità è interpretazione perché essa è il luogo in cui le cose si mostrano nel loro volto,e mostrarsi con il loro volto significa mostrarsi orientate in relazione al significato che prende tutta la vita, ossia come ciò che è secondo il bene o il suo contrario. Verità significa l’apparire delle cose secondo il loro essere, e il loro essere è l’insieme delle relazioni in cui la cosa si mostra in se stessa e in relazione a ciò che è altro da sé. È per via della difficoltà,

dell’impossibilità meglio, di cogliere l’intero delle relazioni della cosa (la parola, la situazione, l’intenzione, ecc…) che la verità è un compito molto difficile per lo sguardo umano.

Poiché verità significa l’apparire della cosa nel suo dire di bene (significa l’apparire del bene come bene, o del male come male) la verità è questa apertura originaria che interpreta ciò che appare. La verità è originariamente segnata, nella facoltà di riconoscimento ch’essa rappresenta e che esercita, dalla luce in cui il bene si manifesta come tale. La verità riconosce il bene: lo riconosce perché la verità è in origine essenzialmente conoscenza del bene, nel senso oggettivo del genitivo.

La verità dunque è connessa al bene, e in quanto tale, in quanto è questo sguardo in prospettiva, sguardo capace di discernere, di riconoscere, essa anche salva. Salva proprio in virtù del fatto che non permette che il bene non sia distinto da ciò che non lo è. Salva nella misura in cui la parola dell’uomo che partecipa di questa luce, e si inscrive in questo principio, può vedere e riconoscere anch’egli il bene.

La verità non è il vedere neutro, quello per cui l’immagine è data ma non è riconosciuta e non è capace di parola. La verità è riconoscimento, è il modo in cui la cosa vista o capita è profondamente significativa, portatrice di significato. La verità è anche attenzione. La parola è il luogo in cui la verità si fa presente, prende forma e chiama. Essere nella verità significa essere capaci di attenzione, di guardare, di guardare con attenzione, nella direzione della tensione aperta dalla luce del bene.

2. Verità e libertà

Verità, si è detto, chiede anche la cifra della libertà, per significarsi, e per significarsi come significato di bene.

La riflessione intorno alla fenomenologia del modo di significare dell’uomo mostra un’ontologia che riferisce sempre della verità in un modo tale ch’essa non possa essere mai negata, e della libertà in un modo tale ch’essa sia vissuta come l’unica e vera condizione dello stare della verità. Uno dei nomi in cui è custodito il senso di quanto detto è quello di confessione, intesa come il momento in cui la verità è liberamente incontrata, atto libero con cui la verità è riconosciuta e riaffermata. Accanto alla confessione c’è il significato del perdono, inteso come il modo di ridire il

bene, dopo la comparsa della sua negazione. Questi due nomi sono entrambi significati secondi, in cui si protegge il significato del primo nome, quello dell’essere che è. Il nome primo, l’essere che è (ed è come verità, e significa bene) è anche -per il suo essere primo ed unico, nuovo, primigenio- l’ultimo. Per l’esperienza dell’uomo, che il significato dell’essere stia come l’ultimo, significa ch’esso si mostra come possibilità sempre disponibile di essere e fare verità, come possibilità di ricominciare sempre ancora da capo il significato originario dell’essere. Così, infatti, il darsi sempre possibile della confessione, dice che l’ordine della verità non può mai essere negato dalla libera volontà con cui l’uomo rifiuta di mettersi in relazione ad esso. Il significato di verità è ultimo nel senso che la verità resiste ad ogni volontà di disfarsi di essa.

Il significato di verità (dell’essere come nome di verità: ma poi il linguaggio non può rendere conto, attraverso le sue categorie -che distinguono soggetto e predicato- della semplicità di un soggetto che è allo stesso tempo predicato) è profondamente anche significato di libertà perché l’essere che è, è il primo, e prima del primo non c’è niente da cui una libertà possa essere misurata. E niente c’è nemmeno dopo, perché il primo è anche l’ultimo –è il per sempre- e perciò è assolutamente libero. “Libero” è tuttavia ancora un significato che distinguiamo noi, nel tentativo di capire questo movimento da dentro la nostra esperienza di un’ontologia finita. Essere ed essere libero è infatti un solo nome, quello che dice l’essere come se stesso, l’essere che è, libero, vero, di bene.

Al principio è, allora, la libertà della verità. La verità nasce libera, per dirlo con una metafora. Tuttavia, se il nome di verità è significativo, è tale, cioè, in quanto dice di una relazione, in quanto cioè dice di un modo in cui il primo si manifesta ed è (per cui fuori da questa relazione, verità non ha significato), il nome di libertà, invece, indica -sempre forzando il linguaggio- il momento iniziale, il momento iniziale del nome del significato dell’essere che è sempre, cioè l’inizio del sempre. Libertà designa il modo in cui l’essere è in relazione al non-essere, in relazione a quello che c’è fuori dalla casa ch’egli è. Verità, diversamente, è il significato dell’essere secondo il modo in cui l’essere si pone in relazione a sé. Il nome di verità, infatti, indica la relazione necessaria tra l’essere e appunto, il suo essere, tra l’essere e il suo esserci.

A differenza della perfezione del nome dell’essere, i nomi secondi non sono perfettamente relativi. Il nome di libertà è dunque un nome ordinato secondo la prima libertà, e si presenta nell’uomo come facoltà di libero arbitrio.

Una delle categorie però in cui il significato di libertà si mostra in tutta la sua forza nell’ontologia del finito è quella del nuovo (la nascita, il bambino, la nuova generazione). La possibilità del nuovo, del non ancora venuto, mostra l’essere secondo libertà, anche se, a differenza dell’essere che è, nell’ontologia del finito la libertà deve ordinarsi alla verità per conservare la sua forza di libertà. Essa è assolutamente libera nei confronti della scelta di ordinarsi o meno, ma non è libera di porre un nuovo significato dell’essere. Non è libera di porre un nuovo significato in modo tale che il nome dell’essere che è venga dimenticato. Non è, cioè, la libertà seconda, potente alla stesso modo in cui è potente la libertà dell’essere: essendo seconda e ordinata non può sostenere la contrapposizione originaria al niente. La libertà seconda è in relazione alla libertà prima, e da questa relazione prende il suo nome. Per questo motivo anche, la libertà seconda non è mai tale da nascondere il significato dell’essere. Questo riaffiora sempre, anche se dimenticato e negato dall’esperienza dell’ontologia del finito. Riaffiora come il significato ultimo, come l’ultimo nome che sulla terra ha il nome dell’essere: come verità confessata, e come il bene del perdono, in modo tale che nessun nome dell’ontologia possa impedire al nome originario di significarsi e di continuare a significarsi. Il significato del primo nome, la proposizione impronunciabile, fuori da tutte le categorie del discorso perché fuori e al di là di tutte le categorie dell’ontologia del finito, è un significato che non dipende da niente, un significato che si dice e si dirà sempre. Che si è detto, si dice e si dirà sempre. È un significato che non può cambiare perché esso sta come nome, come il nome, e quindi, come ciò che non cambia.

I nomi della terra sono liberi, e liberi dalla loro relazione con la verità; ma il libero porsi dei significati dell’agire significativo che è l’uomo porta sempre addosso il segno della sua maternità, della sua forma secondo verità. Lo porta, al modo del significare ultimo, dell’ultimo significato.

Il significato che può stare per ultimo, ossia che può neutralizzare gli altri, mostra il significato primo: l’ultima parola è quella che può (nel senso che ha potere) su quanto la precede.

3. Libertà e necessità, volontà e verità

Il pensiero è libero nel suo dare nomi, ma non è libero in relazione a ciò che, malgré lui, significa per il fatto stesso di dirlo, cioè non è libero nei confronti di quel determinato significato che è se stesso come possibilità di significato, come relazione. La parola è intenzionalità a qualcosa, e su questo qualcosa ha presa; ma ciò su cui non ha presa, è su se stessa in quanto segno che mostra

il darsi e la possibilità del movimento del logos-pensiero. Poiché manifesta il pensare, la parola è come il segno “ecco” che immediatamente significa l’essere nel modo della verità, cioè nel nome dell’essere verità. Non si dà gesto del tendere il braccio, come non si pronuncia “ecco” se non si dà anche la possibilità della relazione, all’interno della quale solo un significato è possibile.

Per queste ragioni la parola si individua nel suo essere luogo della libertà e della necessità. Libertà quanto al significato (al movimento di porre significati) e necessità quanto al dire e al mostrare il nome dell’essere verità. Il nome di verità non può essere negato: anche la parola che volesse negare di essere “ambasciatrice”di esso, dovrebbe appunto “negare”, e quindi mostrare in questo modo lo sfondo-relazione di ciò che essa vuole negare.

Si è detto che nell’ontologia del finito il significato di verità e quello di bene non si mostrano immediatamente come un unico significato, come invece dobbiamo supporre avvenire per quanto riguarda il significato dell’essere che è. Significato semplice che dice insieme di verità che è bene. L’esperienza del significato della verità si offre all’uomo in termini di verità logica, in relazione cioè all’esperienza del pensiero che riflette l’essere. L’esperienza del significato di bene, invece, riguarda il modo in cui l’uomo è si adegua al predicato “è”, ovvero non può essere, il significato del bene, solo pensato. L’essere dell’uomo è nel modo della vita, nel modo cioè del tempo e della scelta, del tempo della scelta. Perciò, il vero significato di verità tale ch’esso si mostri (come è in origine) intimamente legato a quello di bene, l’uomo può cercarlo solo nella verità di sé come nome proprio, come esperienza esistenziale concreta e irripetibile La libertà dell’uomo è dunque la libertà di sé come nome proprio, ed esso pone significati -è- attraverso il modo della volontà di significare. La volontà è il modo in cui l’uomo agisce la sua libertà di significato, che è libertà di nomi. In questa accezione, volontà è da distinguersi da desiderio, che ci pare, in accordo con il pensiero di C. Vigna (ma anche sulla scia delle riflessioni di Agostino), essere sempre segnato dal nome di verità, essere sempre ordinato al nome dell’essere, e proprio per questo diverso dalla volontà.1 Desiderio è il modo in cui i nomi secondi dell’ontologia del finito si dispongono in relazione al nome dell’essere che è. E in certo modo l’etimologia ci è amica, in quanto desiderio dice di una distanza da colmare, che sarebbe proprio quella, nel nostro vocabolario, tra il nome primo e i nomi secondi.

La volontà invece, a differenza del desiderio, è il modo in cui si agisce la libertà in modo nuovo, che può anche non essere ordinato al significato della libertà che è sempre verità. Se il

desiderio è sempre vero, la volontà può esserlo e può non esserlo. La volontà come la sperimenta l’uomo non ha dunque sempre potere, non è sempre potente, non è possibile cioè avere potere su ciò che si vuole, per il fatto stesso di volere.2 Il nome di potere è, tuttavia, uno dei nomi più difficili da spiegare3, perché è uno dei nomi in cui si significa l’essere che è, accanto a quello di verità, di libertà, di bene. Qui lo si nominerà secondo il modo e il linguaggio che abbiamo deciso di parlare dall’inizio, nella speranza di non fargli troppo torto. Come allora libertà è il nome dell’essere in relazione al suo contrario, al suo (impossibile) fuori, e come verità è il nome dell’essere in relazione a se stesso (al suo essere necessario nel modo in cui è), il nome di potere è il nome che significa l’essere in relazione al suo tenere uniti i due modi della libertà e della verità; potere dice di un movimento, di un modo di essere, che è quello dell’essere che è; dice della verità del nome di essere in modo che il contrario sia l’impossibile pensabile, e al contempo, lo dice, il nome di essere, in modo che l’essere sia anche possibilità di altri significati d’essere, e quindi possibilità di altro essere nella forma del nuovo. In questo senso, potere dice del nome dell’essere in modo che l’essere sia anche il sempre nuovo, sia nel modo dell’essere nuovo. L’essere è, cioè, può (ma questo non corrisponde affatto a dire: “l’essere può essere”. Corrisponde all’affermazione che “l’essere è potere, l’essere è nel modo di potere”). E poiché il significato dell’essere è bene, possiamo concludere che l’essere è potere di bene.

Nell’esperienza di un’ontologia del finito, il potere dell’essere si manifesta in quel significato che è il tempo, che è l’essere come tempo. L’uomo non ha, infatti, potere sul tempo, così come non ha potere sul nome di essere. Se così non fosse, l’uomo potrebbe tutto ciò che vuole.

Alla luce delle considerazioni intorno al nome di potere, diciamo allora che il nome di volontà (da intendersi distinto da quello di desiderio) è propriamente nome dell’ontologia del finito. È un nome, cioè, che non appartiene al significato dell’essere che è, perché l’essere che è eminentemente potere. È potere ciò che vuole (“vuolsi così colà dove si vuole ciò che si puote”, bisognerebbe affermare, invertendo i termini dell’espressione dantesca)4, perché il volere non è altro da se stesso, non essendo(ci) niente fuori dal suo significato, fuori dal significato dell’essere

2 Si intende qui potere nel senso di essere capace in atto, e non nel senso di potenza come potenzialità nei confronti di

qualcosa. In questo secondo senso, infatti, è possibile rovesciare i termini della proposizione e dire “posso, ma non voglio”.

3 Il discorso merita di essere tuttavia approfondito con ulteriori distinzioni. C’è infatti un senso del nome potere che dice

di potenzialità, e non esercitare potere, come era questione qui sopra. Il potere-potenzialità richiama la comune radice con l’essere. In questo senso, nel senso cioè di potere –potenzialità, l’ordine dei nomi di potere e volontà può essere capovolto, come appare nella frase di Agostino: cum vult, potest ( lib. arb. II, 1, 2).

4 Cfr. D. Alighieri, La divina Commedia, Inferno, V, 21-24. Su questo tema torneremo nel capitolo V della parte

potente, dell’essere che è potere di bene. Ciò che l’essere vuole anche lo può, ed esso non vuole che significarsi come essere.

Il nome di volontà come lo sperimenta l’uomo non è dunque uno dei nomi dell’essere che è; lo è forse il nome di desiderio, poiché nel desiderio convive una forma di potere, nella misura in cui desiderio ha anche sempre in sé l’oggetto che lo chiama e lo muove ad essere. Si può, cioè, vivere desiderando5.

Riassumendo diciamo così: la volontà, nell’uomo, indica il nome per cui nell’uomo essere e potere sono due nomi separati. Indica, cioè, il senso della separazione tra il nome di essere e quello di potere.

4. I modi del significato per l’ontologia del finito: verità e libertà, ossia del conoscere e del volere.

Il significato, nell’esperienza dell’ontologia del finito, è luogo in cui si mostrano insieme libertà e necessità, perché il modo in cui l’uomo è relazione ad esso è sia quello della volontà di significare e creare significati, sia quello della verità del significato dell’essere che si impone. Il nome di verità mostra il lato necessitante di quella relazione che è ogni significato (ogni significato è verità di una relazione), mentre il nome di volontà mostra il lato secondo libertà.

Il modo in cui si apre il significato per l’uomo, cioè, è da un lato necessitante nel senso che è significato ricevuto, significato dell’essere: il processo di conoscenza è di questo tipo.6 E tuttavia, il

5 Diciamo questo alla luce della consapevolezza che nella riflessione sulla trinità condotta da Agostino volontà è invece

proprio uno dei nomi principali dell’essere che è, ed è il nome con cui si designa la persona dello Spirito, ovvero l’amore. Qui non si vuole negare che uno dei nomi dell’essere sia quello di amore, si vuole piuttosto insistere sul fatto che l’amore – il bene – non è, nel significato dell’essere che è, voluto, nel senso che ci sarebbe una distanza tra ciò si vuole e l’oggetto voluto. Anche per Tommaso d’Aquino, la volontà di Dio è un modo di relazione all’oggetto per cui «la volontà ama anche ciò che ha e in esso si compiace», Summa Theologiae, q. 19, a. 1.

6 Questa è una semplificazione della complessità del problema. Il modo cioè in cui l’uomo conosce, se dice di

un’adeguazione, non annulla del tutto la componente di libertà che c’è nel procedimento con cui la cosa viene a conoscenza. La libertà infatti porta almeno anche il nome di immaginazione nel senso di facoltà che entra in gioco nel conoscere. Tuttavia, una semplificazione non è una scorrettezza. La complessità della cosa, infatti, non annulla il fatto che il conoscere dica essenzialmente dell’attività passiva con cui la mente riceve delle forme species, adottando il vocabolario aristotelico-tomista. Per quanto sia legittimo allora accostare la semantica del conoscere con quella dell’interpretare, crediamo di potere tener fermo questo: il conoscere secondo verità, cioè il conoscere il nome-logos delle cose non è lo stesso procedimento per cui si interpreta. Interpretare, dice già della libertà che caratterizza l’essere uomo in tutti gli altri ambiti, eccezion fatta per quel modo di volere che è il desiderare, il quale come si è accennato, sta

nome di verità, il significato di verità si manifesta totalmente non solo in questo modo necessitante che è la forma della corrispondenza (dell’essere conosciuto dall’uomo), ma in quell’altro modo che